Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Trezzo (e non solo) [da completare]

Come rilevato anche altrove, nella sua minuta del 19 maggio Francesco Sforza riferisce la ricezione della lettera di Antonio da Trezzo cui è allegata la missiva del re d’Aragona inerente quanto stava accadendo in Savoia. Il duca di Milano commette però un errore di datazione attribuendola al 17 aprile, mentre essa è datata 27 aprile. Vuole così far capire che in questo modo ha potuto inviare a Corradino Giorgi, suo ambasciatore in Savoia, la lettera del sovrano insieme alla “storia alla rovescia” delle “prese” all’inizio di maggio. Antonio da Trezzo segnala la ricezione della missiva ducale tratta dalla minuta del 19 maggio in una lettera al termine della quale si legge “Datum Neapolis, die VIIII° iunii 1458″. Il problema è che nella sua lettera del 30 maggio Antonio da Trezzo segnala di avere ricevuto lettere ducali datate 17 e 20 maggio. Poi nella lettera del 5 giugno ricorda la propria lettera del 30 maggio e la ricezione in quest’ultima della missiva ducale del 20 cui si scopre erano allegate copie di lettere di Giovanni del Carretto e Lancillotto Bossi. In sostanza Antonio da Trezzo segnala la ricezione della lettera ducale del 19 maggio il 9 giugno, ossia “dopo” che nella missiva del 30 maggio aveva riferito la ricezione della lettera di Francesco Sforza del 20 maggio, fatto poi ribadito nella missiva del 5 giugno, come a sottolineare di far bene attenzione a questo curioso aspetto cronologico. Scrivendo che Antonio da Trezzo ha ricevuto la lettera ducale del 19 “dopo” quella del 20, si vuol far intendere che all’opposto la lettera del re d’Aragona in apparenza allegata alla missiva di Antonio da Trezzo datata 27 aprile, di cui il duca segnala la ricezione appunto nella sua minuta del 19, è arrivata “prima” di quanto farebbe pensare la data 27 aprile della lettera di Antonio da Trezzo, ribadendo così che l’errore commesso dal duca nella sua minuta del 19 di attribuire la lettera del 27 aprile di Antonio da Trezzo al 17 non è causale, ma si tratta di un modo per rilevare l’esistenza di una “corrispondenza sommersa” di cui non abbiamo nulla. Benché la lettera del re sia datata 25 aprile (giorno sul quale occorre riflettere, perché è l’ultimo in cui può cadere la Pasqua e secondo lo stile francese l’anno comincia dal giorno di Pasqua, posticipando sul moderno, al quale corrisponde appunto da Pasqua al 31 dicembre), in realtà essa è stata inviata allegata a una lettera di Antonio da Trezzo del 17 aprile e, come detto, è così potuta giungere a Milano in tempo per essere mandata in Savoia all’inizio di maggio con le “prese”. Della lettera del 9 giugno di Antonio da Trezzo esiste quella che a pagina 643 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore definisce “Copia reformata dei primi due capoversi”, che però è curiosamente datata 10 giugno, come peraltro rilevato dallo stesso studioso, ossia “Datum Neapolis, die X iunii 1458”, all’inizio della quale non si è tralasciato di riportare la ricezione della lettera tratta della minuta ducale del 19 maggio. Per la verità Francesco Senatore ha intitolato un testo precedente al suddetto I volume, che è stato pubblicato nel 1997, Falsi e “lettere reformate” nella diplomazia sforzesca. Poi alle pagine 229-230 di quest’ultimo scrive: “Le lettere provenienti da Napoli o da altri stati potevano essere corrette e opportunamente adattate (‘reformate’) per venire poi spedite in visione in altri stati o mostrate ai relativi ambasciatori, sotto forma di copie o di estratti”. Premesso che rispetto al suddetto documento del 10 giugno, che presenta solo due capoversi rispetto ai cinque della lettera del 9 giugno, forse la denominazione più corretta sarebbe “estratto”, tuttavia, poiché esso reca l’intestazione “Copia ad illustrissimum dominum ducem Mediolani etc.”, di cui peraltro a pagina 643 Francesco Senatore non trascrive la lettera “d.” per “dominum”, in effetti, nonostante l’intestazione ma anche per via di quest’ultima, forse la definizione più corretta sarebbe “estratto nel quale la copia ha riguardato solo due capoversi”.

Lo studioso segnala anche che nel verso sarebbe scritto “di grafia coeva” “Copia litterarum domini Antonii de Tricio”. In realtà, a parte il fatto che la proposizione “de” non c’è, vi è scritto “Copia litterarum domini Antonio Tricio”. Sopra le lettere abbreviate “dni” vi è infatti un segno abbreviativo, consistente in una sorta di linea tendente dal basso verso sinistra all’alto verso destra, che inizia da circa metà della “n” con una specie di uncino rivolto verso il basso terminando con un cerchiolino che non può che riferirsi alla successiva lettera “A.”, anche se si trova all’inizio di essa. Questa osservazione è confermata dal fatto che la precedente parola “litterarum” è resa con le lettere “lra” sopra le quali è presente un segno abbreviativo e che esse sono seguite da un segno abbreviativo con significato proprio per le lettere “rum”. Il problema è che il primo segno comincia verso la fine della “r”, non al suo inizio, come dovrebbe essere secondo quanto si può osservare a pagina 206 del Dizionario di abbreviature latine ed italiane di Adriano Cappelli, e finisce con un uncino rivolto verso l’alto situato più avanti rispetto al segno abbreviativo con significato proprio, quasi sopra la “d” del sostantivo “domini” abbreviato, sempre in modo diverso rispetto a quanto riportato da Adriano Cappelli, secondo il quale la linea sopra le lettere “lra” non dovrebbe andare oltre la vocale “a”. In questo modo si vuole suggerire al lettore che il cerchiolino del successivo segno va riferito alla vocale “A.”, la quale non deve essere intesa come se si trattasse del caso genitivo “Antonii”, bensì del dativo “Antonio”. Un’ulteriore conferma di quanto appena scritto è data dal fatto che il segno abbreviativo sopra le lettere “dni” potrebbe essere interpretato come una consonante “d” tracciata in orizzontale, quasi a richiamare quella “d” della preposizione “de” riportata da Francesco Senatore, ma in realtà assente, il cui cerchiolino dovrebbe trovarsi dopo la “A.”, volendo così di nuovo suggerire che quest’ultima va intesa come “Antonio” e non “Antonii”.

En passant segnaliamo che alle pagine 230-231 del saggio sopra menzionato, riferendosi ad alcuni documenti di Antonio da Trezzo mostrati dal “maggio 1456” “agli ambasciatori genovesi a Milano” o recapitati a Genova al doge, lo studioso parla di “copia falsificata”, definizione che però pare un po’ ambigua, soprattutto se si considera quanto scritto subito dopo, ossia “come ad esempio risulta evidente se si legge un’annotazione sulla lettera di da Trezzo del 25 ottobre ‘ista reformata fuit et missa fuit copia domino Petri Cotte Ianue die XXII novembris 1456’”. Per la verità non sembra così “evidente” che una copia, soprattutto se si dichiara tale, possa essere considerata un falso, tanto è vero che nella nota 21 alle pagine 229-230 si legge: “Reformare era il termine usato abitualmente per indicare la correzione di bozze di accordi o trattati internazionali da parte di una delle parti […] Nei carteggi la falsificazione è definita con il verbo contraffare”. Fra l’altro all’inizio del terzo capoverso della lettera del 9 giugno si legge: “Heri circa le XXI hora visitai la maiestà sua et feceli certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello”, il quale aveva compiuto un viaggio andando prima dal re di Francia, poi in Borgogna presso Filippo il Buono e il delfino. Il riferimento ad Alessandro Sforza è assente nella “copia reformata” del 10 giugno. Il 10 giugno, data della “copia reformata”, Antonio da Trezzo scrive una lettera in cui in modo più ampio rispetto alla sua missiva del 9 giugno, da cui è stata appunto tratta la “copia reformata” ma datandola curiosamente in modo diverso, riporta l’ambasciata fatta al re per conto di Alessandro Sforza. Si noti che la missiva del 10 giugno non è pubblicata nel citato I volume dei Dispacci sforzeschi da Napoli, mentre in modo un po’ curioso lo è a pagina 648 il poscritto, del quale si dice: “poscritto a una lettera di pari data (ivi [ASM, SPE, Napoli], 198, 157)”, “157” che corrisponde alla numerazione moderna appunto della lettera del 10 giugno. Nel primo capoverso di essa si legge: “Lo illustre signor Alesandro, vostro fratello, me ha mandato una lettera de credenza in mia persona al signore re et un’altra ad mi directiva ad questa inclusa. Ho exposto alla maiestà del re l’ambassata che sua signoria me commette et in tal modo che credo havere satisfacto al prefato signore re et così alla signoria vostra per quello che già se disse qua, che vostra signoria havea mandato esso signor Alexandro per praticare etc. Nam essa maiestà me respose ch’el fosse el bene tornato et che lo ringratiava de lo aviso et le proferte ch’el gli faceva et se gli offeriva, potendo fare cosa che li piacia, et subiunxe ch’el non poria credere ch’el fosse andato per fare opera alcuna molesta alla maiestà sua, rendendose certo che vostra signoria non l’haveria consentito, come più largamente ad esso signor Alexandro ho scripto”. Come si può osservare, vi sono tre occorrenze del nome Alessandro, precedute dalla “s.” per “signor”: alla prima riga si trova “Alesandro”, alla quarta “Alexandro” e alla fine della settima “Alex” che sopra la “x” presenta un segno abbreviativo. Si noti che nell’ottava riga si legge solo “ho scripto”. Per sottolineare che l’obiettivo che ci si propone consiste nel mettere in risalto la lettera “x”, ci si potrebbe anche fermare qui. Per sicurezza preferiamo però esaminare anche il secondo capoverso, nel quale, se è vero che nella seconda riga in seconda posizione si trova “Alesandro”, prima di esso vi è però “meser”, che alla fine della prima riga è preceduto dall’abbreviazione “s.” con le lettere “re” poste in apice, quindi da “signore” e non “signor” abbreviato con la “s.” come nelle tre precedenti occorrenze. Si consideri, inoltre, che, allo scopo di sottolineare la differenza, al termine della nona riga “El s.” con le lettere “re” in apice si trova quasi in parallelo con “s. Alex” che sopra la “x” presenta un segno abbreviativo alla fine della settima riga. Inoltre al termine della quattordicesima riga sono scritte le parole “prefato signor Alesandro” con “signor” reso di nuovo con una “s.”, che si leggono anche al termine della quindicesima riga seguite dal participio “consideratis”, dopo il quale all’inizio della riga successiva vi è “considerandis”. Il problema è che quest’ultima parola è scritta per esteso, mentre “consideratis” presenta le lettere “con” rese con il segno abbreviativo “9”. Il “9” che sta per “con” e le lettere “con” scritte per esteso precedono la lettera “s”, volendo così evidenziare che il precedente nome Alessandro è scritto a volte con la “s” e altre con la “x”, con l’intento di porre l’accento su quest’ultima lettera e far capire che la missiva, datata 10 giugno, come la cosiddetta “copia reformata”, è anch’essa una copia, redatta dopo avere ricevuto una minuta da Milano. Questa considerazione è confermata dal poscritto. In esso si legge: “Post scripta. Tallam[.]anca in quest’hora me è venuto a trovare a casa et me ha dicto che heri circa le XX hore la febre assaltò gravemente el re”. Segue la descrizione dell’attacco di febbre che ha colpito il sovrano. Aprendo una breve parentesi su un tema che approfondiremo in seguito, occorre notare che nel nome Tallam[.]anca fra la “m” e la “a” è presente un segno, assente nel cifrario di Antonio da Trezzo pubblicato a pagina XIX del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli di Francesco Senatore, che consiste in un cerchiolino seguito da una croce. Quello che più gli si avvicina, pur essendo al contrario, è uno dei segni con i quali vengono rese le nulle (quest’ultimo è il termine presente nel cifrario; a pagina 400 di Uno mundo de carta Francesco Senatore accenna invece alle “nullae o litterae nihil significantes”, che nelle lettere in cifra sarebbero state distribuite “a caso nel testo” “per maggiore sicurezza”), che consiste in una croce seguita da un cerchiolino. In ogni caso, tornando al tema dal cui siamo partiti, la data riportata nel poscritto è la seguente: “Datum ut in litteris, die X iunii 1458”. Essa è davvero inconsueta, perché di norma in un poscritto si legge “Datum ut in litteris”, come per esempio nei due allegati alla missiva datata 9 giugno. Benché all’inizio di questi ultimi non sia scritto “Post scripta”, è piuttosto evidente che essi si configurano come due poscritti: alla fine del testo di entrambi si trova infatti “Datum ut in litteris”. Il motivo della curiosa formula “Datum ut in litteris, die X iunii 1458” del poscritto, in cui viene omesso il toponimo, che nella presentazione del documento da parte di Francesco Senatore a pagina 648 del I volume dei Dispacci sforzeschi da Napoli” è scritto “[Neapoli]”, fra parentesi quadre che non possono non lasciare perplessi, considerata la missiva datata “Neapolis, X iunii 1458” cui lo stesso poscritto viene collegato dal medesimo studioso, consiste proprio nel dare risalto al numero “X” della data. Con lo stesso obiettivo, mentre alla fine la datazione è priva del toponimo, all’inizio il testo presenta la vaga espressione “in quest’hora”, ora che però non è identificabile in alcun modo in base a esso. Si vuole così confermare che la lettera datata 10 giugno, come la cosiddetta “copia reformata”, è anch’essa una copia scritta sulla base di una traccia proveniente da Milano e analoga considerazione è possibile compiere a proposito del poscritto. Quanto appena affermato è confermato dalle parti in cifra che presenta la missiva del 9 giugno. Le loro decifrazioni si trovano in due fogli, indicati da Francesco Senatore a pagina 643 del citato I volume come “[B]”, mentre lo studioso identifica come “[A]” l’“Originale autografo”. Nel primo, che reca la numerazione moderna 155, ve ne sono cinque, nel secondo, numerato 156, tre, in quanto mancano le due dei documenti allegati.

Premesso che non è ben chiaro il motivo per il quale si sia fatto ricorso a una duplicazione dei fogli, per quanto sia parziale, anche se sarebbe possibile avanzare un’ipotesi, dato che le due decifrazioni in più del foglio 155 riguardano il “vescho de Modena” e nella seconda si legge che “Talamanca […] me dice che uno de li medici del re gli ha dicto ch’el fo scripto da Roma qua ch’el dicto veschovo era dimorato sei o otto giorni in Roma, nel quale tempo stette assai col papa”, la prima decifrazione è identica in entrambi di essi, mentre la seconda del foglio 155 è la seguente: “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se sonno ingegnati de fare intendere al duca ed de questo ne hanno facto venire littere da Roma”, che nel foglio 156 presenta un incipit differente: “Me è stato dicto che questi brazeschi se sonno ingegnati de fare intendere al duca et de questo ne hanno facto venire littere da Roma”. En passant notiamo che la decifrazione corretta sarebbe “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se son[o] ingiengnat[i] de fare intendere al duba et de questo ne hanno [f]acto venire letere da Roma ch’el”, che in sostanza è quella riportata a pagina 646 da Francesco Senatore, il quale però nella nota (a) si limita a segnalare “duca B; duba A, per scambio tra cifre simili” (è stato tracciato il segno “ga” al posto di “ge”), quindi, sbagliandosi, ha riportato “dito” al posto di “dicto”, non ha segnalato che le parole “sono”, “ingiengnati” e “letere” in B si leggono “sonno”, “ingegnati” e “littere” e infine non ha rilevato che in B la decifrazione termina con “Roma”, mentre in realtà prosegue con “ch’el”. Inoltre, per essere precisi, rileviamo quanto segue: in base al cifrario di Antonio da Trezzo il segno per la “o” finale di “son[o]” dovrebbe essere costituito da due brevi linee oblique tendenti verso l’alto a destra dalla seconda delle quali, circa verso la metà, si diparte una breve linea obliqua volta verso il basso, che però nel testo in cifra risulta essere orizzontale; la “i” finale di ingiengnat[i]” dovrebbe consistere in una sorta di linea tremolante con sopra, a sinistra, una specie di cerchiolino dal quale esce, per così dire, una linea obliqua tendente verso il basso che interseca la linea tremolante, ma nella parte in cifra la linea rivolta verso l’interlinea è assente; infine la “f” di “facto” dovrebbe essere rappresentata con una croce e un punto al centro di un immaginario quadrato presente in alto a sinistra, ma nel testo in cifra esso non si vede in alcun modo. In ogni caso, tralasciando queste considerazioni, la terza decifrazione è sostanzialmente identica nei due fogli, anche se nel 155 si legge “sono” e “convene” e nel 156 “sonno” e “conviene”. Trascurando il fatto che, come detto, il foglio 155 presenta cinque decifrazioni e il secondo solo tre, la differenza maggiore tra i due consiste dunque nell’incipit della seconda decifrazione, all’inizio della quale nel foglio 155 è menzionato “Talamanca me ha dicto”, il cui nome in cifra viene ripreso nel poscritto del 10 giugno anche se scritto Tallam[.]anca, si trova subito dopo “Post scripta” ed è decifrato “Tallamanca” vicino al bordo superiore del foglio, spostato verso sinistra, risultando quindi sopra, anche se a una certa distanza, rispetto allo stesso nome in cifra. In realtà, come si sarà capito in base a quanto sopra anticipato, la decifrazione fornita non è corretta per via del segno presente nel nome in cifra, sopra segnalato fra parentesi quadre, assente nel cifrario di Antonio da Trezzo. Lascia pertanto perplessi il fatto che a pagina 648 Francesco Senatore, il quale pare avere decifrato le parti in cifra, in questo caso scriva “Tallamanca”, fra l’altro prima precisando “Nome in cifra decifrato nell’interlinea”, quando invece la decifrazione si trova da tutt’altra parte. Cercando di riassumere, all’inizio del terzo capoverso della lettera datata 9 giugno Antonio da Trezzo scrive: “Heri circa le XXI hora visitai la maiestà sua et feceli certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello”. Quindi l’ambasciatore ha parlato con Alfonso il Magnanimo di Alessandro Sforza il giorno precedente, ossia l’8 giugno. Aprendo una rapida parentesi, notiamo che Antonio da Trezzo aggiunge: “Me parve che, da l’altra volta ch’io haveva veduto essa maiestà, quella fosse molto mancata et in modo che me pare più pres[.]o sia da d[ug]itare de la morte che sp[..]are de (v)ita, ma, mancando, me pare essere certo ch’el duca de Calabria succederà nel Stato”. La decifrazione presente nei fogli 155-156 è la seguente: “et in modo che me pare più presto sia da dubitare de la morte che sperare de la vita, ma, mancando”. A pagina 644 a una lettura superficiale Francesco Senatore parrebbe avere seguito quest’ultima, anche se la congiunzione iniziale “et” è in tondo e non in corsivo, tuttavia, poiché fra “de” e “vita” è assente l’articolo “la”, è corretto inferire che abbia provveduto a decifrare personalmente il testo. In nota non ha però segnalato quanto segue: nella parola “presto” la “t” è resa con il segno “a”, il quale in realtà non può stare in alcun modo per quella lettera né per la verità per nessun’altra, anche se al limite si potrebbe trovare una somiglianza con il segno per la sillaba “ep”, che nel cifrario consiste però in una “a” che a destra in basso presenta una breve linea orizzontale, che però è molto più pronunciata rispetto a quella visibile nel testo in cifra, la quale è solo accennata; nel verbo “dubitare” la sillaba “ub” non è resa con il corretto segno “ga”, ma con quello “gu”, che sta per “vg”, anche se in quest’ultimo le due lettere sono collegate in alto da una breve linea orizzontale che non dovrebbe esservi ed è invece presente nel segno “ga”; per quanto riguarda la successione di lettere “vg”, poiché nella lingua italiana di essa non vi possono che essere rarissime occorrenze, ammesso ve ne siano in alcune parole, è evidente che in realtà la “v”, benché nel cifrario sia indicata come tale, dovrebbe stare per la vocale “u”, come pare suggerire lo stesso cifrario, anche se in modo ambiguo: in esso, infatti, al segno “ga” corrispondono le lettere “ub”, a “ge” “uc”, quindi a “gi” “vd”, poi seguono nove segni caratterizzati dalla “g” che stanno per due lettere la prima delle quali è sempre una “v”, finché si arriva ai segni “g+” e “gg” corrispondenti rispettivamente alle sillabe “ve” e a “vu”; nel verbo “sperare” le lettere “er” sono rese con un segno in realtà assente nel cifrario, ossia una “a” che a destra a mezza altezza presenta una breve linea orizzontale, la quale tuttavia dovrebbe trovarsi in alto; nelle parole “de vita” la “e” e la “v” sono rese con il segno “a” sopra il quale vi è una “r”, corrispondente alle vocali “eu”, la cui seconda lettera, tuttavia, per analogia con quanto scritto sopra a proposito della consonante “v” da leggersi come una “u”, può essere intesa come una “v”. Per concludere con un’inezia, segnaliamo che dopo la parola “vita”, lo studioso ha posto un punto e virgola, rispetto al quale sarebbe stato preferibile una virgola, considerato che segue la congiunzione avversativa “ma”. Riprendendo il discorso in merito all’ambasciata fatta da Antonio da Trezzo per conto di Alessandro Sforza, il problema, che affronteremo più avanti, è che verso la metà della seconda riga del capoverso precedente, che quindi è il secondo della lettera e composto da quattro righe, si legge: “Heri matina li medici gli [alla “prefata maiestà”] dedero certe pilule, le quali, perché non operavano, l’aiutarono con uno clistero, in modo che fin ad quest’hora, che è le XVIII, sua maiestà è stata assay bene. De quello seguirà avisarò la excellentia vostra”. Per ora ci limitiamo a rilevare che il secondo e il terzo capoverso sono in evidente contraddizione. È vero che non si specifica l’ora in cui il re è stato aiutato “con uno clistero”, ma si può escludere che essa sia successiva a “circa le XXI hora” in cui Antonio da Trezzo ha visitato Alfonso il Magninimo per fargli l’ambasciata per conto di Alessandro Sforza, notando che “essa maiestà […] fosse molto mancata”, addirittura al punto che gli era parso “più pres[.]o sia da d[ug]itare de la morte che sp[..]are de (v)ita”, perché poco prima si dice che “li medici” hanno iniziato a occuparsi di lui sin dalla “matina” e si può quindi inferire con ragionevole certezza che il salutare “clistero” sia stato fatto prima di “circa le XXI hora”. Chiudendo la parentesi e cercando di nuovo di riassumere, “circa le XXI hora” dell’8 giugno Antonio da Trezzo si reca presso il re inviato da Alessandro Sforza, l’informazione viene riferita in modo succinto nel terzo capoverso della lettera datata 9 giugno, che il capoverso precedente ci permette di capire essere stato redatta “ad quest’hora che è le XVIII”, anche se quest’ultima informazione di carattere temporale insieme all’altra citata risulta problematica rispetto a quali siano le esatte condizioni di salute del sovrano. La missiva del 9 giugno è accompagnato da due fogli, di cui è impossibile identificare il momento della stesura, con le decifrazioni delle parti in cifra del testo della lettera stessa. Fra i due fogli balza agli occhi in quello con la numerazione moderna 155 la seconda decifrazione, che inizia con “Talamanca me ha dicto”, mentre nel foglio 156 la stessa decifrazione comincia con le parole “Me è stato dicto”. Della missiva del 9 giugno vi è poi una cosiddetta “copia reformata”, che però è datata 10 giugno, giorno che costituisce la data di due documenti che recano la numerazione moderna 157 e 158 e la firma di Antonio da Trezzo: nel primo capoverso del documento 157, che è composto da due capoversi, si riferisce dell’ambasciata effettuata due giorni prima presso Alfonso il Magnanimo per conto del fratello di Francesco Sforza; il documento 158 è invece un poscritto costituito da due capoversi nel primo dei quali si racconta del nuovo grave attacco di febbre del re: quest’ultimo inizia con il nome “Tallam[.]anca” seguito dall’espressione “in quest’hora”, la quale non è però possibile identificare in base al testo, e si conclude con la curiosa datazione “Datum ut in litteris, die X iunii 1458” in cui manca il toponimo. Cercando per il momento di circoscrivere il discorso, rileviamo come con la seconda decifrazione del foglio 155 il cui incipit è “Talamanca me ha dicto”, diverso da quella presente sul foglio 156, si prepari il lettore al poscritto, nel quale subito dopo “Post scripta” è scritto il nome “Tallam[.]anca” decifrato però “Tallamanca”. L’eventuale obiezione che il collegamento fra la seconda decifrazione del foglio 155 e il poscritto sia arbitrario perché nel primo la quinta decifrazione comincia anch’essa con il nome “Talamanca” non può essere accolta, perché quello che importa è la differenza rilevata fra gli inizi della seconda decifrazione presente nei fogli 155 e 156: poiché le parole “Me è stato” di quest’ultimo sono del tutto inventate, è evidente che si vuole dare rilievo all’incipit “Talamanca me ha” del foglio 155, che costituisce la decifrazione corretta, e soprattutto al nome “Talamanca“. Ribadendo che per ora ci limitiamo nelle osservazioni, il fatto che, rispetto alla seconda decifrazione del foglio 155, il nome in cifra sia caratterizzato da una “l” in più e all’opposto da un segno non presente nel cifrario di Antonio da Trezzo, la cui assenza è sottolineata dal fatto che si trova inserito all’interno della terza persona singolare del verbo “mancare” che costuisce parte dello stesso nome, mira a sottolineare la vaghezza dell’espressione immediatamente successiva “in quest’hora”, che, come abbiamo già rilevato, va posta in relazione alla curiosa datazione finale priva del toponimo per dare risalto al numero “X” della data. Poiché quest’ultimo è lo stesso della cosiddetta “copia reformata”, si vuole ribadire che il poscritto e inevitabilmente anche il documento cui esso va associato sono copie redatte sulla base di una minuta giunta dalla cancelliera sforzesca. Volendo limitarsi nelle considerazioni, ci si potrebbe fermare qui, ma in realtà riteniamo non sarebbe corretto. Iniziamo quindi il ragionamento dal secondo capoverso del poscritto, che costituisce la settima riga e l’ottava del documento, nel quale si legge quanto segue: “Lo iudeo, che dice intende molte cose future, dice ch’el vuole gli sia tagliata la testa s’el re more de questo male”. In questa fase non ci pare necessario cercare di identificare con certezza a chi ci si possa riferire con il sostantivo “iudeo”. Magari potrebbe essere Gesù, cui si alluderebbe per via indiretta con un accenno a Giovanni Battista, di cui alle pagine 204-205 del Dizionario dei soggetti e dei simboli dell’arte di James Hall si dice: “Precursore o nunzio di Cristo, costituisce la connessione fra l’Antico e il Nuovo Testamento, essendo considerato l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento e il primo santo del Nuovo […]”. Si aggiunge inoltre che battezzò Cristo e “Venne fatto imprigionare da Erode Antipa, figlio di Erode il Grande”, “che aveva sposato Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, e il Battista disapprovava ciò”; per questo motivo “fu fatto imprigionare dal re su istigazione della regina” e “poi fu decapitato a causa di una promessa fatta impulsivamente dal tetrarca alla figliastra Salomè”: “Durante un banchetto fatto allestire dal re”, infatti, “la figliastra Salomè danzò davanti a lui. L’entusiasmo di Erode fu tale che impulsivamente promise alla giovane che le avrebbe accordato qualunque favore avesse chiesto. Allora Erodiade, per vendicarsi del Battista, fece chiedere alla figlia la testa di Giovanni sopra un piatto. Erode, benché contrariato, tenne fede alla promessa”. Alle pagine 175-176 del Lessico di iconografia cristiana di Gerd Heinz-Mohr, Giovanni Battista viene inoltre definito “annunciatore del prossimo inizio del regno del Messia” e si precisa che “L’antica teologia cristiana gli diede, come ultimo profeta, il rango particolare di ‘precursore’ di Cristo”. In ogni caso, tralasciando quanto appena scritto, al momento ci pare più interessante sottolineare la ripetizione del verbo “dice”, la cui seconda occorrenza si trova non certo a caso sopra il numero romano “X” della particolare data del documento. Si vuole così far capire che il verbo può essere inteso anche come “dece”, ossia come un riferimento al numero 10. A questo punto si può passare a prendere in considerazione l’iniziale nome “Tallam[.]anca”, il quale da un lato rimanda all’ultimo capoverso della lettera datata 9 giugno, composto da otto righe, in cui tra la seconda e la quarta si legge che “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se son[o] ingiengnat[i] de fare intendere al duba et de questo ne hanno [f]acto venire letere da Roma ch’el”, mentre nella seconda decifrazione del foglio 155 è scritto “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se sonno ingegnati de fare intendere al duca ed de questo ne hanno facto venire littere da Roma”, dall’altro con il suo segno mancante nel cifrario di Antonio da Trezzo al fatto che subito dopo il nome è riportata, come già sottolineato, la vaga espressione “in quest’hora” seguita da una descrizione della forte febbre che ha colpito il re: essa a sua volta richiama il secondo capoverso della lettera del 9 giugno nel quale si legge “che fin ad quest’hora, che è le XVIII, sua maiestà è stata assay bene”, che tuttavia è essa stessa vaga, in quanto problematica rispetto a quella menzionata nel capoverso successivo, nel quale, dopo avere scritto di avere fatto “certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello”, l’ambasciatore sforzesco si esprime in modo molto preoccupato rispetto alle condizioni di salute di Alfonso il Magnanimo. Precisiamo che il fatto che il segno assente nel cifrario sia al contrario rispetto a uno di quelli che sta per le nulle non significa che esso debba avere un’applicazione, per così dire, specifica dal punto di vista temporale, nel senso che non vi è alcun indizio che permetta di affermare con certezza che si voglia far capire che il poscritto sia stato scritto prima del documento al quale è associato, nel cui primo capoverso si racconta dell’ambasciata effettuata per conto di Alessandro Sforza, né che le informazioni contenute nel secondo e nel terzo capoverso della lettera del 9 giugno vadano intese in una qualche particolare sequenza, perché in realtà esse sono così contraddittorie che non è possibile ordinarle in alcun modo. Analoga considerazione si può fare riguardo al senso: rispetto sia ai due capoversi della missiva del 9 giugno, nei quali in sostanza si parla della salute di Alfonso d’Aragona e non si capisce quale mai potrebbe essere un’eventuale “storia alla rovescia” cui si volesse accennare, sia al primo capoverso del documento datato 10 giugno, cui rimanda il poscritto, nel quale fra la quarta e la settima riga si legge: “Nam essa maestà […] subiunxe ch’el [Alessandro Sforza] non poria credere ch’el fosse andato per fare opera alcuna molesta alla maiestà sua, rendendose certo che vostra signoria non l’haveria consentito”. A proposito di quest’ultimo aspetto, nella lettera del fratello di Francesco Sforza datata 26 maggio e inviata ad Antonio da Trezzo si legge: “per farvi intendere la casone de questa mia ambassata […], ve aviso che […] el fo per havere trovato de qua certa fama ch’io era homo et capitaneo del re di Francia, el quale io visitai, sì como feci ancora el duca de Borgogna et el dalphino, per non commettere una negligentia grande, la quale me pareva incorrere passando per loro terrenno senza visitare la maiestà et signorie predicte, ad effecto che vui possate porgere el facto mio in modo che la maiestà del re intenda la fama non solo non essere vera, ma essere stata omninamente fora del mio proposito […]. Vagheza de vedere paesi, costumi, signorie et altre cose notabile fora del mondo nostro me hanno tracto per tutto dove son andato”.

Nelle parole di Alessandro Sforza non si può ravvisare una “storia alla rovescia”, ma solo una breve esposizione non molto approfondita del suo viaggio, senza fornire particolari dettagli, e analoga considerazione si può fare rispetto alla “certa fama” secondo cui “era homo et capitaneo del re di Francia”, che non si può intendere come se al contrario egli fosse divenuto un uomo del delfino, che si trovava presso Filippo il Buono, in quanto in realtà nel tempo che fra l’inizio del 1458 e circa la metà di marzo trascorse in Borgogna egli per conto del fratello contribuì in modo determinante alla formazione della Lega di Borgogna, posta sotto l’ala protettrice del delfino, di cui parla Antonio da Cardano all’inizio di una sua lettera dell’8 giugno e diretta a Francesco Sforza, nella quale si legge che “lo .. duca de Bergog[n]a, lo re de Inglitera, la maiestà del re de Aragona e lo .. dnca de Sanoya hano fato liga insema et che adesso l’ambasaria del .. dnca de Sanoya va Milano per fare liga cum l’illustrissimo signore duca de Milano a destructio[n]e del re de Franza”.

Per aprire una parentesi, può essere il caso di notare che alla fine del secondo capoverso di una lettera del 29 maggio di Giacomo Antonio Della Torre e Antonio da Trezzo si legge: “La prefata maiestà del re pur se extese in dirne quanto el senteva de li apparechi se fanno contra la maiestà del re de Franza sì da inglesi come dal dalfino, inferendo che sua maiestà haverà tanto da fare a casa sua che poco potrà attendere ad le cose de Zenoa”. Riferendosi alle suddette parole, nella nota 3 a pagina 638 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive: “Nella prima metà del 1458 il timore di un attacco inglese, che spinse il re di Francia a intensificare i preparativi difensivi, fu accresciuto dalle notizie di contatti del partito yorkista con il duca di Borgogna, presso il quale si trovava il delfino di Francia”, citando poi “[Beaucourt 260]”, ossia il VI tomo dell’Histoire de Charles VII di Gaston du Fresne de Beaucourt. In realtà, però, se si verificano le fonti menzionate da Beaucourt nella nota 5, non possono non sorgere fortissime perplessità riguardo al fatto che fosse coinvolto il solo “partito yorkista” inglese e non invece anche il re Enrico VI, come d’altra parte fa pensare la parola “inglesi” impiegata nella stessa missiva del 29 maggio. A pagina 260 lo storico francese scrive: “Au mois de juin, des conférenceces furent tenues à Calais entre le comte de Warwick et des ambassadeurs du duc de Bourgogne [5], qui ne tarda pas à envoyer une ambassade en Angleterre [6]. Il est fort probable que, dès ce moment, une convention secrète fut passée par le duc avec le parti Yorkiste”. Alla nota 5 si legge: “Le 14 mai, Henri VI donnait des pouvoirs au comte de Warwick et à d’autres ambassadeurs (Carte, Rolles Gascons, t. II, p. 442 [qui vi è un refuso, perché la pagina è in realtà la 342]) et un sauf-conduit aux ambassadeurs du duc (Rymer, t. V. part. II, p. 80). Ceux-ci furent employés à cette négociation du 27 mai ai 1er juillet (Archives du Nord, B 2030, f. 235 v° et 245). Le 3 juin ils étaient à Calais (Paston Letters, t. I,.p. 428), où, sous prétexte du renouvellement des trèves, ils agitèrent des questions politiques (Chastellain, t. III, p. 427-28)”. Poi alla nota 6 è scritto: “Sauf-conduits de Henry VI en date du 12 juillet 1458. 48th Report of the Deputy Keeper, p. 428 et 429”. Se si può ritenere certo che a Calais “ils agitèrent des questions politiques”, è invece del tutto impossibile inferire che “dès ce moment, une convention secrète fut passée par le duc avec le parti Yorkiste”. È da notare che, come si legge nei Rolles Gascon, il 14 maggio Enrico VI manda “Ricardo Comiti Warwic”, ossia Richard Neville, conte di Warwick, insieme ad altri “ad tractandum cum Commissariis Ducis Burgundiae”. Nello stesso giorno una sezione del Rymer reca il titolo “De Salvo Conductu pro Commissariis Burgundie”, fra i quali vi è “Iohannem de Burgundia, comitem d’Estampes”. Nello stesso Rymer si legge quanto segue: “Cum per aliquos, pro Parte nostra ad hoc Commissos & Deputatos, teneri & celebrari debeat certa Dieta Conventionis, cum Commissariis pro parte carissimi Consanguinei nostri Ducis Burgundie deputatis, in Villa nostra Calesii, aut alibi in Territoriis circumvicinis, super Materiis Bonum publicum & Utilitatem Patriarum, Dominiorum, & Subditorum tàm unius Partis quàm alterius concernentibus”. Il testo è in parte confermato nei Rolles Gascon, in una cui sezione si legge: “Salvus conductus pro […] Nuntiis Ducis Burgundiae apud Calesiam veniendis, ubi dieta conventionis cum Commissaris Regis celebratur”, mentre a pagina 428 dei Deputy Keeper viene riassunto in modo piuttosto esplicito, ossia come segue: “Safe-conduct for John of Burgundy and other commissioners of the duke of Burgundy, coming to Calais to treat of matters touching the interests of England and Burgundy”. Considerato quanto appena letto, è inverosimile pensare che Enrico VI non sospettasse che vi potesse essere il rischio che nel corso della “Dieta” a sua insaputa si trattasse di “une convention secrète […] par le duc avec le parti Yorkiste”. È in sostanza impensabile che, non rendendosi conto del pericolo cui stava esponendo se stesso e Carlo VII, qualora a quest’ultimo fosse legato, il re d’Inghilterra abbia inviato suoi avversari interni, come in teoria era Richard Neville, conte di Warwick, a trattare con il duca di Borgogna Filippo il Buono, al momento presunto nemico esterno. Si ammetterà che nel quadro descritto vi è qualcosa che non torna. In realtà, come spiegheremo più avanti, dopo la “giornata d’amore” del 25 marzo 1458, il cui vero senso è quello spiegato all’inizio della lettera di Corradino Giorgi datata 28 aprile, nella quale si legge che i “baroni e signori de Inglitera, quali havevano una grosa et grandisima diferencia fra loro, hano facto bono acordio e pace insema”, il re d’Inghilterra in modo perfettamente consapevole manda il conte di Warwick a limare gli ultimi aspetti dell’alleanza anti-Carlo VII per la cui stipulazione, come si è scritto sopra, erano stati determinanti i primi mesi dell’anno grazie anche al contributo di Alessandro Sforza. Si potrebbe obiettare che Enrico VI avesse problemi di salute mentale, ma alle pagine 504 e 505 del VII volume della Storia del mondo medievale si legge che gli ultimi risalivano ormai alla fine del 1455. Rispetto a quanto scritto sopra rileviamo che nel primo capoverso di una lettera di Bartolomeo da Recanati appartenente a un copiario datata 29 maggio, quindi come la missiva di Antonio da Trezzo sopra citata, diretta ad Alfonso il Magnanimo e la cui prima pagina reca la numerazione moderna “172”, si legge: “Al signor Guglelmo, el quale è qui, vene una lectera del marchese de Monferra per la quale gle scrive havere nova de Franza come englesi et scoti hanno facto triegua per dui anni et che le differentie de englesi sonno concordate in modo che setene per certo che debiano fare preparatorio de invadere la Franza, perché era divulgata fama che re de Franza era in extremo de morte. De tale novella qui non è notitia da altra parte”. Come si può notare, benché si precisi che “De tale novella qui non è notitia da altra parte”, si dice che “le differentie de englesi sonno concordate”, informazione che va nella direzione della missiva dell’8 giugno di Antonio da Cardano, nella quale fra coloro che “hano fato liga insema” si menziona “lo re de Inglitera”, e delle fonti citate da Beaucourt se lette nel modo che pare più logico, senza dire che subito all’inizio della già citata missiva di Corradino Giorgi del 28 aprile spedita da Ginevra si legge che, “Adciò vostra signoria scia advisata dele XXX novele se dicheno in queste parte, sce dice gli baroni e signori de Inglitera, quali havevano una grosa et grandisima diferencia fra loro, hano facto bono acordio e pace insema, presente et consenciente la maiestà del re d’Ingliterra, et per consolacione e alegreza de ciò el dì dela Anunciata de nostra Dona prxime pasata feceno una notable e bela procesione, che mai non fo veduta la più bela né la più solemne”. Ci si riferisce al giorno dell’Annunciazione del 25 marzo precedente e a quella che a pagina 505 del menzionato VII volume della Storia del mondo medievale viene definita “giornata d’amore”, anche se di essa si dice qualcosa che, considerata la successiva adesione del re d’Inghilterra alla Lega di Borgogna, lascia non poco perplessi, ossia che “fu inscenata a Londra, nella cattedrale di St Paul, una pacificazione fittizia […] che peraltro non interruppe i preparativi di entrambe le parti per la guerra civile”. Si noti poi en passant che in una “Copia litterarum dominorum rectorum Verone” diretta al doge di Venezia e datata “Verone, XXV aprilis 1458” si legge: “Serenissime princeps et excellentissime domine. Nui habiamo ogi inteso da uno Zovene da Pesaro che habita in questa terra che gobia fu octo zorni ch’el zonse in questa terra alcuni engelesi i qual li disseno esser venuti cum el signor Alexandro, fradel del illustre duca de Milam, fino ad Olmo et haverlo lassato lì zà era zorni XI et che mon sapeva dove fusse el suo viago” (si veda al proposito Marchese da Varese, tre lettere non autentiche, il viaggio di Alessandro Sforza e La simulazione delle aggressioni militari sabaude nell’aprile del 1458). Inoltre, un’altra lettera di Bartolomeo da Recanati datata 30 maggio, sempre diretta ad Alfonso d’Aragona e presente nella pagina numerata “177” del copiario, sembra confermare la “nova de Franza”, ma in realtà bisogna fare attenzione a quanto in essa è riportato, che è quanto segue: “Credo che habiate sentito la nova lega et treuga che fra inglesi et scoti è facta per dui anni contra francesi, per la quale spero che haveranno altro che gractare chi li brichi de la vostra revera”. Bartolomeo da Recanati aveva però parlato di una tregua di due anni fra inglesi e scozzesi e non di una lega né che le due fossero “contra francesi”. In realtà, scrivendo “treuga” invece di “tregua”, ossia invertendo la giusta successione delle lettere “gu”, si vuol far capire che quanto riferito va inteso correttamente, ossia che la tregua di due anni riguarda, come detto, inglesi e scozzesi, mentre è la “lega” che è “contra francesi” (si consideri che a pagina 298 del XXI volume del Grande dizionario della lingua italiana.della voce “Trégua” si fornisce la variante linguistica antica “triégua”, mentre la variante “treuga” è assente). Il problema è che in precedenza non si è accennato ad alcuna “lega”, ma solo al fatto che gli inglesi, accordatisi con gli scozzesi e fra di loro, si ritrovavano in sostanza nelle condizioni di poter infastidire i francesi. La “lega” “contra francesi” non può quindi che essere quella di cui parla Antono da Cardano nella sua missiva dell’8 giugno, nella quale non a caso si accenna anche alla “destructio[n]e del re de Franza”. Si noti en passant che nella nota 226 a pagina 148 di “Uno mundo de carta”, libro pubblicato nel 1998, quindi un anno dopo il I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli, Francesco Senatore scrive: “I copiari di Bartolomeo da Recanati sono ivi [ASM, SPE, Napoli], 198” e come primo copiario menziona quello le cui carte sono “170-197”. Si presume quindi che lo studioso abbia visto il copiario da cui provengono le due missive menzionate del 29 e del 30 maggio. Naturalmente non possiamo sapere se abbia letto tutte le lettere: in quest’ultimo caso, infatti, si sarebbe quantomeno accorto del passaggio della prima missiva, in cui si dice che “le differentie de englesi sonno concordate in modo che setene per certo che debiano fare preparatorio de invadere la Franza” e quindi sarebbe stato molto più cauto e prudente nel prendere spunto da Beaucourt, le cui fonti menzionate nella nota 5 a pagina 260 sono già di per sé problematiche, scrivendo quanto riportato sopra, ossia che “il timore di un attacco inglese […] fu accresciuto dalle notizie di contatti del partito yorkista con il duca di Borgogna”. Prima di chiudere il discorso relativo alla “lega” “contra francesi”, può essere il caso di esaminare la differenza esistente fra le lettere di Ludovico di Savoia datate 24 maggio e mandate da Thonon-les-Bains a Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti relative all’invio di ambasciatori a Milano, tralasciando il fatto che nel testo a un certo punto è presente il segno “#”, che viene richiamato alla fine della lettera e seguito dalla specificazione “et Andream Maleti”. Al duca di Milano Ludovico di Savoia scrive: “Nunc ad vos duximus destinandos reverendos in Christo patres dominos Ludovicum, ex marchionibus Romagniani, episcopum thaurinensem, et Henricum, abbatem Filliaci, necnon magnifficum militem dominum Guioctinum de Nores, cambellanum #, compatresque et consiliarios nostros sincere dilectos”.

Nella missiva a Bianca Maria Visconti si legge invece quanto segue: “Impresenciarum ad vos duximus destinandos reverendos in Christo patres dominos Ludovicum, ex marchionibus Romagniani, episcopum thaurinensem, et Henricum, abbatem Filliaci, necnon magnifficum militem dominum Guioctinum de Nores #, compatres nostros sincere dilectos”.

Come si può notare, gli ambasciatori inviati sono tre: Ludovico di Romagnano, vescovo di Torino, Henri d’Alibertis, abate dell’abbazia di Filly, che era situata nell’attuale comune di Sciez non molto lontana dalla riva del lago di Ginevra, e il cipriota Guiotino de Nores, cui poi si aggiunge Andrea Maletti. Il punto da sottolineare che pare più importante riguarda l’errore contenuto nella lettera al duca di Milano nella quale il sostantivo “cambellanum”, assente nella missiva a Bianca Maria Visconti, non è coordinato in modo corretto con quanto segue per via della congiunzione copulativa enclitica “que” legata a “compatres”, che a senso non dovrebbe esservi e infatti essa manca nella lettera alla moglie di Francesco Sforza. Che si tratti di un errore significativo è confermato dal fatto che le due missive in francese inviate da Anna di Cipro al duca e alla duchessa di Milano, caratterizzate dalla medesima data topica e cronica rispetto alle epistole di Ludovico di Savoia dirette agli stessi destinatari, hanno invece la medesima struttura dal punto di vista dell’analisi logica e grammaticale. In esse si legge infatti in sostanza quanto segue: “Mon tres redoubte seigneur envoye presentement […] reverends peres en Dieu nos tres cheres et bien ames comperes l’evesque de Thurin, l’abbe de Filly et mes seigneur Guiotin de Nores #, es quelx avons commis vous dire aucunes choses de part nous” (nella lettera a Bianca Maria Visconti è scritto “Guioctin” al posto di “Guiotin”). La ragione dipende dal fatto che si vuole attirare l’attenzione sulla lettera del duca sabaudo alla moglie di Francesco Sforza. Priva del sostantivo “cambellanum”, il nome “Nores” si trova subito seguito dalla parola “compatres”, giustamente priva della congiunzione enclitica, con la ripetizione delle ultime tre lettere “res” da intendere come “rex” e da riferire a “Henricum” in quanto re d’Inghilterra. Precisiamo che le inferenze riportate sopra sono rese possibili dal paragone del testo delle due epistole: quello della missiva per Francesco Sforza si caratterizza per alcune peculiarità la cui assenza nella lettera a Bianca Maria Visconti non può lasciare indifferenti. L’importanza delle due epistole, che, come si sarà capito, sono da comparare, consiste nel fatto che in esse Ludovico di Savoia annuncia l’invio dei suoi ambasciatori a Milano, apparentemente per risolvere i problemi legati alla liberazione di Ludovico Bolleri, rispetto alla quale in una lettera datata 1 giugno e inviata da Torino Antonio da Cardano scrive che “domino Giotino disse non se cercha più ultra, facesse quelo è da fare e vadasse pur dricto ad exequire quanto è concluso e ch’el non dubita che ala venuta sua lì ha Milano, una cum .. monsegnore lo vescovo de questa terra e l’abbate de Figlie, che vostra signoria restarà molto contenta”, in realtà “per fare liga cum l’illustrissimo signor duca de Milano a destructio[n]e del re de Franza”, alleanza da inserire nel più ampio contesto della Lega di Borgogna, di cui fa parte “lo re de Inglitera”, da intendersi come Enrico VI e non come Riccardo, duca di York.

Per tornare al segno assente nel cifrario di Antonio da Trezzo tracciato al contrario rispetto a uno di quelli che sta per le nulle, esso non può avere alcuna forma di applicazione nemmeno per l’ultimo capoverso della lettera di Antonio da Trezzo del 9 giugno, che riguarda il “conte Jacomo”, benché in esso di lui si dica, per essere al momento concisi, che “come servitore del duca de Calabria se moveria contra el Stato de la Chiesa”, mentre nella nota 11 a pagina 4 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive che “per conquistare il regno, il pontefice vagheggiava di assoldare la compagnia del condottiero Giacomo Piccinino”, citando come primo documento una lettera di Ottone del Carretto e Giacomo Antonio Della Torre datata 16 giugno 1458, e poi alla fine aggiunge che “La notizia delle intenzioni di Callisto III giunse subito anche a Napoli”, menzionando come fonte una lettera sempre di Ottone del Carretto e Giacomo Antonio Della Torre datata 8 giugno 1458. Il capoverso menzionato, che esamineremo più avanti, non solo non si presta a inversioni temporali di nessun tipo, ma nemmeno a particolari letture “alla rovescia”, perché, benché si accenni al papa, manca un chiaro collegamento ipertestuale, per così dire, alla corrispondenza di Francesco Sforza con Ottone del Carretto. In realtà, come vedremo, il segno mancante nel cifrario di Antonio da Trezzo con la sua particolare caratteristica si riferisce a un’altra corrispondenza, che però si riflette anche nell’epistolario del duca di Milano con il suo ambasciatore a Napoli, almeno per i documenti rispetto ai quali possiamo affermarlo con certezza, che tuttavia autorizzano a porsi domande anche riguardo ad altri, considerata la concatenazione che li caratterizza. A questo punto, per proseguire nel ragionamento, che ha avuto inizio rilevando la ripetizione del verbo “dice” nel secondo capoverso del poscritto, la cui seconda occorrenza è scritta sopra il numero “X” della particolare data del documento, volendo così suggerire che il verbo può essere inteso anche come fosse il numero arabo 10, riteniamo opportuno esaminare il terzo capoverso della lettera del 9 giugno. In esso si legge quanto segue: “Heri circa le XXI hora visitai la maiestà sua et feceli certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello. Me parve che, da l’altra volta ch’io haveva veduto essa maiestà, quella fosse molto mancata et in modo che me pare più pres[.]o sia da d[ug]itare de la morte che sp[..]are de (v)ita, ma, mancando, me pare essere certo ch’el duca de Calabria succederà nel Stato, perché talle provisione ha facte et fa ogni hora che indubitamente remarrà signore et patrone de Castelnovo et de quanto gli è dentro”. Prima di prendere di nuovo in considerazione la decifrazione presente nei fogli 155 e 156, per chiarezza è il caso di ricordare gli aspetti della parte in cifra sopra decifrata: nella parola “presto” la “t” è resa con il segno “a”, il quale è assente nel cifrario di Antonio da Trezzo, anche se si potrebbe trovare una somiglianza con il segno per la sillaba “ep”, che nel cifrario consiste in una “a” che a destra in basso presenta una breve linea orizzontale, che però è molto più pronunciata rispetto a quella nel testo in cifra, la quale è appena visibile; nel verbo “dubitare” la sillaba “ub” non è resa con il corretto segno “ga”, ma con quello “gu”, che sta per “vg” e che si può intendere pure come “ug”, anche se nel secondo segno le due lettere sono collegate in alto da una breve linea orizzontale che non dovrebbe esservi, presente invece nel segno “ga”; nel verbo “sperare” le lettere “er” sono rese con un segno assente nel cifrario, ossia una “a” che a destra a mezza altezza è caratterizzata da una breve linea orizzontale, la quale tuttavia dovrebbe trovarsi in alto; nelle parole “de vita” la “e” e la “v” sono rese con il segno “a” sopra il quale vi è una “r”, corrispondente alle vocali “eu”, la cui seconda lettera, tuttavia, può essere intesa anche come una “v”. Passiamo ora alla decifrazione che si trova nei fogli 155 e 156, la quale è la seguente: “et in modo che me pare più presto sia da dubitare de la morte che sperare de la vita, ma, mancando”. Benchè nei due fogli sia identica nel risultato finale, vi sono alcune differenze nel modo in cui si giunge a esso. Nel foglio 155 l’avverbio “presto” consiste in una chiarissima “p” con sopra un segno abbreviativo seguita dalle lettere “sto”; nel foglio 156, invece, la “p” presenta a destra in alto un cerchiolino che non si chiude, mentre a sinistra uno completamente chiuso, che interseca la linea verticale della lettera e poi prosegue fino appunto a formare a destra l’altro cerchiolino. Ne consegue che, per quanto a senso risulti naturale leggere “presto”, perché le lettere che seguono sono le solite “sto”, in realtà un’altra lettura possibile, che peraltro dal punto di vista grafico parrebbe più corretta, è “questo”, parola che però non si adatta al contesto; nel foglio 155, inoltre, il verbo “dubitare” è scritto per esteso, mentre nel 156 si legge “dubitar” con un segno abbreviativo sopra la “r”; nel primo foglio l’infinito “sperare” è di nuovo scritto per esteso, mentre nel secondo vi sono le lettere “spare” con la “p” tagliata da una linea orizzontale, che peraltro interseca anche la “s”; infine, nel foglio 156 il sostantivo “vita” risulta scritto sotto “modo”, mentre le lettere della congiunzione “ma”, unite nel foglio 155, risultano piuttosto distanti, anche se collegate da una linea quasi impercettibile, al punto che la “m” si trova sotto la “m” di “me” e la “a” sotto lo spazio presente nella riga sopra tra “pare” e “più”. [continua]

Curiosamente Francesco Senatore non ha pubblicato la lettera di Antonio da Trezzo del 10 giugno, poi, pubblicando la missiva dell’ambasciatore del 14 giugno, trascrive così: “Per mie de VIIII° et 10 del presente avisai la excellentia vostra”, ma in realtà nella lettera non è scritto “10” in numero arabo, ma “X” in numero romano.

In una minuta datata 24 giugno, replicando ad Antonio da Trezzo, Francesco Sforza esordisce così: “Respondendo a doe toe lettere de octo et X del presente”, quindi depenna “doe”, anche se in effetti il numero non è chiarissimo, inserendo sopra “tre”, e depenna anche “octo et X”, scrivendo sopra “di 9, 10 et XIIII”. In generale le correzioni presenti nella minuta hanno un corpo diverso rispetto al resto del testo, simile a quello della data indicata in alto a sinistra, ossia “1458, Mediolani, XXIIII iunii”, ma quelle segnalate presenti all’inizio, trovandosi sopra la prima riga, spiccano di più, quasi fossero collegate fra loro e con la stessa data della minuta. Il fatto che il “X” in numero romano sia depennato e riscritto con il numero arabo “10” pare alquanto sibillino, considerato ache che il numero romano “XIIII” aggiunto dista dieci giorni dalla data della minuta. [da sviluppare]

All’inizio della minuta di Francesco Sforza ad Antonio da Trezzo datata 12 luglio 1458 si legge: “Per replicate littere te havemo scritto et per Iohanne Caymo et Orpheo havemo mandato ad dire ad quello serenissimo signore novo re quanto ne è occorso per stabilimento et manutentione de sua maiestà in quello reame”. La “C” di “Caymo” è scritta sopra una “I”, come se si stesse scrivendo di nuovo “Iohanne”, al fine di evidenziare il nome successivo, ossia “Orpheo”, che non a caso non è seguito dal cognome, appunto al fine di dargli risalto. La correzione è inoltre effettuata sopra l’aggettivo “novo” della seconda riga riferita a “re”, la cui “r” è sfiorata nella parte superiore dalla linea obliqua che scende nell’interlinea della “y” di “Caymo”.

Questo modo in cui è tracciata la “y” non è casuale, ma voluto. Per comprenderlo, riteniamo opportuno prendere le mosse dal nome “Orpheo” che viene subito dopo, il quale richiama l’omonimo personaggio della mitologia greca e per assonanza il nome Morfeo. Per affrontare il tema risolvibile nel modo più rapido, chiariamo subito che Morteo rimanda al “Figlio del sonno e [al] dio dei sogni”, come si legge a pagina 479 del Dizionario di mitologia greca e latina di Anna Ferrari. A pagina 651 è poi scritto che “Sonno […]. Chiamato Ipnos (Hypnos) dai Greci, era il dio che personificava il sonno”. Le suddette informazioni sono confermate dall’Encyclopaedia Britannica online, nella quale si legge che “Morpheus” era “in Greco-Roman mythology, one of the sons of Hypnos (Somnus), the god of sleep. Morpheus sends human shapes (Greek morphai) of all kinds to the dreamer”. Quindi il nome Morfeo, cui è possibile associare quello di Orfeo per assonanza, rimanda da una parte ai sogni, dall’altra soprattutto al sonno, poiché nella mitologia greca e romana suo padre era proprio il dio del sonno. Tuttavia, come abbiamo detto, il nome “Orpheo” richiama anche l’omonimo personaggio della mitologia greca, che a sua volta si può collegare a Cristo. Come si legge alle pagine 309-310 del Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte di James Hall, Orfeo era un “Leggendario poeta della Tracia, abilissimo nel suonare la lira. Sposò Euridice, una ninfa dei boschi, e alla morte di lei scese nel mondo sotterraneo per riportarla sulla terra, ma non poté raggiungere lo scopo. […] Tanto abile era Orfeo nel suonare la lira che con essa incantava non soltanto gli animali selvatici, ma anche gli alberi e le rocce, che all’udirlo si mettevano al suo seguito. Orfeo siede sotto un albero, intento a suonare la lira […] Molte specie di animali, selvatici e domestici, gli stanno intorno pacificamente, gli uccelli appollaiati sugli alberi. Questo soggetto […] nell’arte primitiva cristiana venne adottato per rappresentare il Messia […]. Le antiche raffigurazioni di Cristo in veste di pastore, […] seduto in mezzo al suo gregge con in mano una lira, derivano dall’iconografia di Orfeo […] Orfeo scese nell’Ade e con il potere della sua musica persuase Plutone a lasciare che Euridice lo seguisse sulla terra, a condizione che non si voltasse a guardarla finché non fossero giunti nel mondo dei vivi. Ma all’ultimo momento egli venne meno alla sua promessa ed Euridice scomparve per sempre nell’ombra. […] Il tema della discesa nelle regioni sotterranee per riportare i defunti in terra […] è presente anche nella dottrina cristiana”. A questo punto vi è un rimando alla voce “Discesa al Limbo”, alla quale alle pagine 141-142 si legge: “(Discesa agli Inferi). La discesa di Cristo al Limbo dopo la morte non è citata in modo esplicito dalle Scritture; tuttavia, tale concetto esercitò un notevole fascino sulla Chiesa primitiva e venne introdotto come articolo di fede nel IV secolo. La figura del dio o dell’eroe che scende nelle regioni sotterranee per riportare i morti sulla terra era ben nota nella mitologia degli antichi”, e si citano Ercole e appunto Orfeo, “e forse fu questa l’origine della successiva idea cristiana. Già nel II secolo si era costituito un corpo di scritti contenenti la descrizione della discesa di Gesù agli Inferi, della sua vittoria su Satana e della conseguente liberazione delle anime sante dell’Antico Testamento. Si pensava che, essendo vissuti e morti in un’epoca nella quale non esistevano ancora i benefici dei sacramenti, questi uomini giusti erano stati relegati in un luogo inferiore in attesa della redenzione di Cristo e del loro riscatto. L’episodio compare per la prima volta in tono narrativo nel Vangelo apocrifo di Nicodemo, redatto forse nel V secolo […] I primi Padri della Chiesa, meditando sulla questione, conclusero che il luogo esatto non fosse l’inferno vero e proprio bensì una regione posta ai suoi margini, cioè il Limbo […]. L’episodio godette di grande popolarità nelle sacre rappresentazioni e nella letteratura del Medioevo. Fu ripreso dalla Legenda aurea […]. Nell’iconografia medievale il soggetto della Discesa al Limbo faceva parte dei cicli sulla Passione di Cristo; esso continuò a essere rappresentato per tutto il Rinascimento, ma divenne raro dopo il XVI secolo. Vi si scorge Cristo che varca una soglia reggendo il vessillo della Resurrezione […] la porta è stata scardinata e abbattuta […] Una folla di figure si fa innanzi uscendo da una caverna: la più vicina è quella di Adamo: un vecchio dalla barba grigia che si protende verso la mano di Cristo”. Di nuovo a proposito di Orfeo alle pagine 255-256 del Lessico di iconografia cristiana di Gerd Heinz-Mohr si legge: “Il più celebre tra i mitici cantori e i suonatori greci di strumenti a corda, che aveva fama di saper domare con la sua arte gli animali più selvaggi e di commuovere alberi e pietre […] trovò […] rapida accoglienza e diffusione nell’arte figurativa cristiana delle origini. [Numerose testimonianze] mostrano il cantore seduto […] la lira sul ginocchio sinistro, circondato da pecore […] o da altri animali, più tardi specialmente da animali feroci, riuniti qui per la prima volta, come in paradiso. Come motivazione di questa assunzione dell’antico mito si è pensato alla rappresentazione della immortalità dell’anima, che si trovò già raffigurata presso i pagani […] Alla base c’è la convinzione teologica del “compimento” = conclusione ed elevazione in Cristo delle domande e degli aneliti religiosi del mondo classico pagano: Cristo sostituisce definitivamente e positivamente O., come portatore di armonia divina e ordinatore del cosmo. […] Con le Sibille, [Orfeo] è ritenuto una specie di profeta pagano e di annunciatore di Cristo. Eusebio di Cesarea intende O. come simbolo di Cristo: ‘Il salvatore degli uomini, con lo strumento del suo corpo umano che volle unire con la sua divinità, si è mostrato salutare e benefico verso tutti, come Orfeo il greco che, con l’arte del suono della lira, domava e calmava gli animali feroci […]’. In ogni caso il fatto che l’arte protocristiana abbia assunto dall’arte pagana solo due motivi mitologici, Eros e Psiche da un lato, O. dall’altro, e che si tratti in entrambi i casi di arte sepolcrale, indica che i due motivi erano ritenuti simbolo e sostegno della fede nell’immortalità dell’anima. Inoltre si deve accennare alla rilevante somiglianza che esiste tra il motivo figurativo di O. che strappa Euridice all’Ade e quello di Cristo che libera Adamo dal Limbo, così come nella narrazione che è alla base della ‘Discesa nel regno dei morti’ del Vangelo apocrifo di Nicodemo si condensano senza dubbio i ricordi dei miti egizi e greci”. Come esempio figurativo si rimanda al “rilievo V sec. a.C., ‘Orfeo, Euridice, Hermes’, Museo Nazionale, Napoli”. Alla voce “Limbo” dello stesso libro, presente alle pagine 203-204, si legge: “L’osservazione esposta non dettagliatamente nella I Lettera di Pietro (3,19 s.) che Cristo ha predicato agli ‘spiriti in prigione’ è sviluppata nel Vangelo apocrifo di Nicodemo in una scena ampiamente narrata, spesso raffigurata nell’arte ed erroneamente indicata come ‘discesa all’inferno di Cristo’, corrispondente alla frase del Credo apostolico; ‘disceso agli inferi’. Effettivamente qui non è mai stato inteso l’inferno […], come il luogo della dannazione eterna e della lontananza da Dio, ma piuttosto sempre il regno dei morti (l., preinferno […]), il luogo della ‘condizione di attesa’ dei defunti prima della venuta di Cristo e, particolarmente, dei credenti dell’antica alleanza, da Adamo in poi, nelle redenzione finale”. Alla fine della voce si ribadisce che “Nella narrazione del Vangelo apocrifo di Nicodemo si rispecchia chiaramente il ricordo dei miti egiziani e greci antichi. Non si può non contestare anche la somiglianza del tipo figurativo tra Cristo che libera Adamo dal l. e Orfeo che strappa Euridice dall’Ade”. [da completare]

Nella nota 2 a pagina 30 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive: “La bolla Ad futuram rei memoriam (12 luglio, ma pubblicata il 14)”. Della bolla vi sono due copie nella cartella Roma, 47, datate “quarto idus iulii”, quindi 12 luglio. Nella lettera di Ottone del Carretto del 14 luglio, che Senatore riporta avere la numerazione moderna “36-37, dec. 39”, mentre essa è 37-38, si legge però quanto segue: “Per la copia inclusa intenderà vostra excellentia la bolla decreta questa matina in consistoro et poy publicata”. Inoltre, dopo la firma dell’ambasciatore è scritto con una grafia un po’ diversa: “La copia inclusa s’è havuta in presia, il perché non è così ben ordenata”. La precisazione “La copia inclusa […] non è così ben ordenata” farebbe pensare al documento all’inizio del quale è proprio scritto “copia” e che reca la numerazione moderna 43-44; Senatore invece indica come “copia della bolla” “inviata a Milano da O. del Carretto” il documento con la numerazione moderna 40-42, che però non solo non presenta la scritta “copia” ed è più ordinato, ma anche il testo pare più completo.

Alla lettera datata 31 luglio 1458 che reca le firme “Iohannes de Caymis, Orpheus de Ricavo et Antonius de Tricio”, che si trova alla pagina 107 del Codice 1588 dell’Archivio Sforzesco che si trova presso la Biblioteca nazionale di Francia, è allegato un documento contenente copie di missive inviate da re Ferrante a papa Callisto III e al Collegio cardinalizio. Nella lettera si accenna proprio al fatto che il sovrano avrebbe scritto al pontefice e al Collegio dei cardinali. Si legge infatti: ”Mandiamone incluse le copie de le risposte che fa questo signore al papa per lo breve che essa sanctità gli ha scripto, del quale etiam vi mandiamo la copia, ed così de quello si scrive al Collegio de cardinali”. La copia del “breve” di Callisto III dovrebbe essere il documento datato 16 luglio 1458 presente nella cartella Roma, 47, con la numerazione moderna 51. Si noti inoltre che la parola “sanctità” è abbreviata con una “s” la quale in apice presenta le lettere “ta” e che risulta scritta sopra una “m”. Pertanto in un primo momento era stato scritto “maiestà” e non “sanctità”. Le precedenti parole della missiva sono seguite dalla precisazione: “Ha tardato essa maiestà ad mandare dicti ambassatori [se ne parla nel capoverso precedente] a Roma fin alla venuta de mi, Zohanne, dove giunse sabbato passato, per volere prima intendere l’opera ch’io havea facta, al qualle ho referito quanto ho facto et molto più largamente che non scripse da Roma alla signoria vostra”. Quanto riportato da Francesco Senatore nella n. 8 a pagina 65 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli non è correttissimo. La nota è la seguente: “Per sostenere la legittimità della sua successione, Ferrante aveva scritto sia al papa che al Collegio cardinalizio: a Callisto III, Capua 24.VII.1458, sottoscrittore Panormita (copie della cancelleria napoletana in ASM SPE, Roma, 74 e 75, con due diversi incipit: “Ego Dei gracia patris beneficio”, corrispondente a BAV […] e “Licteras seu breve sanctitatis tue nuper accepi, quibus pro tempore breviter respondeo. Ego ….”); al Collegio, pari data (copia in ASM SPE, Roma, 47, 74 e 75, inc.: “Particulam litterarum sanctissimi domini nostri pape”, corrispondente BAV […] e a Messer […] ma la data del 31.VII e la sottoscrizione di Girifalco)”. Per essere precisi, nel recto della “copia” il primo testo, diretto “Ad summum pontificicem” e in cui la parola “beneficio” è in realtà scritta con due “ff” e non una sola, non è indicato come sottoscrittore Panormita; il secondo, diretto “Ad Collegium cardinalium”, è identico a quello che occupa la seconda posizione nel verso del documento e che presenta la sottoscrizione “Antonius Panhormita”, assente invece nel recto. Inoltre a un’osservazione superficiale colpisce che in quest’ultimo nella data non sia indicato l’anno, al contrario presente nel recto; all’inizio del verso è infine presente l’altro testo segnalato da Francesco Senatore per Callisto III, in cui è vero che è indicato come sottoscrittore “Antonius Panhormita”, assente invece nel primo testo del recto diretto “Ad summum pontificicem”, ma anche in questo caso la data risulta priva dell’indicazione dell’anno. Cercando di riassumere, nel recto le due copie di missive, dirette l’una “Ad summum pontificicem” e l’altra “Ad Collegium cardinalium”, presentano la data scritta correttamente ma non la sottoscrizione di Panormita, nel verso le due copie di lettere, la prima diretta a Callisto III e la seconda al Collegio dei cardinali ma prive delle intestazioni presenti nel recto, non hanno l’indicazione dell’anno nella data e sono sottoscritte da Panormita; inoltre, rispetto alle lettere nel recto, mentre il testo della missiva per il papa è diverso, il testo della lettera per il Collegio dei cardinali è identico.

In una lettera di Nicodemo Tranchedini datata 29 luglio appartenente al Codice 1588 dell’Archivio Sforzesco e che reca la numerazione moderna 103 si legge: “Comendarono Cosimo et miser Angelo et piacque loro grandemente quel videro ve scrivono el prefato re et Antonio da Trezo”. Come cercheremo di spiegare più avanti, non è chiaro quale sia la missiva di re Ferrante inviata a Francesco Sforza. Nella lettera poi si accenna a “Castiglione de la Pescara”, riferendosi alla missiva di Antonio da Trezzo al duca di Milano del 13 luglio, a “Diomedes Caraffa” e a “Gambacurta”, dei quali si parla nella lettera dell’ambasciatore a Napoli del 15 luglio, quindi al fatto di “cazzare franzesi cum rimettere miser Perino” e all’invio di “Sforza Maria”, argomenti che si trovano di nuovo nella missiva di Antonio da Trezzo datata 13 luglio. Poi l’ambasciatore a Firenze scrive: “El re Ferdinando ha scripto qui ala .. Signoria de novo et a Cosimo et meser Angelo che vole essere loro a bon seno per l’amicicia hano cum vostra celsitudine. Fa poy una breve coda in la lettera de la .. Signoria, cioè havere intesa la bolla producta per lo papa contra luy et che de duobus alterum: o mandino al papa a removerlo de questa opinione o per via d’arme gli propulsino questa iniuria da dosso”. Come la lettera spedita dal sovrano al duca di Milano cui si è accennato sopra, anche l’identificazione della missiva inviata “ala .. Signoria de novo et a Cosimo et meser Angelo Ferrante” non è affatto scontata e avremo modo di appurarlo più avanti. Nel verso della pagina 95, secondo la numerazione moderna, sempre del Codice 1588 è inoltre presente un foglietto con il seguente testo: “Post datum. Rimando cum questa a vostra illustre signoria la lettera del re, quelle tre de Antonio da Trezo et la listarela. Vole Bocacino ch’io scriva a vostra illustrissima signoria per soa parte ch’el non crede cosa scriva don Ferrando né Antonio da Trezo né may se acorderà ad quella amicicia se non vi rende tute le terre tenesti già in lo reame et non ve ne dà de l’altre. Ut in litteris. Idem Nicodemus”. Il foglietto pare vada allegato proprio alla lettera di Nicodemo Tranchedini del 29 luglio, ma, come si è visto, le lettere di Antonio da Trezzo sembrano essere due e non tre: una del 13 luglio e l’altra del 15 dello stesso mese (fra l’altro nella prima è segnalata la ricezione di lettere “de dì XXX del passato cum III copie incluse de Lanzaloto Bosso” la cui minuta si trova nella cartella Firenze, 269, tuttavia nella nota 1 a pagina 21 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Senatore scrive che “La lettera del duca non ci è pervenuta”); la “listarela” dovrebbe essere quella con l’elenco dei baroni che hanno giurato obbedienza a re Ferrante pubblicato alle pagine 28-30 del citato II volume di Francesco Senatore. Come anticipato, quale sia la missiva del sovrano inviata al duca di Milano non è chiaro, anche se il foglietto è posizionato subito dopo la copia del documento di re Ferrante avente come destinatario il duca di Milano e “Datum in castro Lapidum civitatis Capue, die XX mensis iulii, VI indictione, MCCCCLVIII”, definito da Senatore “circolare” nella nota 8 a pagina 38 del menzionato II volume. Non si capisce, infatti, perché avrebbe dovuto trattarsi di questa epistola, essendo appunto una lettera “circolare”, pertanto inviata anche a Firenze. Ricordiamo poi che nella missiva del 29 luglio di Nicodemo Tranchedini si legge: “Comendarono Cosimo et miser Angelo et piacque loro grandemente quel videro ve scrivono el prefato re et Antonio da Trezo”, parole che paiono implicare che “Cosimo et miser Angelo” “videro” qualcosa di nuovo e inedito scritto da parte del “prefato re”. In realtà in questo modo si vuole mettere in rilievo che, quando più avanti nel testo della stessa lettera del 29 luglio Nicodemo Tranchedini accenna al fatto che a Firenze si è ricevuta una lettera del sovrano, non si è in realtà in grado di identificare quest’ultima con la copia della missiva dello stesso re Ferrante datata 20 luglio e inviata “Prioribus Artium et Vexillifero Iustitie populi excelse vitatis Florentie”.(nell’indicazione del destinatario è proprio scritto “vitatis” con sopra un segno abbreviativo) presente nella cartella Firenze, 269, e che si può ritenere sia stata allegata alla lettera datata 2 agosto inviata dai “Priores Artium et Vexillifer Iustitie populi et Comunis Florentie” al duca di Milano. Essa è piuttosto simile, anche se non identica, alla copia della missiva “circolare” mandata a Francesco Sforza cui si è accennato sopra. Si noti che nella citata nota 8 a pagina 38 Francesco Senatore non menziona questa copia molto presumibilmente inviata dai “Priores Artium et Vexillifer Iustitie populi et Comunis Florentie”, che pare non potersi accostare alla lettera di Nicodemo Tranchedini cui si è accennato sopra nella quale egli segnala la ricezione a Firenze di una missiva di re Ferrante. In essa si legge: “El re Ferdinando ha scripto qui ala .. Signoria de novo et a Cosimo et meser Angelo che vole essere loro a bon seno per l’amicicia hano cum vostra celsitudine. Fa poy una breve coda in la lettera de la .. Signoria, cioè havere intesa la bolla producta per lo papa contra luy et che de duobus alterum: o mandino al papa a removerlo de questa opinione o per via d’arme gli propulsino questa iniuria da dosso”. Considerando le date, parrebbe logico che in questa missiva del 29 luglio Nicodemo Tranchedini si riferisca alla lettera del sovrano del 20 luglio precedente. Tuttavia l’ambasciatore scrive che nella sua missiva re Ferrante accennerebbe all’“l’amicicia hano cum vostra celsitudine”, tema in realtà assente nella copia della lettera del sovrano inviata a Francesco Sforza. Non resta quindi che considerare una missiva di Nicodemo Tranchedini datata 11 luglio, anch’essa appartenente al Codice 1588 dell’Archivio Sforzesco e che reca la numerazione moderna 93, riguardo alla quale poi in una sua lettera del 24 dello stesso mese l’ambasciatore scrive a Cicco Simonetta di dubitare che “la mia lettera precedente ad questa fosse errata nel dì, che, como dovia dire ali 18 del presente, dicesse ali XI. Si sic est, preghovi la corregiate”. Nel secondo capoverso di essa, che in totale ne presenta tre, infatti si legge: “Hogi et non prima ce sono lettere del re Ferrando ala .. Signoria significative de la morte del patre et che delibera tenere cum loro bona amicicia, perché cossì gli recordò la felice memoria del patre dum versaretur in extremis et per rispecto ala liga etc.”. Anche se pare evidente che a questa missiva per errore datata 11 luglio, mentre in realtà è del 18 dello stesso mese, non può essere stata allegata una copia di una lettera di re Ferrante di due giorni dopo, ossia del 20 luglio, per puro scrupolo verifichiamo se per qualche motivo di non immediata comprensione questo fatto può essere avvenuto. Per estrema chiarezza riportiamo quanto è scritto nella missiva e che si può leggere poco sopra: “Hogi et non prima ce sono lettere del re Ferrando ala .. Signoria significative de la morte del patre et che delibera tenere cum loro bona amicicia, perché cossì gli recordò la felice memoria del patre dum versaretur in extremis et per rispecto ala liga etc.”. Tralasciando la precisazione “Hogi et non prima”, la quale, considerato il contesto complessivo, pare alquanto sibillina, se il riferimento al fatto che “la felice memoria del patre” ricordò qualcosa al figlio “dum versaretur in extremis” pare pertinente, non lo è il resto: nella copia della missiva del sovrano, infatti, non si accenna in modo esplicito alla “morte del patre”, ma si dice “moriens”, e inoltre non è scritto che il re “delibera tenere cum loro bona amicicia”. Non è pertanto possibile individuare la lettera del sovrano inviata a Firenze cui si riferisce Nicodemo Tranchedini, non solo nella sua missiva del 29 luglio, ma nemmeno in quella datata per errore 11 luglio. Per comprendere la ragione per cui non è possibile identificare né la lettera inviata dal sovrano a Francesco Sforza né quella mandata dallo stesso re a Firenze, bisogna considerare la missiva dell’ambasciatore erroneamente datata 11 luglio, all’inizio dela quale si legge: “Per l’ultima mia dissi ad vostra celsitudine che me inzegnarei intendere dal magnifico Cosimo se luy era in altra opinione de l’andata de Zohanne Caymo et Orfeo che quella havia dicta in presentia de meser Angelo et dicto Zohanne. Non ce duray fatica alcuna, perhò che, como esso Cosimo hebe lecta la copia de quello ve scrive el re de Franza quale m’havete mandata cum la vostra de 12, disse: ‘Or echoci fra francesi et ragonesi’”. [continua]

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