Le fonti documentarie

Il presente lavoro ha avuto inizio prendendo in esame due serie di lettere che si trovano presso l’Archivio di Stato di Milano. Esse costituiscono la corrispondenza intrattenuta da Francesco Sforza fra 1457 e 1458 con due suoi ambasciatori, Corradino Giorgi e Antonio da Cardano [1], mandati presso il duca di Savoia.
La missione degli inviati milanesi mirava apparentemente a ottenere la liberazione di Ludovico Bolleri, vassallo di Renato d’Angiò e aderente del duca di Milano nella Lega italica, che, catturato nel settembre del 1457 dal mercenario guascone Arcimbaldo d’Abzat, era stato consegnato a Ludovico di Savoia, all’interno del cui ducato i domini di Bolleri, signore di Centallo, Demonte e Roccasparvera, costituivano un’isola feudale [2].
La ricerca, che doveva avere come oggetto l’attività diplomatica svolta dagli ambasciatori sforzeschi presso la corte sabauda, si è subito scontrata con la notevole contraddittorietà dei rapporti che intercorrono fra i protagonisti delle lettere.
Può essere utile a questo proposito prendere come esempio le relazioni tra Francesco Sforza e Ludovico di Savoia.
Leggendo le missive della Serie Giorgi-Sforza appare evidente come i rapporti fra il duca di Savoia e il duca di Milano siano caratterizzati da estrema conflittualità. Non solo Ludovico di Savoia tiene prigioniero il signore di Centallo, ma anche occupa, all’inizio di aprile del 1458, la terra di Demonte e la rocca di Vernante, del conte Onorato di Tenda. A Francesco Sforza non resta che minacciare rappresaglie militari e Renato d’Angiò invia a Milano Honorat du Barre con la proposta di un attacco comune angioino-sforzesco per spartirsi il ducato di Savoia.
Questi preparativi militari, a prescindere dalla loro consistenza, rendono quindi affatto imprevisto quanto leggiamo in una lettera di Antonio da Cardano, datata 8 giugno (CS8). In base a essa i quattro ambasciatori inviati dal duca di Savoia presso Francesco Sforza non vanno a Milano per risolvere i problemi legati alla liberazione di Ludovico Bolleri, bensì «per fare liga cum l’illustrissimo signore duca de Milano», il che non può non sorprendere e indurre a «rimeditare» il senso di quanto appena letto, cercandone un’altra chiave di lettura.
Obiettivo primario della ricerca è quindi divenuto non tanto tracciare «una pura ricostruzione di fatti ed eventi» [3], quanto comprendere il senso profondo del racconto presente nelle missive, in modo da poter delineare un quadro coerente delle relazioni fra i protagonisti [4].
L’indagine ha così portato a sviluppare un’ipotesi davvero imprevista, in base alla quale le missive che formanola Serie Giorgi-Sforzaela Serie Cardano-Sforza sarebbero ingannevoli, concepite e redatte presso la cancelleria sforzesca per essere mostrate.
La redazione delle missive presso la cancelleria sforzesca pare suffragata dalla presenza di un gruppo di missive che abbiamo denominato «Lettere Avantesto Giorgi» [5], lettere che sembrano inviate da Corradino Giorgi, ma sono in realtà da attribuire alla cancelleria sforzesca.
Che poi le lettere potessero essere mostrate è lo stesso Francesco Sforza a suggerircelo, quando in SC7 scrive: «non possiamo estimare né credere che Conradino Zorzo senza nostra licentia, ymmo havendo penitus contraria imposicione et comandamento da nuy per più nostre lettere, gli havesse consentito [6] et, quando per imprudentia et poca advertentia lo havesse tolerato, non doveria però la ignorantia soa preiudicare tanto al facto nostro, né [n]uy disponemo haverlo per accepto», aggiungendo nel margine sinistro con un segno di richiamo, quasi a dare maggiore evidenza: «maxime perché de ciò non ha mandato da nuy, ymo e la instructione soa e tute le littere nostre scripte a luy significano lo contrario».
Soffermiamo l’attenzione sulle ultime parole: «de ciò non ha mandato da nuy, ymo e la instructione soa e tute le littere nostre scripte a luy significano lo contrario». Certo in esse non viene affermato che l’istruzione e le lettere di Francesco Sforza dovessero essere mostrate, tuttavia è altrettanto certo che venga implicitamente prospettata, o quanto meno non negata, la possibilità che, nel caso in cui fosse necessario dimostrare quale fosse il loro esatto significato, istruzione e lettere del duca di Milano potessero essere mostrate.
I reali destinatari delle lettere ingannevoli qui in esame dovevano essere gli inviati di Carlo VII e degli Angiò che fossero venuti a Milano. Evidentemente la situazione politica induceva a ritenere più che probabile l’arrivo di emissari francesi.
E d’altra parte, come scrive Vincent Ilardi, «In the second half of 1458 and in 1459, when the French made several determined diplomatic efforts to isolate Ferrante, Sforza was one of their primary targets» [7].
Le serie Giorgi-Sforza e Cardano-Sforza mediante il racconto in esse contenuto miravano a conseguire tre obiettivi principali: 1) far credere non vera la voce riguardante l’avvenuta stipulazione di un’allenza fra Ludovico di Savoia e Francesco Sforza; 2) far credere non vera la voce riguardante l’avvenuta stipulazione della Lega di Borgogna, nella quale erano compresi Filippo il Buono, il delfino Luigi, il partito yorkista inglese, Alfonso il Magnanimo, Ludovico di Savoia e Francesco Sforza [8]; 3) convincere della lealtà di Ludovico Bolleri a Carlo VII e Renato d’Angiò.
La Serie Giorgi-Sforzae la Serie Cardano-Sforzasarebbero dunque composte da lettere ingannevoli e non autentiche e, per sembrare autentiche, esse ricorrono a una serie di stratagemmi che proponiamo di definire «segni di simulata autenticità» [9].
Fra questi ultimi possiamo annoverare i collegamenti ad altre serie documentarie [10], il cui fine pare consistere nel rendere possibile un «controllo cronologico comparativo» [11] in grado di garantire dell’autenticità delle lettere della Serie Giorgi-Sforza e della Serie Cardano-Sforza dal punto di vista del loro sviluppo cronologico [12].
Questi collegamenti pongono tuttavia un problema non irrilevante: le serie documentarie cui essi rimandano erano da mostrare solo per la piccola porzione direttamente interessata dal collegamento o nella loro interezza?
Si propende per la seconda ipotesi, consapevoli tuttavia che, per sostenerla, delle altre serie documentarie andrebbe compiuto un sondaggio ben più esteso di quello qui realizzato. L’ideale sarebbe ovviamente rappresentato da una loro ricostruzione il più possibile completa [13], soprattutto se si considera che di qualsiasi corrispondenza epistolare la ricostruzione della serie dovrebbe costituire operazione non secondaria e anzi preliminare all’approfondimento e alla comprensione dei suoi molteplici aspetti [14].
Si cercherà quindi di verificare se l’ipotesi che Francesco Sforza mostrasse non solola Serie Giorgi-Sforzaela Serie Cardano-Sforza, ma anche le altre serie a queste collegate sia percorribile o meno e quali obiettivi potesse porsi il duca di Milano così operando.
A questo punto, tuttavia, è necessario fare un passo indietro e alla luce dei documenti esaminati riguardanti Ludovico Bolleri cercare di comprendere più di quanto non sia stato fatto finora gli eventi dei quali fu involontario protagonista il signore di Centallo.

[1] Da qui in poi definiamo la corrispondenza con Corradino Giorgi «Serie Giorgi-Sforza» e quella con Antonio da Cardano «Serie Cardano-Sforza». Per quanto riguarda i due inviati si veda Leverotti, Franca, Diplomazia e governo dello stato. I «famigli cavalcanti» di Francesco Sforza (1450-1466), Pisa, ETS, 1992, rispettivamente pp. 180-181 e pp. 133-135. Per quanto riguarda Corradino Giorgi può essere questa la sede adatta per alcune precisazioni. Leverotti scrive: «La sola notizia riguardante la sua attività diplomatica è una lettera del Consiglio segreto dell’ottobre ’57 in cui suggerisce al duca di inviarlo in Savoia al posto di Francesco da Fossato che aveva rinunciato». Non è tuttavia da una lettera del Consiglio segreto, ma da un Registro delle Missive (si veda M38-A) che veniamo ad apprendere che il Consiglio segreto in due sue lettere del 17 e 18 ottobre 1457 avrebbe proposto al duca di Milano di mandare in Savoia Corradino Giorgi. Leverotti prosegue poi scrivendo: «Francesco però si dichiara contrario, affermando che Corradino non era esperto di cose di Francia». In realtà, il duca di Milano non si dichiara contrario, bensì, come risulta da M38-C, davanti all’eventualità se «mandare et al prefato duca et anche poy ala prefata maiestà del re de Franza […], considerato […] che Corradino Zorzo per voy ellecto, licet sia zovene, da bene et intendente, non sia bene experto in quelle parte de Franza […], dicimo che ne pare de mandare solamente dicto Conradino al prefato duca». Francesco Sforza, dunque, scarta l’ipotesi di inviare Corradino Giorgi in Francia per la sua inesperienza «in quelle parte de Franza», ma non è contrario al suo invio in Savoia.
[2] I possedimenti di Bolleri si estendevano sulla valle della Stura. A essi, dopo il matrimonio con Eleonora di Saluzzo, erede della viscontea di Rellaine, in Provenza, si aggiunse quello di Rellaine.
[3] Margaroli, Paolo, Diplomazia e stati rinascimentali, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 7.
[4] In ambito di critica letteraria si parlerebbe di «sistema dei personaggi». Marchese, Angelo, L’officina del racconto, Milano, Mondadori, 1983, pp. 195-204, e Segre, Cesare, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, p. 200 e p. 273.
[5] Segre, Cesare, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, p. 79. Segre definisce «avantesto» «l’insieme dei materiali precedenti la stesura definitiva» di un testo, nel nostro caso costituito da lettere.
[6] Alle promesse fatte da Ludovico Bolleri al duca di Savoia.
[7] Ilardi, Vincent, «The Italian League. Francesco Sforza and Charles VII (1454-1461)» in Studies in the Renaissance, VI, 1959, p. 151 (ora in Ilardi, Vincent, Studies in Italian Renaissance Diplomatic History,London, Variorum Reprints, 1986). Passiamo in rassegna gli ambasciatori francesi giunti presso Francesco Sforza sino ai primi mesi del 1459.
All’inizio di maggio del 1458 Francesco Sforza riceve Antonello Pagano, inviato di Renato d’Angiò (ambasciata non segnalata nei testi consultati; si vedano M44-22r, Pagano1, Pagano2 e Angiò1). Nello stesso mese Giovanni d’Angiò manda a Milano Daniele Arrighi, barone napoletano in esilio. Poiché viene da Genova, città infestata dalla peste, Arrighi viene fatto sostare a Chiaravalle e può entrare a Milano solo il 13 giugno (Ilardi, Vincent, «The Italian League. Francesco Sforza and Charles VII (1454-1461)» in Studies in the Renaissance, VI, 1959, p. 151 e n. 84; Nunziante, Emilio, «I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò», Archivio storico per le province napoletane, XVII, 1892, pp. 755-759;  Sacchi Orlandini, Pia, Quattro anni di storia genovese (1454-1458) alla luce dei documenti sforzeschi, Pavia, Ponzio, 1953, p. 65; si vedano M44-37r (A), M44-37r (B), M38-297r (A) ed M38-297r (B). Come risulta da Venezia37, Arrighi viene ricevuto nello stesso giorno in cui il duca di Milano accoglie i quattro ambasciatori mandati da Ludovico di Savoia per dirimere la controversia relativa alla vicenda di Ludovico Bolleri). Verso la fine di giugno arriva a Milano Honorat de Berre, consigliere di Renato d’Angiò inviato per proporre un attacco congiunto angioino-sforzesco contro il duca di Savoia (di questa missione non si è trovata menzione nei testi consultati; si vedano Angiò4, Angiò5 e PaS1; per i dettagli della proposta angioina di attacco Angiò4-All; per la risposta sforzesca Napoli22, Firenze27 e Roma 28). All’inizio di luglio è la volta di Rolin Regnault, che reca una lettera di Carlo VII (du Fresne de Beaucourt, Gaston, Histoire de Charles VII, Paris, Picard, 1891, p. 241; Perret, Paul Michel, Histoire des relations de la France avec Venise, Paris, 1896, p. 308; si vedano Firenze28, Napoli23 e Venezia38). Il 3 settembre 1458 il re di Francia invia a Milano Jean d’Amancier, uno dei suoi consiglieri (du Fresne de Beaucourt, Gaston, Histoire de Charles VII, Paris, Picard, 1891, pp. 241-242; Catalano, Franco, «La politica italiana dello Sforza» in AAVV, Storia di Milano, vol. VII, L’età sforzesca dal 1450 al 1500, parte I, cap. II, Milano, Fondazione Treccani, 1956, p. 130, n. 2; Ilardi, Vincent, «The Italian League. Francesco Sforza and Charles VII (1454-1461)» in Studies in the Renaissance, VI, 1959, p. 151 e n. 84; Perret, Paul Michel, Histoire des relations de la France avec Venise, Paris, 1896, p. 310; si vedano Carlo VII1, CarloVII2 ed M44-125R). Nell’ottobre successivo è la volta di due ambasciatori di Renato d’Angiò: Nicolas de Brancas, vescovo di Marsiglia, e Giovanni Cossa, anch’egli, come Arrighi, barone napoletano in esilio (Catalano, Franco, «La politica italiana dello Sforza» in AAVV, Storia di Milano, vol. VII, L’età sforzesca dal 1450 al 1500, parte I, cap. II, Milano, Fondazione Treccani, 1956, p. 120, n. 2; Ilardi, Vincent, «The Italian League. Francesco Sforza and Charles VII (1454-1461)» in Studies in the Renaissance, VI, 1959, p. 151 e n. 84; Perret, Paul Michel, Histoire des relations de la France avec Venise, Paris, 1896, p. 311; si vedano M38-357v ed M44-81r). Verso la metà di novembre Francesco Sforza riceve di nuovo Daniele Arrighi, inviato da Giovanni d’Angiò (M44-100v). Il 21 novembre 1458 e il 31 gennaio 1459 è invece Carlo VII a mandare presso il duca due suoi ambasciatori: rispettivamente Guillaume Toreau (du Fresne de Beaucourt, Gaston, Histoire de Charles VII, Paris, Picard, 1891, pp. 243-244; Catalano, Franco, «La politica italiana dello Sforza» in AAVV, Storia di Milano, vol. VII, L’età sforzesca dal 1450 al 1500, parte I, cap. II, Milano, Fondazione Treccani, 1956, p. 130, n. 2; Perret, Paul Michel, Histoire des relations de la France avec Venise, Paris, 1896, p. 312; si vedano M144-125R e Carlo VII3) e Jean du Mesnil-Simon, balivo di Berry e signore di Maupas (du Fresne de Beaucourt, Gaston, Histoire de Charles VII, Paris, Picard, 1891, p. 247; si veda M44-127r). All’inizio del 1459 Giovanni d’Angiò manda a Milano gli stessi inviati di cui si era servito suo padre Renato pochi mesi prima: Nicolas de Brancas, vescovo di Marsiglia, e Giovanni Cossa (du Fresne de Beaucourt, Gaston, Histoire de Charles VII, Paris, Picard, 1891, p. 245-246).
Può essere utile rilevare come alcuni di questi ambasciatori (Giovanni Cossa, Jean d’Amancier, Guillaume Toreau e Jean du Mesnil-Simon) erano stati presso Ludovico di Savoia fra la fine del 1457 e l’inizio del 1458, nello stesso periodo, quindi, in cui vi si trovava Corradino Giorgi.
[8] La denominazione «Lega di Borgogna» è presente in Ventura2-Av, in cui si legge: «Per la morte del re [d’Aragona] è finita la lega di Borgogna et è d’accordo col re di Francia. Et a facti del dalphyno hanno preso buona forma». In VeS4 leggiamo inoltre: «Borgogna, che è in bonissima dispositione con la sacra maestà del re di Francia per la morte del re da Raona, suo collegato, di che perde riputatione assai, ora di miglior voglia viverrà. Inghilterra in tribulationi si trova».
[9] Per il concetto di «segni di simulata autenticità» abbiamo preso spunto da Lozano, Jorge, Il discorso storico, Palermo, Sellerio, 1991, pp. 124-127. Lozano, che in queste pagine si rifà ampiamente a Krzysztof Pomian («Le passé: de la foi à la connaissance», Le Débat, 23), sottolinea come «nello sforzo dello “storico” per sbarazzarsi del mitico si può scorgere una prima opposizione che sarà costante nel tempo e nella ricerca storica. Parliamo dell’opposizione tra testo storico e testo di finzione. […]. Per S. Isidoro la differenza tra storia e favola è d’ordine ontologico: si tratta di distinguere fra fatti possibili e fatti impossibili. […]. Per Voltaire, invece, storia e favola si distinguono in funzione dell’intenzione del racconto, del modo in cui ciascuno d’essi presenta i fatti. In questa definizione si segnala cioè una differenza di tipo discorsivo che interessa il modo e l’intenzione. È però necessario, in ogni caso, che qualsiasi discorso sulla storia sia esso stesso un discorso storico. Perché ciò si verifichi è necessario che il  testo storico abbia delle “marche di storicità”». Lozano prosegue parlando delle «marche del tipo “ho visto” e “ho udito da una persona credibile che ha visto ciò di cui parlo”, che caratterizzano […], senza tener conto di altre differenze, le antiche storiografie cinesi, greche e romane, come pure quelle medievali, arabe, turche, bizantine, slave e occidentali, tanto in latino come in vernacolo. L’altro tipo, riassumibile nella formula “ho constatato studiando le fonti” […], è invece caratteristico del tipo di storia che inizia in Italia nel secolo XV». Lozano aggiunge poi che «i contrassegni tipografici caratteristici di un testo di storia hanno come fine anche quello di indicare che un certo testo non è il prodotto della immaginazione. Citiamo rapidamente alcuni esempi: prima dell’invenzione della stampa, le marche di storicità […] sono anzitutto formule solenni, site generalmente all’inizio o alla fine dell’opera, che assicurano come l’autore abbia visto con i propri occhi ciò che descrive. Nel secolo XVI appaiono le mappe e le citazioni con rimando alle fonti stampate o manoscritte. I quadri con colonne di cifre appaiono nel settecento. I grafici solo a partir dagli ultimi decenni dell’ottocento. Più recentemente sono apparse le fotografie considerate come fonti. Questi esempi sottolineano lo sforzo costante di separare il testo storico da quello di finzione».
Al termine «marche» abbiamo preferito «segni». In proposito segnaliamo come il citato articolo di Pomian costituisca la seconda parte di Pomian, Krzysztof, «Natura, storia, conoscenza», in Enciclopedia Einaudi, vol. XV, Torino, Einaudi, 1992, pp. 1112-1130, in cui «marques» viene tradotto con «segni».
[10] Ci riferiamo in particolar modo ai Registri delle Missive 34 e 44 e alle lettere che formano la corrispondenza intrattenuta da Francesco Sforza con Marchese da Varese, Antonio da Trezzo, Nicodemo Tranchedini e Ottone del Carretto, ambasciatori rispettivamente a Venezia, Napoli, Firenze e Roma.
[11] Per la definizione «controllo cronologico comparativo» si è tratto spunto da Droysen, Johann Gustav, Istorica – Lezioni di enciclopedia e metodologia della storia (1857), Napoli, Ricciardi, 1994, p. 256: «Nel mondo ellenico la storia è stata sempre estremamente animata, e neppure i luoghi più insignificanti della vita ellenica sono stati privi delle loro saghe locali, di leggende dei templi, di storie di fondazione. Ma tutto ciò, riprodotto all’infinito, si è cancellato, colorito, mischiato con storie sacre; non c’è mai stato un controllo comparativo, mai una norma cronologica».
[12] La questione della cronologia non pare trascurabile. Lettere non autentiche che vogliano sembrare autentiche cercheranno in ogni modo di far apparire verosimile il loro sviluppo cronologico. Della cronologia Droysen (in Droysen, Johann Gustav, Istorica – Lezioni di enciclopedia e metodologia della storia (1857), Napoli, Ricciardi, 1994, p. 266) così scrisse: «è praticamente come una grammatica». Come la grammatica è essenziale per il corretto funzionamento di una lingua, così lo è la cronologia per accertare la verità di «qualcosa» che è o vuole sembrare situato nel tempo.
[13] Non si può considerare una ricostruzione completa la pubblicazione a cura di Francesco Senatore, Dispacci sforzeschi da Napoli, Napoli, Carlone Editore,1997, in quanto priva delle risposte di Francesco Sforza alle lettere di Antonio da Trezzo. La mancanza di uno dei due poli della comunicazione rischia inoltre di compromettere la comprensione dei dispacci sia dal punto di vista complessivo sia per quanto riguarda temi particolari.
Trattandosi poi nel presente lavoro di lettere che si ipotizza venissero utilizzate per ingannare, non ci si può esimere dal segnalare la missiva inviata da Antonio da Trezzo a Francesco Sforza il 14 febbraio 1458 e pubblicata da Senatore alle pp. 599-602. Senatore segnala l’esistenza di una copia riformata di questa lettera nella quale «manca tutto il colloquio tra Bartolomeo [da Recanati], da Trezzo e il re» nel corso del quale «il re accetta il finanziamento sforzesco alla guerra contro Genova e rimette a Vilamari la scelta tra fanti o cavalli da reclutare» (per quanto riguarda le copie riformate si veda Senatore, Francesco, «Falsi e “lettere reformate” nella diplomazia sforzesca», Bollettino dell’Istituto Storico e Archivio Muratoriano, 99, 1993, pp. 229-230: «Le lettere provenienti da Napoli o da altri stati potevano essere corrette e opportunamente adattate («reformate») per venire poi spedite in visione in altri stati o mostrate ai relativi ambasciatori, sotto forma di copie o di estratti). Nella lettera originale così scrive Antonio da Trezzo: «ancora non pò sapere la maiestà soa che al bisogno del’impresa habiano ad esere necesarii più fanti che cavali, né cavali più che fanti. Scriverà al capitaneo dele galee che in quello che li bisognerà de fanti o cavali debia recorere a Bartolomeo da Recanati, el quale serà a Milano et provederà ad quanto bisognerà». Se a questo punto si prende in esame la copia riformata, è evidente un fatto curioso. In essa, infatti, vi sono delle parole cancellate, ma comunque leggibili, anche se non facilmente, e altre scritte nell’interlinea, sicché essa appare come segue: «Signore. Dapoy che per mie date ad Attella a dì primo de questo significay alla excellentia vostra el giongere de Bartholomeo da Recanati et mio alla maiestà del re et quanto gratamente essa ce ha veduti et che essa concludeva volere aspectare la venuta de domino Petro Spinula per intendere se al bisogno de (mettere forma al facto de [scritto nell’interlinea sopra le parole depennate]) l’impresa sonno più necessari fanti che cavalli, dicto misser Petro vene, el quale ce steti alcuni dì ben veduto da essa maiestà. Et poy vene qua ad Venosa, per non essere in tucto spaciato ad Attella, et è remandato ad Napoli insieme col prothonotario, per dare forma alla expedicione del’armata, interim che la maiestà soa etiam gli andarà, che dice sarà presto». Non si può non rilevare la stranezza di una copia riformata che lascia trasparire il motivo per il quale potrebbe essere stata estratta dalla lettera originale. Si obietterà che non è presente alcun riferimento al fatto che dovesse essere Francesco Sforza a fornire i fanti o i cavalli, ma l’obiezione non convince, perché in un momento in cui il duca di Milano era sospettato di voler aiutare Alfonso il Magnanimo contro Genova, le parole cancellate di questa missiva, redatta appositamente per essere mostrata, non potevano non far sorgere nel lettore il dubbio che esse si riferissero proprio all’aiuto che Francesco Sforza era sospettato di voler fornire al re d’Aragona. Sicché queste considerazioni inducono inevitabilmente a chiedersi quale «uso» potesse essere fatto di una copia riformata che lascia trasparire il motivo per il quale non poteva essere mostrata la lettera originale.
[14] In proposito è pertinente ricordare le parole di Droysen (in Droysen, Johann Gustav, Istorica – Lezioni di enciclopedia e metodologia della storia (1857), Napoli, Ricciardi, 1994, p. 266): «Abbiamo davanti a noi un mucchio di materiali […] in disordine; cosa dobbiamo farne? Sarebbe sbagliato credere che in tale materiale noi abbiamo di fronte lo stato di fatto di quel passato. È solo lo stato di fatto tuttora esistente del materiale storico, ancora ben lungi dall’essere identico allo stato di fatto reale di quel passato, a comprenderlo compiutamente. Di questo, della realtà quale era allora, abbiamo davanti a noi solo rovine, frammenti […]. Questa massa così disordinata e in rovina dobbiamo innanzitutto ordinarla secondo le fratture e giunture ancora riconoscibili in modo tale che ci stiano davanti in modo corrispondente allo stato di fatto allora reale. Dobbiamo intraprendere la critica di questo stato di fatto frammentario, cercare di verificarlo quanto più possibile. Dapprima si tratta di accertare la successione dei singoli elementi. Incontriamo qui innanzitutto la questione della cronologia. Essa è praticamente come una grammatica».
Non pare quindi potersi concordare con quanto scrive Isabella Lazzerini (in «L’informazione politico-diplomatica nell’età della pace di Lodi: raccolta, selezione, trasmissione», Nuova Rivista Storica, LXXXIII, 1999, p.256), pur riferendosi al carteggio dei signori di Mantova: «L’intreccio delle lettere degli inviati a Milano e delle risposte dei signori della città rende peraltro privo di significato il tentativo di ricostruire una precisa corrispondenza delle une e delle altre, dal momento che le missive dei marchesi non erano lettere in risposta di lettere, ma serie di istruzioni, interrogativi, ordini, richieste».

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