Lettere false: la serissima beffa di Francesco Sforza

Testo preparatorio a “Lega di Borgogna e lettere false: la beffa di Francesco Sforza”

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Suggerimento riguardo alla sequenza di lettura dei testi

  1. L’identificazione Cristo/delfino
  2. Una spiegazione sul perché la Pasqua sia così importante nella documentazione in esame [da completare]
  3. Una missiva per Corradino Giorgi, ma scritto “Georgio de Conradinis” [da correggere e completare]
  4. Il reale scopo di una “differentia” simulata: l’alleanza sabaudo-sforzesca e i suoi effetti
  5. La “corrispondenza sommersa”, l’alleanza sabaudo-sforzesca e le carte da trionfi
  6. Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino (e il viaggio di Alessandro Sforza)
  7. La simulazione delle aggressioni militari sabaude nell’aprile del 1458 [da completare] Quest’ultima è una lettura preliminare consigliata per chi abbia dubbi.
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Marchese da Varese, tre lettere non autentiche, il viaggio di Alessandro Sforza e un accenno all’ambasciata inglese [da completare]

Prima di trattare gli argomenti che si desiderano affrontare in questo testo, è opportuno chiarire la natura del documento datato 26 gennaio appartenente alle lettere del sacco da cui abbiamo intenzione di prendere le mosse. Come spiegato nel testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino, esso “presenta caratteristiche peculiari, prima fra tutte in basso a destra la firma ‘Conradinus de Georgiis’ nonostante la grafia sia del decifratore. Non può tuttavia essere considerato una decifrazione, in quanto le decifrazioni delle lettere dell’inviato ducale recano tutte in alto l’intestazione ‘Ex zifra Conradini de Georgiis’, di cui il documento è privo, e nessuna di esse è firmata”.

“Soprattutto quest’ultimo aspetto rende anzi il documento anomalo rispetto non solo alle decifrazioni dell’ambasciatore sforzesco, ma anche all’intero corpus di decifrazioni reperibili presso il Fondo Sforzesco dell’Archivio di Stato di Milano. Rileviamo che alle pagine 256-260 e 396-417 dedicate alle cifre di Uno mundo de carta Francesco Senatore non segnala il caso di decifrazioni al termine delle quali il decifratore ponga il nome del mittente. Il documento si configura pertanto come una minuta, opera del decifratore ed eseguita presso la cancelleria a Milano, da cui in un secondo momento Corradino Giorgi ha tratto la lettera in cifra. Può essere il caso di rilevare che esso è interessato da un errore di datazione. Nella parte iniziale della missiva datata 18 aprile l’ambasciatore in Savoia scrive infatti: ‘Ho intexo quanto sce grava la signoria vostra de mi non habia visitati questi signori ambaxatori del re de Franza quali erano qui he la iniuntione me fa la signoria vostra, la qual statim haverea exequita sce gli fosano stati, ma erano zà partiti, como ha potuto intendere la signoria vostra per una mia data a desdoto del passato, ma, aciò la signoria vostra intenda alchuna cosa dela casone dela mia negligentia, hè stato però che, havendo scripto de molti giorni avanti la loro venuta, io avisai la signoria vostra per molte mie letre he dela ambasciata haveano facti e delo aviso havea da Guliermo Bolero, qual era cum essi, e per alchune de esse mie letre pregava la signoria vostra gli piazese farme dare adviso de quanto havea a fare, unde mai non have resposta de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo‘. Trascurando l’errore di datazione che Corradino Giorgi compie segnalando di avere avvisato Francesco Sforza della partenza degli ambasciatori francesi con una lettera ‘data a desdoto del passato‘, perché la lettera cui si riferisce, nella quale esordisce avvisando che ‘li ambaxadori del re di Franza sono partiti‘, è del 28 marzo, qui importa sottolineare che, quando l’inviato ducale segnala di non avere avuto risposta ‘de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo‘, cade in un altro errore. La prima data deve infatti essere corretta in 25 gennaio, perché nella missiva in cifra del 26 gennaio di cui sopra l’inviato sforzesco avvisa che ‘a vintacinque dil prescente per lo Boffa cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra‘. Viene così attirata l’attenzione appunto sul documento in cifra e sulla minuta, in modo da sottolineare che dal punto di vista della cronologia redazionale la seconda, che non è una decifrazione, non segue il primo, bensì lo precede in quanto appunto minuta. La missiva in cifra si configura pertanto come una copia della minuta o, se si preferisce, un evidente falso”. A questo punto possiamo osservare che dalla minuta di mano del decifratore datata 26 gennaio appartenente alle lettere del sacco si viene a sapere che “da quelli erano con lo dicto ambassatore [di Ludovico di Savoia, che aveva fatto ritorno dalla missione presso Carlo VII] ho inteso el signor Alexandro esser andato in Flandra dal duca de Burgundia”. Questa informazione, per quanto corretta, non risulta tuttavia particolarmente aggiornata, considerato che il fratello di Francesco Sforza si trovava presso Filippo il Buono dall’inizio dello stesso mese di gennaio, come sappiamo grazie a una lettera del 9 febbraio di Nicodemo Tranchedini nella quale l’ambasciatore scrive: “Cosimo me ha mostre più lettere da Brugia ch’el nostro magnifico .. signore messer Allexandro è là”. “Brugia” è Bruges, città oggi capoluogo della provincia delle Fiandre Occidentali, appartenente alle Fiandre, una delle tre regioni del Belgio, distante una quindicina di chilometri dal Mare del Nord, cui era collegata dal corso d’acqua chiamato Zwin. Poi l’ambasciatore sforzesco aggiunge parole che non corrispondono in alcun modo alla realtà, ossia che il fratello di Francesco Sforza “may havia possuto favellare ad quel .. signore in più de uno mese era stato là et che non ce havia credito né reputatione per più rispecti, presertim comprehendendo quel .. signore che non è de là cum vostra gracia”. L’unica informazione utile consiste nella precisazione “in più de uno mese era stato là”, che chiarisce che Alessandro Sforza si è recato da Filippo il Buono all’inizio di gennaio del 1458, dopo che molto probabilmente entro la prima metà di novembre del 1457 si era recato presso Carlo VII, dove quindi sarebbe rimasto circa due mesi, comprese le feste di Natale del 1457. In un’altra missiva appartenente alle lettere del sacco di un mese dopo, ossia del 26 febbraio, si legge poi che “li portadori debeno eser merchadanti zenoesi, quali diceno venire a Milano, se non me inganano, e lo signor Alisandro eser duca de Borgogna et bem veduto et vestito ala franzosa cum tuti li soi et diceno deveva andare re d’Inglitera et che, a suo comprendere, el mena de secrete et strete pratiche”, informazione poi ribadita nella lettera del 2 marzo. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 1458 il fratello di Francesco Sforza si trovava ancora in Borgogna, come vedremo essere confermato da una lettera di Sceva Corti del mese successivo, mentre del presunto viaggio in Inghilterra parleremo più avanti, anche se ci sembra importante rilevare che si dica che pareva conducesse “secrete et strete pratiche”. A questo punto può essere interessante esaminare la corrispondenza tra Francesco Sforza e Marchese da Varese sempre in merito ad Alessandro Sforza. L’1 febbraio l’ambasciatore scrive: “Non so di chi più posser avisare vostra signoria, salvo che questo illustrissimo principe et signoria, per partecipare et comunicare con essa al modo usato, mi dà copia d’una parte di soa lettera del suo capitaneo dele galee de Fiandra, la quale mando aligata. Molto si sta qui in vario iudicio sopra l’andata del signore Alisandro. Chi più gli pare meglio d’intendere dicano che senza dubio non deve né pò esser andato in quelle parte senza consentimento et ch’el sia mandato per la signoria vostra, per dover tractare e praticare cose nove, maxime intervegnendo mo la ditta presente parte copia di lettera per lo adunarse quisti reyali et signori, che questo debia essere per qualche nova intelligentia”. In un’altra lettera datata 3 febbraio l’ambasciatore aggiunge: “Lo dì dele candelle, facendo compagnia al principe ala messa e ala processione, intrò con mi con dire ciò che me pariva di quella parte copia di lettera scritta per lo suo capitaneo dele galee de Fiandra sopra quegli fatti di Francia e quello che intendeva di fatti del signor Alisandro. Rispose che di quelle cose n’aveva poca intelligentia, che per qualche pratica sempre haveva inteso dire che le grande viste de tramontana e li tanti tosto di Francia lo più dele volte se reduceno al non niente; del signor Alisandro che miser Sceva m’avea ditto ch’el era andato di là per andare a Sancto Antonio e per videre del payse, com’el fa, che questa soa andata era suta increscievole ala signoria vostra. Rispose soa signoria, secondo l’aviso che havevano da Nicolò di Grassi, che la signoria vostra gli n’aveva parlato in simil modo, che, daben nel principio fosse fatto qualche caso di questa soa andata, dapoy […] che mo non si crede altramente sino ch’el sia andato per soa voglia et per videre dele cose di là senz’altro fondamento”. A questo punto in una minuta datata 8 febbraio Francesco Sforza segnala la ricezione della lettera dell’1 febbraio di Marchese da Varese scrivendo: “Havemo inteso quello ne hai scripto per una toa data al primo del presente et quanto se contene in la introclusa copia di facti de Franza et de Alexandro nostro fratello, circa le quale cose non accade dire altro, se non che volemo de tuto ne rengratii quella illustrissima signoria. Et, aciò intendi quello intendiamo nuy in li facti d’esso Alexandro, te avisamo che novamente è venuto ad nuy uno di soi, quale è stato a Burge in Barì in corte dela maiestà del re, et dice come el dicto Alexandro è stato lì, dapoi è andato a Bruge dal duca de Burgogna et dal delfino, deinde s’è levato da là per andare in Ingalterra, sich’el ne pare vada a solazo et per vedere el paysse”. Si noti innanzitutto che per la prima volta significativamente si dice che Alessandro Sforza si è recato non solo da Filippo il Buono, ma anche presso il delfino, mentre in una minuta ducale datata 2 gennaio diretta a Nicodemo Tranchedini si diceva genericamente: “Quello che ne intendemo è ch’el debbe essere andato de Franza in Borgogna” e nella minuta di mano del decifratore datata 26 gennaio appartenente alle lettere del sacco, di cui abbiamo già parlato, è scritto che “da quelli erano con lo dicto ambassatore [di Ludovico di Savoia, che aveva fatto ritorno dopo essere stato da Carlo VII] ho inteso el signor Alexandro esser andato in Flandra dal duca de Burgundia”. Pare inoltre abbastanza evidente che vi sia un gioco di parole fra “Burge”, località francese nella regione del Berry corrispondente all’attuale comune di Bourges, e “Bruge”, toponimo con cui si indica la città belga di Bruges. Con l’inversione della seconda e della terza lettera dei due toponimi, ossia da “B-ur-ge” a “B-ru-ge”, si vuole far capire che Alessandro non “s’è levato da là per andare in Ingalterra”, ma che al contrario è giunta in Borgogna un’ambasciata da parte di Enrico VI. A ulteriore conferma dell’ambasciata inglese in Borgogna si ha la lettera di Marchese da Varese datata 16 febbraio, in cui implicitamente l’ambasciatore segnala la ricezione della lettera tratta dalla minuta ducale dell’8 dello stesso mese. In essa si legge: “Haute lettere dala vostra signoria sopra lo ringratiare che la fa questo principe et signoria del comunicare fece con mi di quella parte di lettera scripta per lo suo capitaneo dele galee di Fiandra conteniva la venuta del duca de Bregognia, del delfino, che se aspectavano lo re Reynero e digli altri etc. et che gli era lo signore Alisandro, poy gli disse, per partecipare con sì del tutto, era venuto uno fameglio del ditto signore Alisandro diceva come l’era statto nela corte delo re, poy a Brugia dal duca de Bregognia, et che l’era per andare in Ingalterra con uno pensciero di voler videre del payse”. Come si può notare, nella lettera dell’1 febbraio Marchese da Varese scrive di avere ricevuto dal doge una “copia d’una parte di soa lettera del suo capitaneo dele galee de Fiandra”. Subito dopo aggiunge che “Molto si sta qui in vario iudicio sopra l’andata del signore Alisandro”, ma si può escludere che sia nella “copia” che si parli dell’”andata” “in quelle parte” del fratello di Francesco Sforza, perché il fatto che poi si aggiunga che “Chi più gli pare meglio d’intendere dicano […] ch’el sia mandato per la signoria vostra, per dover tractare e praticare cose nove, maxime intervegnendo mo la ditta presente parte copia di lettera per lo adunarse quisti reyali et signori, che questo debia essere per qualche nova intelligentia”, consente di affermare che nella “ditta presente parte copia di lettera” “mo” arrivata con l’informazione relativa a un non ben chiaro “adunarse quisti reyali et signori, che questo debia essere per qualche nova intelligentia”, implica che nella “ditta presente parte copia di lettera” non si parli del fratello di Francesco Sforza. Tuttavia, bisogna rilevare l’ambiguità dell’informazione relativa all’“andata” “in quelle parte”: non ci si riferisce infatti alla Borgogna, come potrebbe far pensare l’accostamento al “capitaneo dele galee de Fiandra” e il contesto pragmatico, poiché si sapeva che Alessandro Sforza si trovava presso Filippo il Buono dall’inizio del precedente mese di gennaio, bensì alla Francia, come induce a pensare il vago riferimento all’“adunarse quisti reyali et signori”. In ogni caso essa risulta molto datata. L’osservazione è confermata dalla lettera del 3 febbraio. In quest’ultima l’ambasciatore accenna al fatto che il doge gli avrebbe richiesto un parere su “quella parte copia di lettera scritta per lo suo capitaneo dele galee de Fiandra sopra quegli fatti di Francia e quello che intendeva di fatti del signor Alisandro”. Si noti innanzitutto che Marchese da Varese continua a rimanere nel vago per quanto riguarda la natura di “quegli fatti di Francia”, anche se riguardo a essi precisa di avere risposto che “di quelle cose n’aveva poca intelligentia, che per qualche pratica sempre haveva inteso dire che le grande viste de tramontana e li tanti tosto di Francia lo più dele volte se reduceno al non niente”. Poi, come abbiamo visto, aggiunge: “del signor Alisandro che miser Sceva m’avea ditto ch’el era andato di là per andare a Sancto Antonio e per videre del payse, com’el fa, che questa soa andata era suta increscievole ala signoria vostra”. Le parole “miser Sceva m’avea ditto ch’el era andato di là per andare a Sancto Antonio e per videre del payse” non possono che riferirsi alla Francia, anche se, come detto, sappiamo che in realtà in quel momento il fratello di Francesco Sforza si trovava presso il duca di Borgogna. Inoltre l’aggiunta “che questa soa andata era suta increscievole ala signoria vostra” corrisponde solo parzialmente al vero. In una lettera contenuta nel recto della carta 357 del Registro delle Missive 29 e  datata 13 luglio 1457, diretta proprio a suo fratello, Francesco Sforza scrive infatti: “Havemo inteso la rechesta quale tu ne fay del venire tuo da nuy et stare qui tri o quattro dì et poi andare ad Sancto Antonio. Te respondemo ch’el ne piace vegni ad tuo piacere”. Ancora più chiaramente nella precedente lettera a Orfeo da Ricavo, datata 12 luglio e presente alla fine del verso della carta 356, si legge: “Venerà qui Alexandro, nostro fratello, quale ne ha scripto volere venire da nuy per tri o quatro dì et poi andare ad Sancto Antonio. Nuy li havemo resposto che siamo contenti” (per un approfondimento delle due missive si veda il testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino). Le parole riportate non permettono di affermare che l’“andare a Sancto Antonio” fosse “increscievole” per il duca di Milano. Una conferma in questo senso viene dalla minuta dell’11 novembre 1457 nella quale Francesco Sforza riferisce ad Antonio da Trezzo che “ali dì passati Alexandro, nostro fratello, fo da noy ad Milano et è andato ad Sancto Antonio de Vienna per soa devocione”, parole che di nuovo implicano che il viaggio “ad Sancto Antonio de Vienna per soa devocione” non fosse “increscievole” per Francesco Sforza. Piuttosto lo si potrà pensare rispetto al “videre del payse”, perché si vuole velatamente far capire che il vero obiettivo del viaggio del fratello era recarsi presso Filippo il Buono. La conferma che “increscievole” era il “videre del payse” viene proprio dal prosieguo della minuta ducale diretta ad Antonio da Trezzo, in cui si legge che, “credendo omay tornasse, perché già è passato uno mese se partì da noy e non è tornato, ymmo sentiamo è passato oltra dal re de Franza, però volimo ne advisi la maiestà del re, perché de nostra saputa non è passato ultra, perché non voressimo qualchuno daesse ad intendere ala prefata […] la cosa altramente”. Si noti quindi che, se nella lettera dell’1 febbraio l’informazione relativa all’“andata” “in quelle parte” risulta ambigua e superata dagli eventi, le parole di Sceva Corti riguardo al fatto “ch’el era andato di là per andare a Sancto Antonio e per videre del payse […] che questa soa andata era suta increscievole ala signoria vostra”, corrispondono solo parzialmente al vero e inoltre sono anch’esse poco aggiornate. In ogni caso, prendendo spunto da quanto detto in merito alla lettera dell’1 febbraio, è possibile di nuovo affermare che “quello che intendeva di fatti del signor Alisandro” su cui il doge chiede un “parere” non sia contenuto nella “copia di lettera”. Quindi nella sua minuta dell’8 febbraio Francesco Sforza segnala di avere ricevuto, oltre alla lettera dell’1 febbraio del suo ambasciatore, “la introclusa copia di facti de Franza et de Alexandro nostro fratello”, ma non specifica in cosa consistano di preciso né i primi né i secondi, cui si accenna per la prima volta in relazione alla “copia”, la quale dunque contiene informazioni relative a “facti […] de Alexandro nostro fratello”, che però non hanno nulla a che vedere con quanto scritto di quest’ultimo nella missiva di Marchese da Varese cui sta rispondendo. Per sottolineare l’ambiguità della formula da lui utilizzata, Francesco Sforza poi scrive: “Et, aciò intendi quello intendiamo nuy in li facti d’esso Alexandro”, parole nelle quali è da sottolineare il nuovo riferimento ai “facti d’esso Alexandro”, sui quali, come abbiamo visto sopra, poi si dilunga e che consistono in una replica non ai “facti” dell’“introclusa copia”, ma a quanto scritto da Marchese da Varese in merito all’“andata” “in quelle parte” del fratello. Si arriva così alla missiva di Marchese da Varese del 16 febbraio, nella quale si legge quanto abbiamo già citato e che ripetiamo per maggiore chiarezza: “Haute lettere dala vostra signoria sopra lo ringratiare che la fa questo principe et signoria del comunicare fece con mi di quella parte di lettera scripta per lo suo capitaneo dele galee di Fiandra conteniva la venuta del duca de Bregognia, del delfino, che se aspectavano lo re Reynero e digli altri etc. et che gli era lo signore Alisandro, poy gli disse, per partecipare con sì del tutto, era venuto uno fameglio del ditto signore Alisandro diceva come l’era statto nela corte delo re, poy a Brugia dal duca de Bregognia, et che l’era per andare in Ingalterra con uno pensciero di voler videre del payse”. Più oltre l’ambasciatore aggiunge che il doge “Dise haver questo medesmo del signor Alisandro per altra via et ch’el s’è reducto con pochi cavagli per meglio posser fornire questo suo pensciero, per andarse trastulando e videndo”. Si viene così per la prima volta a sapere “di quella parte di lettera scripta per lo suo capitaneo dele galee di Fiandra conteniva la venuta del duca de Bregognia, del delfino, che se aspectavano lo re Reynero e digli altri etc. et che gli era lo signore Alisandro”. Innanzitutto, per la prima volta veniamo a conoscenza di “cosa dicesse del fratello di Francesco Sforza il “capitaneo dele galee di Fiandra”, ossia “che gli era lo signore Alisandro”, anche se il problema riguarda dove si trovasse il fratello di Francesco Sforza. Analoga ambiguità concerne le parole “quella parte di lettera scripta per lo suo capitaneo dele galee di Fiandra conteniva la venuta del duca de Bregognia, del delfino”. Premesso che la precisazione intermedia “che se aspectavano lo re Reynero e digli altri etc.” ha un carattere puramente riempitivo, poco più oltre Marchese da Varese riferisce quanto gli aveva scritto l’8 febbraio Francesco Sforza, ossia che “era venuto uno fameglio del ditto signore Alisandro diceva come l’era statto nela corte delo re, poy a Brugia dal duca de Bregognia, et che l’era per andare in Ingalterra con uno pensciero di voler videre del payse”. A una lettura attenta non sfuggirà che, mentre nella minuta ducale dell’8 febbraio è scritto: “novamente è venuto ad nuy uno di soi […] et dice come el dicto Alexandro […] dapoi è andato a Bruge dal duca de Burgogna et dal delfino, deinde s’è levato da là per andare in Ingalterra”, nella lettera dell’ambasciatore ducale si legge che “era venuto uno fameglio del ditto signore Alisandro diceva come l’era statto […] poy a Brugia dal duca de Bregognia, et che l’era per andare in Ingalterra”. Come si noterà, Marchese da Varese non solo non menziona il delfino, ma risulta riferire anche che Alessandro Sforza “era per andare in Ingalterra” e quindi si trovava ancora “a Brugia dal duca de Bregognia”, mentre il duca aveva scritto “deinde s’è levato da là [ossia ‘Bruge dal duca de Burgogna et dal delfino’] per andare in Ingalterra”. Come sappiamo, del “capitaneo dele galee de Fiandra”, il quale avrebbe genericamente parlato dell’“adunarse quisti reyali et signori, che questo debia essere per qualche nova intelligentia”, si viene per la prima volta informati in una lettera di Marchese da Varese dell’1 febbraio. Solo il 16 dello stesso mese l’ambasciatore accenna in modo un po’ più ampio, anche se non proprio perspicuo, a quanto scritto dal “capitaneo dele galee di Fiandra”, riferendo della “venuta del duca de Bregognia, del delfino, che se aspectavano lo re Reynero e digli altri etc. et che gli era lo signore Alisandro”. Se le parole “venuta del duca de Bregognia, del delfino” risultano in effetti ambigue, come del resto le successive “che se aspectavano lo re Reynero e digli altri etc.”, soprattutto alla luce del fatto che prima si era parlato solo di “adunarse quisti reyali et signori” e “fatti di Francia”, cui però significativamente ora l’ambasciatore non accenna più, l’indizio rivelatore di un problema da risolvere è costituito dalle parole “gli era lo signore Alisandro”, nel senso che è necessario capire dove si trovasse il fratello di Francesco Sforza, insieme all’anomalia sopra rilevata relativa al fatto che l’8 febbraio Francesco Sforza risulta implicitamente affermare che Alessandro non era più a ‘Bruge dal duca de Burgogna et dal delfino’, in quanto scrive “s’è levato da là [appunto ‘Bruge’] per andare in Ingalterra”, mentre il 16 febbraio l’ambasciatore riporta il senso di quanto scritto da Francesco Sforza al contrario, dicendo “che l’era per andare in Ingalterra”, parole che implicano che fosse ancora “a Brugia dal duca de Bregognia”. Chiariamo subito che rispetto alla minuta ducale dell’8 febbraio, la versione alla rovescia fornita da Marchese da Varese, secondo il quale Alessandro Sforza era ancora a Bruges, mira a far capire che il gioco di parole fra i toponimi “Burge” e “Bruge” presente nella minuta cui sta rispondendo è voluto e il suo obiettivo consiste nel far intendere che il fratello del duca non “s’è levato da là per andare in Ingalterra”, come scrive l’8 febbraio Francesco Sforza, perché al contrario è giunta in Borgogna un’ambasciata da parte di Enrico VI. Una conferma in questo senso la fornisce una lettera di Sceva Corti del 7 aprile il quale scrive al duca di Milano di avere “havuto da Pigello como el signor domino Allexandro, vostro fratello, se partì a XXII dì de marzo da Bruges […] e se ne vene per la via de Alamagna”. In più, come vedremo più avanti, il 26 maggio successivo lo stesso Alessandro Sforza invia da Pesaro una lettera ad Antonio da Trezzo nella quale descrive il suo viaggio dicendo di avere visitato prima il re di Francia, poi il duca di Borgogna e il delfino, senza menzionare in alcun modo l’Inghilterra. Se dunque la risposta al problema cui intende rimandare la proposizione “gli era lo signore Alisandro”, ossia che è necessario comprendere dove egli si trovasse, è che il 16 febbraio il fratello di Francesco Sforza era “a Brugia dal duca de Bregognia”, in realtà insieme anche al delfino, come significativamente non è riportato, pur essendo scritto nella minuta ducale dell’8 febbraio, non si capisce quale possa essere il senso delle parole “venuta del duca de Bregognia, del delfino”, visto che entrambi si trovavano già a Bruges. Quanto si vuol far capire è che il punto di vista che si deve assumere è quello del “capitaneo dele galee di Fiandra” e che pertanto con i termini “venuta del duca de Bregognia, del delfino” e anche con la frase “gli era lo signore Alisandro” in realtà ci si vuole riferire alla loro presenza sulla costa del Mare del Nord vicina alla città belga in attesa dell’arrivo dell’ambasciata inglese. Questa considerazione non è in contrasto con la constatazione che i tre personaggi menzionati il 16 febbraio si trovassero a Bruges, perché, come già detto, Marchese da Varese accenna al “capitaneo dele galee”, di cui gli ha parlato il doge, in una lettera dell’1 febbraio, di cui Francesco Sforza segnala la ricezione nella sua minuta dell’8 dello stesso mese con l’ormai noto gioco sui toponimi “Burge”/Bruge” e le implicazioni che esso ha relative all’incontro a quattro tra Filippo il Buono, il delfino, suo fratello Alessandro e appunto un’ambasciata proveniente dall’Inghilterra. Riteniamo assolutamente verosimile affermare che questo incontro sia avvenuto il 25 gennaio precedente e che a esso si alluda in modo simbolico con l’episodio relativo ad Arcimbaldo che si dice se ne va “verso una aqua” nella lettera del sacco datata appunto 25 gennaio, come vedremo in un altro testo. Naturalmente è certo che, essendo stata consegnata dal doge di Venezia a Marchese da Varese, sia veramente esistita la “copia d’una parte di soa lettera del suo capitaneo dele galee de Fiandra”, ma il suo contenuto riguardante “fatti di Francia” riportati nei documenti in modo assolutamente vago non ci è noto in alcun modo e anzi è stato piegato, per così dire, a inviare al lettore un preciso messaggio, che non ha nulla a che vedere con l’“adunarse quisti reyali et signori”. Si noti poi che nella minuta datata 18 febbraio Francesco Sforza adotta una formula assai ambigua, applicabile sia alla sua minuta dell’8 febbraio sia alla lettera di Marchese da Varese del 16 dello stesso mese. Si legge infatti: “Del facto de Alexandro quello che tu hay dicto ad quello illustrissimo misser lo duxe et quello che la signoria soa tene deli facti soy è el proprio vero et de luy fin qui non havemo altro, si non che havemo inteso che, retrovandose luy a Bruges, havia deliberato passare verso Ingliterra et cossì de lì poy andare discorrendo per videre altri paesi. Nuy, quanto dal canto nostro, gli havemo facto el segno dela sancta croxe”. Scopo dell’ambiguità è sottolineare la contraddizione esistente fra i due documenti precedentemente citati. In ogni caso la realtà è che, come abbiamo visto, il fratello di Francesco Sforza non si è recato in Inghilterra: come risulta dalle due lettere prima menzionate, la prima di Sceva Corti del successivo 7 aprile e la seconda dello stesso Alessandro Sforza inviata da Pesaro ad Antonio da Trezzo e datata 26 maggio. In quest’ultima si legge quanto segue: “per farvi intendere la casone de questa mia ambassata [affidata ad Antonio da Trezzo] et che vui possate con più vivacità attendere al mio bisogno, ve aviso che, ultra el desiderio mio de fare visitare la maestà prefata [ossia il “re da Ragona”], el fo per havere trovato de qua certa fama ch’io era homo et capitaneo del re di Francia, el quale io visitai, sì como feci ancora el duca de Bergogna et el dalphino, per non commettere una negligentia grande, la quale me pareva incorrere passando per loro terrenno senza visitare la maestà et signorie predicte, ad effecto che vui possate porgere el facto mio in modo che la maestà del re intenda la fama non solo non essere vera, ma essere stata omninamente fora del mio proposito, usando in questo astucia et diligentia ch’el porgiate per modo che la prefata maestà senta la verità et non para che vui vogliate fare scusa de quello che in sé non è de natura che se possa accusare o calumniare”. Come si può notare, il fratello di Francesco Sforza in modo beffardo accenna perfino a una “certa fama ch’io era homo et capitaneo del re di Francia”, rispetto alla quale prega l’ambasciatore di “porgere el facto mio in modo che la maestà del re intenda la fama non solo non essere vera, ma essere stata omninamente fora del mio proposito, usando in questo astucia et diligentia ch’el porgiate per modo che la prefata maestà senta la verità”. In effetti quest’ultima non consiste affatto nella “fama” che Alessandro Sforza “era homo et capitaneo del re di Francia”, bensì che con il suo viaggio presso Filippo il Buono e il delfino aveva contribuito in modo fondamentale alla formazione della Lega di Borgogna, di cui lo stesso Alfonso il Magnanimo faceva parte, come poi in una lettera datata 8 giugno Antonio da Cardano scrive (si veda al proposito il testo intitolato Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Trezzo). Riguardo alle osservazioni fatte sopra si può fare un’ultima considerazione. Come riportato nella lettera datata 1 febbraio, Marchese da Varese riferisce che il doge gli ha dato una “copia d’una parte di soa lettera del suo capitaneo dele galee de Fiandra”. Nella missiva del 3 febbraio l’ambasciatore adotta quasi la stessa formula scrivendo che il doge “intrò con mi con dire ciò che me pariva di quella parte copia di lettera scritta per lo suo capitaneo dele galee de Fiandra”. Quindi nella sua minuta dell’8 febbraio Francesco Sforza segnala di avere ricevuto la missiva dell’1 febbraio del suo ambasciatore con “la introclusa copia di facti de Franza et de Alexandro nostro fratello”. Infine nella lettera del 16 febbraio Marchese da Varese scrive di “quella parte di lettera scripta per lo suo capitaneo dele galee di Fiandra”. Come si può notare, in quest’ultima missiva l’ambasciatore non menziona il termine “copia”, che invece utilizza nelle precedenti lettere dell’1 e del 3 febbraio. L’assenza della parola è estremamente significativa, soprattutto se si considera che all’opposto per la prima volta, come detto sopra, veniamo a sapere quanto dicesse di Alessandro Sforza il “capitaneo dele galee di Fiandra”, ossia “che gli era lo signore Alisandro”, e che, scrivendo che il fratello di Francesco Sforza era ancora a Bruges, Marchese da Varese riferisce il contrario di quanto scritto nella minuta ducale dell’8 febbraio, indizi che abbiamo visto svelare che con le parole “venuta del duca de Bregognia, del delfino” e appunto la proposizione “gli era lo signore Alisandro” ci si riferisce alla loro presenza sulla costa del Mare del Nord nei pressi di Bruges in attesa dell’arrivo dell’ambasciata inglese. Come si è scritto sopra, benché non vi possa essere alcun dubbio riguardo all’esistenza di una “copia d’una parte di soa lettera del suo capitaneo dele galee de Fiandra”, dato che essa è stata consegnata dallo stesso doge di Venezia all’ambasciatore, è più che evidente che il suo contenuto riguardante “fatti di Francia” riportati in modo a dir poco vago non ci è noto in alcun modo e anzi è stato “piegato, per così dire, a inviare al lettore un preciso messaggio, che non ha nulla a che vedere con l’‘adunarse quisti reyali et signori’” di cui scrive Marchese da Varese nella sua lettera datata 1 febbraio. Tuttavia, è altrettanto evidente che questa operazione di assemblaggio, per così dire, delle informazioni sulla base di un’intenzione non può essere stata il risultato autonomo dello scrivere spontaneo e casuale dell’ambasciatore, bensì il frutto di una mente unica che gestiva il montaggio complessivo delle notizie, la quale non poteva che risiedere a Milano. Si spiega così perché manchi la parola “copia”, termine che non deve essere tanto riferito al “capitaneo dele galee di Fiandra”, il cui punto di vista è invece essenziale per comprendere dove si trovassero Filippo il Buono, il delfino e Alessandro Sforza prima dell’1 febbraio, ossia più precisamente il 25 gennaio, quanto a Marchese da Varese e alla sua lettera o, per essere più precisi, alle sue missive, comprendendo fra di esse, oltre a quella del 16 febbraio, almeno le altre due sin qui prese in considerazione, ossia le lettere datate 1 e 3 febbraio, anche se ovviamente, essendo i documenti concatenati fra loro, è più che legittimo nutrire sospetti pure rispetto ad altre missive. Per spirito scientifico vogliamo però limitarci alle tre menzionate, preferendo evitare di giungere a conclusioni senza prima avere analizzato i documenti, anche se ci si consentirà di rilevare che la prima prova esterna rispetto alla corrispondenza di Francesco Sforza con Corradino Giorgi è contenuta in una minuta ducale datata 25 febbraio avente come destinatario Marchese da Varese che precede di poco una lettera di quest’ultimo datata “Venetiis, XXXVIII februarii 1458”.

Prima di prendere di nuovo in esame le due lettere precedenti quella del 16 febbraio, che riteniamo confermino quanto appena sostenuto, può essere il caso di rilevare un indizio piuttosto significativo a favore di quello che abbiamo scritto, ossia che la prima informazione concernente la sicura presenza di Alessandro Sforza presso Filippo il Buono la si trova non certo a caso nella minuta di mano del decifratore delle lettere di Corradino Giorgi, appartenente al sacco e datata 26 gennaio, dalla quale si viene a sapere che “da quelli erano con lo dicto ambassatore [di Ludovico di Savoia, che aveva fatto ritorno dall’ambasciata presso Carlo VII] ho inteso el signor Alexandro esser andato in Flandra dal duca de Burgundia”. Non può sfuggire il fatto che il documento in cifra che in seguito Corradino Giorgi ha tratto dalla suddetta minuta si configura come una “copia” e che il lettore arriva alla corrispondenza tra Francesco Sforza e Marchese da Varese partendo dall’epistolario tra lo stesso duca di Milano e il suo ambasciatore in Savoia. Il fatto che la suddetta informazione sia poco aggiornata, perché, come sappiamo, in una lettera datata 9 febbraio Nicodemo Tranchedini scrive a Francesco Sforza che suo fratello “may havia possuto favellare ad quel .. signore [Filippo il Buono] in più de uno mese era stato là” non ha alcuna importanza. A parte il fatto che è evidentemente sicuro che non corrisponda al vero il fatto che Alessandro Sforza “may havia possuto favellare ad quel .. signore”, in ogni caso la missiva dell’ambasciatore a Firenze è successiva alla “copia” del 26 gennaio di Corradino Giorgi. Analoga considerazione si può fare per la precedente minuta di Francesco Sforza datata 2 gennaio in cui si legge che “De Alexandro nostro fratello non havemo che scrivere […]. Quello che ne intendemo è ch’el debbe essere andato de Franza in Borgogna”. Quest’ultima proposizione può parere simile a quanto riferito nella minuta di mano del decifratore del 26 gennaio, ossia “ho inteso el signor Alexandro esser andato in Flandra dal duca de Burgundia”, ma in realtà non lo è affatto: da quest’ultima, infatti, risulta certo che il fratello di Francesco Sforza sia andato in Borgogna, mentre in quella del 2 gennaio il verbo “debbe” è rivelatore di un dubbio riguardo a quanto si sta per riferire. Pertanto la prima informazione sicura riguardo alla presenza di Alessandro Sforza presso Filippo il Buono la si trova significativamente nella minuta di mano del decifratore datata 26 gennaio, che poi Corradino Giorgi si è limitato a redigere in cifra in un documento che non può che configurarsi come una “copia” e che deve essere collegato alla lettera di Marchese da Varese del 16 febbraio nella quale abbiamo visto che rispetto alle sue precedenti missive datate 1 e 3 febbraio non compare proprio il termine “copia” in relazione alla “lettera scripta per lo suo capitaneo dele galee di Fiandra”. Il motivo è che, come grazie alla minuta di mano del decifratore datata 26 gennaio, da cui poi Corradino Giorgi ha tratto una copia, si viene a sapere con certezza che Alessandro Sforza si trovava in Borgogna, allo stesso modo la lettera di Marchese da Varese datata 16 febbraio in realtà non è una missiva, bensì si configura come una copia di una minuta inviata da Milano, perché anch’essa permette di capire con sicurezza che, assumendo il punto di vista del “capitaneo dele galee di Fiandra”, di cui l’ambasciatore ha iniziato a parlare sin dal precedente 1 febbraio in una lettera così datata, il fratello di Francesco Sforza non era a Bruges, bensì sulla costa del Mare del Nord. Come anticipato, analogo discorso, ossia che si tratta di copie, si può fare per i documenti di Marchese da Varese datati 1 e 3 febbraio. Alla luce di queste considerazioni e del fatto che nella lettera di Antonio da Cardano datata 8 giugno Enrico VI viene menzionato come facente parte della Lega di Borgogna (si veda al proposito il testo intitolato Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Trezzo), non può lasciare indifferenti quanto si legge nella missiva di Corradino Giorgi del 28 aprile da Ginevra, ossia che “Adciò vostra signoria scia advisata dele XXX novele se dicheno in queste parte, sce dice gli baroni e signori de Inglitera, quali havevano una grosa et grandisima diferencia fra loro, hano facto bono acordio e pace insema, presente et consenciente la maiestà del re d’Ingliterra, et per consolacione e alegreza de ciò el dì dela Anunciata de nostra Dona prxime pasata feceno una notable e bela procesione, che mai non fo veduta la più bela né la più solemne”. Ci si riferisce al giorno dell’Annunciazione del 25 marzo precedente e a quella che a pagina 505 del VII volume della Storia del mondo medievale viene definita “giornata d’amore”, anche se di essa si dice qualcosa che, considerata la successiva adesione del re d’Inghilterra alla Lega di Borgogna, lascia non poco perplessi, ossia che “fu inscenata a Londra, nella cattedrale di St Paul, una pacificazione fittizia […] che peraltro non interruppe i preparativi di entrambe le parti per la guerra civile”. Si noti infine che in una “Copia litterarum dominorum rectorum Verone” diretta al doge di Venezia e datata “Verone, XXV aprilis 1458” si legge: “Serenissime princeps et excellentissime domine. Nui habiamo ogi inteso da uno Zovene da Pesaro che habita in questa terra che gobia fu octo zorni ch’el zonse in questa terra alcuni engelesi i qual li disseno esser venuti cum el signor Alexandro, fradel del illustre duca de Milam, fino ad Olmo et haverlo lassato lì zà era zorni XI et che mon sapeva dove fusse el suo viago”.

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Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto (e non solo dopo, ma anche prima, la minuta ducale del 12 maggio 1458 a Corradino Giorgi) [da completare]

Nel primo capoverso della sua minuta del 19 maggio 1458 diretta a Ottone del Carretto, suo ambasciatore a Roma, Francesco Sforza scrive: “Havemo recevuto le vostre lettere de dì II et VII del presente insieme con le bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya con le copie de le altre scrive nostro Signore ad la maiestà de re de Ragona et al prefato duca de Savoya, al quale havemo mandate la sua per proprio messo”.

Come si può notare, viene segnalata la ricezione delle “bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya”, ma non quella della missiva datata 3 maggio cui esse erano effettivamente allegate. In quest’ultima è infatti scritto: “Hora mando a vostra excellencia in forma autentica la bolla directiva al prefato duca et un’altra ad essa vostra excellencia”. Si potrebbe rilevare che è una semplice dimenticanza, ma, come vedremo, vi è una cospicua serie di indizi mediante i quali si vuol far capire al lettore che non si tratta affatto di un errore casuale. Consideriamo innanzi tutto le “copie de le altre scrive nostro Signore ad la maiestà de re de Ragona et al prefato duca de Savoya” cui accenna il duca di Milano. Nella lettera del 2 maggio Ottone del Carretto scrive: “[Sua sanctità] ordinò se fecesse ala maiestà del re et ali altri principali dela liga lettere apostolice III, bullis plumbeis clausis, et un’altra al duca de Savoia, in quella forma che vederà vostra excellencia per le incluse copie”. Nella missiva già menzionata del 3 maggio dell’ambasciatore si legge: “Per altre mie heri mandate […] manday la copia de la bolla directiva a la maiestà del re d’Aragona et in simili forma, mutatis mutandis, se scrive a la illustre signoria de Venetia et a quella de Fiorenza. Manday ancora la copia dela bolla directiva a lo illustre duca de Savoya. Hora mando a vostra excellencia in forma autentica la bolla directiva al prefato duca et un’altra ad essa vostra excellencia in la qual deveno essere le copie de tutte le predicte bolle”. In realtà in nostro possesso vi sono due copie prive di data all’inizio delle quali si legge: “Dilecto filio nobili viro Ludovico duci Sabaudie salutem etc.” e un’altra anch’essa priva di data che comincia in questo modo: “Carissimo in Christo filio nostro Alfonso Aragonum et utriusque Sicilie regi illustri salutem etc.” e al termine della quale sono aggiunti altri destinatari, ossia “duci Mediolani, domino Venetorum, Florentinis”, preceduti dalla parola “Simile” e seguiti da due segni di difficile interpretazione. Poiché le due copie per Ludovico di Savoia non possono che essere state allegate l’una alla lettera datata 2 maggio, l’altra a quella del 3 maggio, in merito a quest’ultima si ricade nel caso della bolla di cui Francesco Sforza segnala la ricezione senza tuttavia menzionare la missiva cui essa era allegata. In merito alla copia con più destinatari, il discorso è per così dire inverso, nel senso che, se da un lato è segnalata la ricezione di una bolla e di una copia allegate a una lettera che non si indica essere stata ricevuta, dall’altro si segnala la ricezione di una sola copia di cui in realtà dovrebbero esservene due esemplari, al fine di sottolineare che fra le missive ricevute da Ottone del Carretto le quali il duca di Milano cita all’inizio della minuta datata 19 maggio manca quella del 3 dello stesso mese. Riteniamo che quanto appena scritto sia evidenziato anche dal fatto che dopo le parole “con le copie” pare esservi la preposizione “de”. Essa, tuttavia, presenta una sorta di segno abbreviativo che la circonda, tagliando in alto la linea verticale della “d”, in modo tale che, se non fosse per la presenza di una breve linea orizzontale diretta verso destra che fa senz’altro pensare a una “e”, sembrerebbe quasi di trovarsi di fronte alle lettere “ch” con appunto il segno abbreviativo descritto. In ogni caso, a prescindere dal termine che si debba leggere, riteniamo che con la preposizione “de” tracciata nel modo curioso cui si è accennato si voglia attirare l’attenzione sulle “copie” di cui si parla poco prima scritte da papa Callisto III “ad la maiestà de re de Ragona et al prefato duca de Savoya”, sia per le ragioni spiegate sia perché, come si è visto sopra, nel documento di cui si dice essere diretto “ad la maiestà del re de Ragona” i destinatari indicati sono quattro, ma l’indicazione fra di essi di Francesco Sforza si configura come un errore. Per quanto infatti sia scritto “Simile”, il contenuto della bolla diretta al duca di Milano e datata 1 maggio è in realtà sensibilmente diverso. Inoltre, come abbiamo visto, nella sua missiva del 2 maggio Ottone del Carretto riferisce che “Sua sanctità […] ordinò se fecesse ala maiestà del re et ali altri principali dela liga lettere apostolice III”, non quattro. Il giorno successivo, poi, a proposito della “copia de la bolla directiva a la maiestà del re d’Aragona” aggiunge che “in simili forma, mutatis mutandis, se scrive a la illustre signoria de Venetia et a quella de Fiorenza”, non citando dunque Francesco Sforza e confermando che egli si trova per sbaglio fra i destinatari sopra menzionati. La ragione dell’errore è piuttosto evidente: si vuole indurre il lettore a riflettere sul fatto che, mentre nella copia “ad la maiestà de re de Ragona” il duca di Milano compare come un destinatario per così dire di troppo, all’opposto nella minuta del 19 maggio non viene rilevata la ricezione della missiva di Ottone del Carretto del 3 dello stesso mese cui erano allegate le “bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya” che invece Francesco Sforza segnala di avere ricevuto. A conferma di quanto scritto, proponiamo le seguenti osservazioni. Subito dopo le parole sopra menzionate nel primo capoverso della minuta si legge: “Esso ducha monstra volere restituire et reintegrare queste novità de [nori] adherenti, pur non sapemo se lo farà”. In quello che avrebbe dovuto essere l’aggettivo possessivo “nostri” prima di “adherenti” si leggono bene le prime due lettere “no” e le ultime due “ri; fra esse pare però esservi una “r” depennata con una linea obliqua. L’iniziale parola “norri” preceduta dalla preposizione semplice “de” richiama il cognome “de Norris” del segretario “G. de Norris” che firma la bolla datata 1 maggio per Francesco Sforza. Si noti inoltre che, come detto, “norri” è preceduto dalla parola “adherenti”, mentre nella bolla si usa il termine “colligatos” (è scritto infatti: “intellectis hiis que dilectus filius orator tuus nobis exposuit de hiis que dux Sabaudie contra te et colligatos agere dicitur”). Al proposito si consideri anche che nella minuta del 13 aprile che presenta come destinatari gli ambasciatori a Venezia, Firenze, Roma e Napoli nella quale Francesco Sforza si lamenta del comportamento di Ludovico di Savoia il duca di Milano utilizza sempre le parole “adherenti” e “recommendati”. In sostanza riteniamo che con “de norri” seguito da “adherenti” si voglia richiamare la bolla del papa dell’1 maggio diretta a Francesco Sforza, al fine appunto di ribadire il concetto che nella copia “ad la maiestà del re de Ragona” il duca di Milano risulta come un destinatario di troppo, mentre all’opposto nella minuta del 19 maggio Francesco Sforza non segnala la ricezione della lettera del 3 dello stesso mese di Ottone del Carretto. Un’ulteriore sottolineatura del fatto che il duca di Milano non ha ricevuto la missiva del 3 maggio viene dalle seguenti parole alla fine del primo capoverso: “Vuy interim ne avisarete se con nostro Signore haverite poy facto altro”, con le quali ci si riferisce a una missiva dell’ambasciatore sforzesco a Roma datata 7 maggio e di cui si precisa “hora III noctis”. Il suo testo è il seguente: “Questa sera, ad hora I de notte, ho ricevute lettere de vostra excellencia de XXVIII del passato, per le quale ho inteso quanto essa voria se fecesse in la cosa de lo illustre duca de Savoia et, quantunque in quella se sia fatto come per altre mie del secundo et del terzo de questo, vostra excellencia deve essere avisata quanto è parso a la sanctità de nostro Signore convenirsi a lo tenore de li capituli et in alcune cose alquanto più. Nondimeno, per satisfare meglio a quello intendo essere voluntà de vostra excellencia, vederò se altro posso obtenere più conforme a quello che essa dimanda et statim aviserò quella de quanto se potrà fare”. A quest’ultima proposizione, ossia, “statim aviserò quella de quanto se potrà fare”, si riferiscono chiaramente i citati termini conclusivi del primo capoverso della minuta del 19 maggio: “Vuy interim ne avisarete se con nostro Signore haverite poy facto altro”. Alludendo quindi alla lettera datata 7 maggio in cui Ottone del Carretto accenna a una missiva del 3 dello stesso mese, si intende di nuovo evidenziare per contrasto il fatto che il duca di Milano non segnala la ricezione di quest’ultima. Tale aspetto è sottolineato anche dal fatto che vi sono ben cinque lettere di Ottone del Carretto datate 7 maggio. Se, dunque, per comprendere il riferimento delle proposizioni “Vuy interim ne avisarete se con nostro Signore haverite poy facto altro”, è necessario identificare la missiva corretta all’interno di un insieme di cinque lettere, all’opposto, quando Francesco Sforza segnala di avere ricevute le “bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya”, non può che riferirsi implicitamente a un’unica missiva, ossia quella di Ottone del Carretto del 3 maggio cui le bolle erano allegate, di cui però, come detto, egli non segnala la ricezione. Si noti inoltre che nella lettera menzionata del 7 maggio, subito dopo avere citato le missive del 2 e del 3 maggio, l’ambasciatore sforzesco aggiunge: “vostra excellencia deve essere avisata quanto è parso a la sanctità de nostro Signore convenirsi a lo tenore de li capituli et in alcune cose alquanto più”. In realtà queste ultime parole non trovano riscontro nelle precedenti missive di Ottone del Carretto e soprattutto le ultime, ossia “in alcune cose alquanto più”, paiono piuttosto sibilline alla luce del fatto che Francesco Sforza non segnala la ricezione della lettera del 3 maggio ma solo delle bolle papali a essa allegate. Si potrebbe replicare che nel secondo capoverso della minuta del 19 maggio si legge: “De monsignore de Rhoano, del intrata in Roma de monsignore de Avignone et de le altre particularità che ne scrivete restiamo avisati ad pieno”. Il riferimento a “monsignore de Rhoano” è in effetti contenuto nella missiva del 3 maggio dell’ambasciatore sforzesco a Roma, quello invece all’“intrata in Roma de monsignore de Avignone” in un’altra delle cinque lettere datate 7 maggio. Un altro accenno a “monsignore de Rhoano” è tuttavia contenuto nella missiva del 2 maggio di Ottone del Carretto ed è anche piuttosto sibillino. Si legge infatti: “intesi che il reverendissimo cardinal de Roano haveva ditto a sua sanctità molte cose in excusatione del duca de Savoia, dicendo domino Ludovico Bolero havere tractato alcune cose tra lo illustre delfino et vostra excellencia, le quale non erano state grate a la maiestà del re de Franza, item che questo gientilhomo et quelli de Tenda sono nel dominio de lo illustre duca de Savoya, item che haveveno alcune obligatione con lo serenissimo re Renato et multa, per la qual cosa fuy con lo prefato reverendissimo cardinal et, discussa re, monstrò de intendere et laudare la honestà et patientia de vostra excellencia, dicendo che per lo vescuo de Turino li era scritto tal cosa, ma, intendando quello li dissi, che voleva essere a persuadere a la sanctità de nostro Signore desse remedio opportuno et molte bone parole”. L’obiezione non può pertanto essere ritenuta valida, perché nella minuta ducale del 19 maggio ci si potrebbe riferire alla lettera del 2 maggio di Ottone del Carretto e non a quella del giorno successivo e anche perché fra “De monsignore de Rhoano” e “del intrata in Roma de monsignore de Avignone” si trova significativamente uno spazio bianco più largo del consueto, in cui fra l’altro al centro vi è un punto piuttosto insolito, con il quale è evidente che si vuol far capire che vi è qualcosa che non quadra, per così dire, proprio riguardo a “monsignore de Rhoano”, ossia il fatto che si accenna a questa persona in due missive, ma non è segnalato l’arrivo a Milano della lettera del 3 maggio. Inoltre, alla luce di quanto spiegato sopra, non può apparire casuale l’accostamento di “monsignore de Rhoano” a “monsignore de Avignone”, del quale si parla in una delle cinque missive datate 7 maggio menzionate sopra  La ragione per cui non si segnala la ricezione della lettera del 3 maggio, pur avendo ricevuto la bolla per Ludovico di Savoia a essa allegata, non dipende da una dimenticanza, ma dal fatto che si vuol far capire che fra Ottone del Carretto e Francesco Sforza intercorre la stessa “corrispondenza sommersa” che caratterizza gli scambi epistolari fra Antonio da Trezzo e il duca di Milano. Se in quest’ultimo caso essa consente di far giungere nel capoluogo lombardo la missiva di Alfonso d’Aragona datata 25 aprile all’inizio di maggio, come si legge nel testo intitolato La simulazione delle aggressioni militari sabaude nell’aprile del 1458, nel primo permette di far intendere che la bolla di papa Callisto III diretta al duca sabaudo, apparentemente allegata alla lettera appunto del 3 maggio di Ottone del Carretto, benché datata 1 maggio è stata in realtà scritta prima, potendo così arrivare a Milano all’inizio dello stesso mese, in tempo per essere inviata a Corradino Giorgi con le “prese” e la loro “storia alla rovescia”. A conferma di questo aspetto bisogna proseguire nell’analisi della minuta ducale del 19 maggio. Nel terzo capoverso si legge: “Alla parte de monsignore de Colonna, per quello beneficio ch’era del prothonotaro di Rossi, nunc vescovo de Cremona, dicemo che faciate omnino che sua signoria lo habii como per altre vi havemo scritto”. L’appena nominato vescovo di Cremona è Bernardo Rossi, appartenente a un’importante famiglia di Parma. A parte questa considerazione, il problema è che nelle missive di cui Francesco Sforza segnala l’arrivo a Milano e nemmeno in quella di cui non segnala la ricezione, ossia la lettera del 3 maggio, il tema relativo “Alla parte de monsignore de Colonna” è assente. Si vuole così attirare l’attenzione sul quarto capoverso, che è il seguente: “Alla parte de la instructione rechiedete vi daghamo quando siano lì li ambaxatori dela liga rechesti per la sanctità de nostro Signore, dicemo che, quando serano lì, vi avisaremo de quanto scia necessario, avisandone vuy de le casone perché sua sanctità li habii rechiesti et de le proposte che serano facte per la prelibata sanctità”. Con esso il duca replica al terzo capoverso della lettera di Ottone del Carretto datata 2 maggio, che è il seguente: “Ora, perché venendo qua li oratori dele potentie de Italia per le preditte cose sapia quello habbi a rispondere et a fare, così in le cose delo illustre duca de Savoia come in altre, potrà vostra excellencia, se li parerà, mandarmi super hiis più piena instructione”. Le parole di Francesco Sforza sopra riportate “avisandone vuy de le casone perché sua sanctità li habii rechiesti” meriterebbero un capitolo a parte e ne tratteremo in un altro momento. Ora ci limitiamo a osservare che esse risultano problematiche rispetto non solo alle precedenti missive di Ottone del Carretto (riguardo alla lettera di quest’ultimo del 2 maggio, come si sarà notato, egli scrive: “venendo qua li oratori dele potentie de Italia per le preditte cose”, “preditte cose” che però nella minuta datata 19 maggio il duca di Milano pare ignorare), ma anche a quanto scritto da Francesco Sforza nella minuta del 12 maggio diretta a Corradino Giorgi (in quest’ultima riguardo al fatto che il pontefice abbia “scritto ad tutte le potentie de la liga” si legge: “Credemo sii per lo facto contra el turcho et per questo ne scrive el nostro oratore ad Roma ch’el papa voleva fossero mandati”, ma in effetti nelle lettere precedenti a partire dal 21 marzo l’ambasciatore sforzesco a Roma non accenna mai al “turcho”, anche se è vero che nella copia con il numero errato di quattro destinatari si legge: “timendum vehementissime sit ne […] hosti christiane fidei, turcorum tiranno, maior in christianos seviendi audacia atque opportunitas preberetur”, verbo che risulta dopo la correzione di “prebebit”; inoltre, subito dopo le parole sopra citate della minuta, nell’interlinea è scritto in modo piuttosto sibillino “al prefato signore duca” con la sbagliata preposizione articolata “al” al posto della corretta “dal”, senza dire che nelle due copie della bolla per Ludovico di Savoia il “turcho” non viene mai menzionato) e ai documenti inviati da Callisto III (nella bolla spedita a Francesco Sforza si legge che il papa ha richiesto alle altre potenze della Lega “oratores, tractaturi de conservatione pacis eiusdem et aliis oportunis, quemadmodum tua nobilitas plenius videbit in copia introclusa”, aggiungendo poi: “Quare, cum huiusmodi res impresentiarum te potissimum attineat”). In ogni caso, tralasciando le precedenti considerazioni, in questa sede riteniamo più utile ricercare gli indizi che confermino che la bolla di Callisto III diretta al duca sabaudo, benché datata 1 maggio, sia stata scritta prima e quindi inviata a Milano in tempo per essere spedita a Corradino Giorgi con le “prese” e la loro “storia alla rovescia” all’inizio dello stesso mese di maggio. Essi riguardano proprio “li ambaxatori dela liga rechesti per la sanctità de nostro Signore”. Nella bolla diretta a Francesco Sforza si legge: “Itaque, intellectis hiis que dilectus filius orator tuus nobis exposuit de hiis que dux Sabaudie contra te et colligatos agere dicitur ac etiam nonnullis querelis dilectorum filiorum senensium, illico ad omnes illos de liga scripsimus ut suos ad nos infra viginti dies post notificationem mittant oratores, tractaturi de conservatione pacis eiusdem et aliis oportunis, quemadmodum tua nobilitas plenius videbit in copia introclusa. Quare, cum huiusmodi res impresentiarum ad te potissimum attineat, nobilitatem tuam hortamur et enixe requirimus ut tu etiam super premissis tuos ad nos mittas oratores, ut simul cum aliis in cunctis providere valeamus”. Come si può notare, è scritto “ad omnes illos de liga scripsimus”, utilizzando il perfetto dell’indicativo del verbo “scribere”, il quale regge una proposizione subordinata introdotta da “ut” con il verbo al congiuntivo presente, vale a dire “mittant”, che secondo le norme della consecutio temporum non è corretto. Poco dopo il papa si rivolge al duca di Milano con le seguenti parole: “nobilitatem tuam hortamur et enixe requirimus ut tu etiam super premissis tuos ad nos mittas oratores”, quindi con i verbi “hortamur et […] requirimus” all’indicativo presente dai quali dipende correttamente il congiuntivo presente “mittas”. Al proposito può essere il caso di rilevare che a pagina 378 della Sintassi normativa della lingua latina di Alfonso Traina e Tullio Bertotti, nel capitolo XXVI dedicato alle “Proposizioni sostantive con ut” il cui modo è sempre il congiuntivo e che seguono la consecutio temporum, si parla dei “verbi che significano ‘consigliano […] esortare, indurre’”, citando fra essi “hortor”, di cui è riportato un esempio di Seneca tratto dalle Epistulae, tuttavia nel Vocabolario della lingua latina di Castiglioni Mariotti alla voce “hortor” si dice anche “col semplice congiuntivo”, quindi senza “ut”, riportando un po’ liberamente l’esempio di Cesare dal De bello civili “tribunos hortatur ab eruptionibus caveant”; a pagina 50 della Sintassi latina di Giuseppe Scarpat e Flaminio Ghizzoni si accenna invece a “quaerere”, verbo che insieme a “re” compone “requirere”, nel significato di “domandare, chiedere per sapere qualcosa”, riportando il seguente esempio tratto dall’opera In Verrem di Cicerone, in cui il verbo non è seguito da “ut”: “quaerit ex iis […] quot quisque nautas habeat”. Per la verità nella fonte il verbo corretto sarebbe “habuerit” e non “habeat”, ma comunque la sostanza non cambia: “quaerere” può anche non essere seguito da “ut”. Ne consegue che nella sovraordinata sopra riportata insieme alla proposizione dipendente “nobilitatem tuam hortamur et enixe requirimus etiam super premissis tuos ad nos mittas oratores” risulta pressoché impossibile stabilire se sia un errore l’assenza di “ut”. Si può invece affermare che dal punto di vista della consecutio temporum “mittas” è sicuramente corretto. L’utilizzo dei due congiuntivi al presente, di cui uno in teoria sbagliato perché retto da “scripsimus”, vuole evidenziare che vi è qualcosa da chiarire rispetto ai tempi verbali: prima, infatti, rispetto “ad omnes illos de liga”, si utilizza appunto “scripsimus”, che regge l’errata proposizione subordinata “ut suos […] mittant oratores”, poi invece, riguardo agli “oratores” di Francesco Sforza, Callisto III impiega le seguenti parole: “nobilitatem tuam hortamur et enixe requirimus ut tu etiam super premissis tuos ad nos mittas oratores”. Si potrebbe replicare che l’utilizzo del verbo “scripsimus” sia per così dire di prammatica. L’obiezione non può tuttavia essere accolta. Per comprendere il motivo, è necessario considerare la “copia introclusa” cui il papa accenna subito dopo avere detto “ad omnes illos de liga scripsimus ut suos […] mittant oratores, tractaturi de conservatione pacis eiusdem et aliis opportuni”, aggiungendo appunto “quemadmodum tua nobilitas” vedrà nella “copia introclusa”, che è la copia della bolla diretta ad Alfonso d’Aragona, la quale alla fine reca altri tre destinatari, di cui però Francesco Sforza è di troppo, e in cui vi è una correzione piuttosto significativa.

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Nelle ultime righe di essa si legge infatti: “serenitatem tuam hortamur et enixe requirimus ut […] de remediis opportunis ad conservacionem comunis quietis nobiscum toto animo assurgas et nichilominus oratores tuos ad nos quam cicius mittere non postponas, ita ut, saltem infra viginti dies […] a die recepcionis presencium computandos, coram nobis compareant de tua intencione plene instructi, ut, cum eis et aliis quos ad rem huiusmodi vocab vocamus, super ipsius italice pacis conservacione debitis et opportunis modis providere sine ulteriori more possimus”. Come si può notare, alla ventinovesima riga della copia, che consiste in trentuno righe, nella proposizione relativa introdotta da “quos” si stava scrivendo “vocabimus”, ossia il futuro semplice dell’indicativo del verbo “vocare”, poi sostituito da “vocamus”. Tuttavia, il tempo presente di quest’ultimo verbo, così come del resto i tempi dello stesso tipo precedenti nelle frasi “serenitatem tuam hortamur et enixe requirimus ut […] oratores tuos ad nos quam cicius mittere non postponas” risultano in contraddizione con il verbo “scripsimus” che si può leggere nella bolla di Callisto III per Francesco Sforza, anche se è vero che poi da esso dipende il congiuntivo presente “mittas”, che però a sua volta non è corretto dal punto di vista della consecutio temporum. Per maggiore chiarezza ricordiamo che nella bolla si legge: “ad omnes illos de liga scripsimus ut suos ad nos infra viginti dies post notificationem mittant oratores”. In realtà con le anomalie rilevate si vuole far capire che sono proprio le parole depennate “vocab” a fare fede per comprendere quando sia stata scritta la copia, ossia prima del momento effettivo della convocazione degli ambasciatori. Essa è pertanto potuta giungere a Milano all’inizio di maggio insieme agli altri documenti, in primo luogo la bolla per Ludovico di Savoia, da inviare al duca sabaudo insieme alle “prese” con la loro “storia alla rovescia”, segnalati da Francesco Sforza nella sua minuta del 19 maggio, nella quale, come si ricorderà, si legge: “Havemo recevuto le vostre lettere de dì II et VII del presente insieme con le bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya con le copie de le altre scrive nostro Signore ad la maiestà de re de Ragona et al prefato duca de Savoya, al quale havemo mandate la sua per proprio messo”. Per quanto riguarda la bolla di Callisto III per Francesco Sforza, è dunque evidente che il perfetto “scripsimus” si configura come un errore e che la forma corretta avrebbe dovuto essere il presente “scribimus”. Naturalmente non si può pretendere che nella bolla il papa fosse così sfacciato da adottare il futuro semplice “scribemus”, ma a questo proposito è più che sufficiente il riferimento alla “copia introclusa”. Che in quest’ultima le lettere “vocab” depennate non siano un errore casuale è confermato da più di un indizio. In primo luogo osserviamo che circa al centro della venticinquesima riga sono scritte le lettere “consvacoem” con la “s” tagliata e un segno abbreviativo sopra “oem” il cui esito non può che essere “conservaconem” senza la lettera “i”; poco dopo l’inizio della trentesima riga si trova invece “consvacione” con la sola “s” tagliata e senza il segno abbreviativo sopra le lettere finali, da intendersi ovviamente come “conservacione”. Il motivo per cui nella sua parte finale lo stesso termine è abbreviato in modo differente consiste nel fatto che si vuole suggerire al lettore di notare che nel primo caso nella riga sotto “conservaconem”, dipendendo da “serenitatem tuam hortamur et enixe requirimus ut”, sono scritte le parole “[orato]res tuos ad” (le parentesi quadre racchiudono le lettere che si trovano un po’ prima di “conservaconem”, non proprio sotto), seguite da “ad nos quam cicius mittere non postponas”, quindi con i verbi al tempo presente, mentre nel secondo sopra “conservacione” vi sono i pronomi “cum eis et aliis”, seguiti dalla proposizione relativa “quos ad rem huiusmodi vocab vocamus”, nella quale, come detto, si stava scrivendo il futuro “vocabimus”. Poiché tuttavia “eis” richiama i precedenti “oratores tuos”, cui ci si riferisce con i tempi al presente, è chiaro che in questo modo, benché “vocab” sia stato depennato, si intendono evidenziare i tempi verbali contraddittori fra loro, ribadendo così quanto scritto in precedenza, ossia che “il documento è stato scritto prima rispetto al momento effettivo della convocazione degli ambasciatori”. Che quanto affermato a proposito di “conservaconem”/“conservacione” non possa essere considerato sovrainterpretazione è confermato dal fatto che il sostantivo privo della “i” ha una sorta di anticipazione. Prima di approfondire il tema specifico, innanzitutto rileviamo che le righe finiscono quasi tutte con una parola completa, ossia senza andare a capo, fuorché l’undicesima, che termina con “nuper”, proseguendo all’inizio della successiva con “rime”, la dodicesima, che finisce con le lettere “vice”, completate nella riga seguente da “comes”, la sedicesima, che termina con “adhe”, continuando nella successiva con “rents” con un segno abbreviativo sopra le consonanti “ts” per “tes”, e la ventinovesima, la quale termina con le lettere “recep”, seguite da “cionis”. Vi è poi un altro caso alla ventunesima riga, che però è particolare, perché non si tratta di un vero e proprio a capo, anzi pare piuttosto una sorta di a capo mancato: la riga finisce infatti con le lettere “per” depennate, quindi all’inizio della successiva è stato scritto “pbebit” con un segno abbreviativo sopra la “p” per il futuro semplice “prebebit”, poi le tre lettere finali “bit” sono state depennate e sopra di esse è stato scritto “retur”, ottenendo così la terza persona singolare del congiuntivo imperfetto di forma passiva “preberetur”, scorretto non solo perché i soggetti sono due, ossia “audacia” e opportunitas” nel testo “hosti christiane fidei, turcorum tiranno, maior in christianos seviendi audacia atque opportunitas”, ma anche dal punto di vista della consecutio temporum: qui ci limitiamo a rilevare che “preberetur” dipende dalla coniugazione perifrastica passiva “timendum […] sit” al tempo presente, che dovrebbe reggere una subordinata a sua volta al congiuntivo presente, come nel caso del primo verbo retto da “timendum […] sit”, che è “afficiatur”. Torniamo comunque al tema da cui siamo partiti, il quale riguarda il caso della parola “adherentes” che va a capo. Esso potrebbe sembrare innocuo, se non fosse che l’ultima parola della riga sopra, che è la quindicesima, è “obligacois” con un segno abbreviativo posto sopra le lettere “is”, che interessa anche, più che la “o”, il trattino che collega quest’ultima alla “i”: il risultato non può pertanto che essere “obligaconis” senza la “i”, che appunto anticipa la parola “conservaconem” pure lei priva della “i” e la quale è messa in risalto non solo dall’a capo della riga sotto di “adherentes”, ma anche dal fatto che in quest’ultima le tre lettere finali sono abbreviate in modo inconsueto, ossia con le consonanti “ts” sopra le quali vi è una linea (identica abbreviazione riguarda lo stesso sostantivo, ossia “adherentes”, che è la sesta parola dell’ottava riga, e il participio presente “cupientes”, che è il secondo termine della ventiduesima riga, non a caso preceduto, come vedremo, dal verbo “preberetur” cui si è accennato sopra), volendo così evidenziare l’assenza della “i” in “obligaconis”, che, come abbiamo detto, “anticipa ‘conservaconem’” con tutte le osservazioni che abbiamo fatto al proposito. A ulteriore conferma di quanto appena scritto, la quindicesima riga è quasi interamente occupata dalla proposizione concessiva “etsi ad illius nobilitatem [Ludovico di Savoia] sepe iam [Francesco Sforza] scripserit et oratores miserit”, preceduta alla fine della riga precedente dal pronome relativo “pro quibus”, in riferimento ai motivi di contrasto con il duca sabaudo. A parte il fatto che il modo congiuntivo dei due verbi che la caratterizzano è sbagliato, in quanto dovrebbe essere l’indicativo, aspetto che approfondiremo più avanti, è necessario riflettere sul sostantivo “oratores” al plurale, andando per così dire a ritroso. Come detto, infatti, la concessiva è preceduta dal pronome “pro quibus”, per comprendere il quale occorre leggere le righe precedenti, di cui a noi ora interessano la parte finale della nona e l’intera decima, nelle quali si legge: “Nam, et dilectos filios nobiles viros de Coconate contra certas eciam convenciones particulares inquietare non desivit”. Bisogna precisare che quanto scritto nella copia della bolla per Alfonso il Magninimo dipende da un’ambasciata di Ottone del Carretto, di cui si legge in una sua lettera datata 21 aprile, compiuta dopo avere ricevuto una missiva di Francesco Sforza tratta da una sua minuta del 13 aprile. L’inviato ducale scrive infatti: “Per lettere de vostra excellencia de XIII de questo, ricevute hogi ad hore X, ho inteso quanto havea a rechiedere a la sanctità de nostro Signore per le violentie fatte a li gientilhomeni da Cocona’, a domino Aluysi Bolero et a li conti de Vintimiglia, adherenti de vostra excellencia, per lo illustre signore duca de Savoya, per la qual cosa, essendo questa sera a palazo per havere audientia da la sanctità de nostro Signore, achade venire il reverendissimo cardinal de Pavia et, essendo esso a la presentia del nostro Signore, fuy chiamato a quella et in sua presentia feci l’ambasiata pienamenti, secundo che vostra excellencia rechideva”. Nella minuta di Francesco Sforza del 13 aprile e diretta a Marchese da Varese, al termine della quale si legge “Similiter, mutatis mutandis, […] domino Ottoni de Carreto Rome”, a proposito degli “zentilhomini da Cocona’” si afferma: “più et più fiate l’habiamo confortato [Ludovico di Savoia] et pregato per nostre lettere et ambassate che ne li volesse relaxare et a quelli non se hano voluto intendere cum luy non fare iniuria, como ha facto et fa continuamente”. Queste ultime parole potrebbero riferirsi, ma non possiamo esserni sicuri, a una lettera dei signori di Cocconato di due giorni prima, ossia dell’11 aprile, inviata da Primeglio, in cui si legge: “essendo già passato uno mese doppo le vostre lettere e speronandone le insolentie de Bonifatio da Castegnole, lo quale levata una parte de la gente sua logiata a Cochonato, non altramente como ne dovesse esserne signore, com’el dice, et essendo andato in campo verso Centalo, ha mandato uno castellano in Cochonato cum parechii fanti et ha fornita et fortificata la tore, lo castello et la terra […] e siamo per questo conducti a tal puncto che, oltra le nostre rendite, qual perdiamo, portiamo invidia quasi a li morti per le subornatione facte contra di noy in li nostri populi mobili e vani […] et, non potendo più stare in tanto affanno et perdita e dubitando da havere pegio, habiamo deliberato di mandare cum questa nostra lettera lo nobile nostro consorte Iacobo da Primellio a la prefata excellentia vostra, lo quale la informarà a bocha et inscripto ad plenum de le nostre doglie et affanni”. Quando dunque nella copia della bolla per Alfonso d’Aragona si legge: “Nam, et dilectos filios nobiles viros de Coconate contra certas eciam convenciones particulares inquietare non desivit”, poiché a quest’ultimo verbo latino all’indicativo perfetto in italiano possono corrispondere sia il passato prossimo sia il passato remoto, è possibile che si accenni alle parole della minuta ducale del 13 aprile “como [Ludovico di Savoia] ha facto et fa [iniuria] continuamente”, che Ottone del Carretto avrà sicuramente riferito nel corso della sua ambasciata del 21 aprile. Non può tuttavia sfuggire che, se il perfetto latino “desivit” risulta pertinente rispetto al passato prossimo “ha facto”, non lo è in alcun modo in relazione al presente “fa”. D’altra parte all’opposto poco dopo nella copia della bolla si legge: “Ludovicumque de Bolleriis […] carceribus [Ludovico di Savoia] detinet”, ossia con il verbo latino all’indicativo presente, sovraordinata cui nella minuta ducale corrispondono le parole “El prefato messer Aluyse Bollero […] halo tenuto destenuto più dì passati et el tene in presone […]”. In realtà, se il verbo “detinet” si può ritenere corretto, non altrettanto è possibile affermare del precedente “desivit”. In ogni caso, a parte le suddette considerazioni, la sovraordinata che inizia con la congiunzione “Nam” risulta collegata insieme ad altre proposizioni principali mediante il pronome relativo “pro quibus” alla proposizione concessiva nella quale si legge “ad illius nobilitatem [Ludovico di Savoia] […] [Francesco Sforza] oratores miserit”. Il problema è che l’ultima missione di un inviato di Francesco Sforza presso Ludovico di Savoia avente come oggetto i signori di Cocconato è quella cui si accenna in una lettera nel verso della carta 189 del Registro delle Missive 38 diretta “Dominis de Consilio nostro Secreto” e datata 29 ottobre 1457, all’inizio della quale è scritto: “Havimo recevuto le vostre lettere et inteso quello ne scriveti circa quanto ha reportato Iohanni de Landriano de quello è seguito cum queli dello illustre signor duca de Savoya nel facto de queli da Cochonate”. Quanto scritto sopra è confermato dalla minuta ducale diretta a Corradino Giorgi del 7 aprile 1458, nella quale si legge: “Tu sci informato de le novitate facte per lo passato a li zentilhomini de Coconato […] et come la signoria soa non per cosa gli habiamo scripto et mandato a dire mai non ha vogliuto desistere da esse et sempre gli havemo havuto bona patientia”. Il riferimento alle “novitate facte per lo passato” implica necessariamente che non è in un tempo recente che Francesco Sforza ha “scripto et mandato a dire” a Ludovico di Savoia in merito ai signori di Cocconato. D’altra parte, ammesso e non concesso che il duca di Milano abbia ricevuto la lettera da Primeglio datata 11 aprile entro il 13 dello stesso mese, data della suddetta minuta, è impossibile che egli abbia avuto il tempo per organizzare un’ambasceria da inviare al duca sabaudo riguardo ai signori di Cocconato né tantomeno che possa averlo “confortato et pregato […] non fare iniuria, como ha facto et fa continuamente”. Poiché, per essere al momento succinti, le due sovraordinate successive a quella riguardante i “dilectos filios nobiles viros de Coconate” concernono i conti di Ventimiglia e Ludovico Bolleri, che, “nocturno impetu raptum, cum uxore et liberis carceribus [Ludovico di Savoia] detinet”, e considerato che nella precedente minuta ducale del 13 aprile si legge che “El prefato messer Aluyse Bollero […] [Ludovico di Savoia] fece prehendere in uno suo castello ascallato di nocte […] et halo tenuto destenuto più dì passati et el tene in presone luy e la mogliere et figlioli, per la liberatione del quale havemo tenuto uno ambassatore più mesi passati presso la signoria soa et mai non l’havemo possuto obtenire. Immo, quando havemo creduto de doverlo havere, el p trovamo […]”, quando nella proposizione concessiva il duca di Milano ricorre all’espressione “miserit oratores”, errata per via del verbo al modo congiuntivo, non può che riferirsi a un solo “oratorem”, ossia a Corradino Giorgi, l’unico ambasciatore che “più mesi passati” era stato presso il duca di Savoia e ancora era presso di lui, come lascia capire la proposizione temporale “quando havemo creduto de doverlo havere” seguita dal verbo “trovamo” al tempo presente. L’obiezione che il sostantivo “oratores” potrebbe riferirsi non solo a Corradino Giorgi, ma anche a Giovanni da Landriano non può essere accolta, perché implicherebbe un utilizzo a dir poco ambiguo dell’indicativo perfetto “misit” che dovrebbe sostituire il congiuntivo perfetto “miserit”: da un lato in italiano come passato prossimo, riferito a Corradino Giorgi, che, dopo avere trascorso mesi dal duca di Savoia, continua a trovarsi presso di lui, dall’altra come passato remoto in relazione a un’ambasciata di Giovanni da Landriano presso Ludovico di Savoia risalente all’ottobre del 1457. Ci siano concesse infine tre veloci osservazioni. L’unica ipotesi che permetta di spiegare le parole sopra citate della minuta ducale del 13 aprile relative agli “zentilhomini da Cocona’”, ossia “più et più fiate l’habiamo confortato [Ludovico di Savoia] et pregato per nostre lettere et ambassate che ne li volesse relaxare et a quelli non se hano voluto intendere cum luy non fare iniuria, como ha facto et fa continuamente”, consiste nel supporre che le “nostre lettere et ambassate” si riferiscano a un passato non recente, mentre la proposizione dipendente introdotta da “como” alla lettera dei signori di Cocconato dell’11 aprile inviata da Primeglio, anche se al proposito si è detto che non possiamo avere alcuna sicurezza. Così, tuttavia, verrebbe a essere giustificato il senso, anche se non l’aspetto formale, come vedremo, della proposizione interrogativa indiretta che si trova dalla sesta alla nona riga, dipendente dall’espressione verbale al modo perfetto “esponi fecit” della sovraordinata, e che quindi viene prima della concessiva alla quindicesima riga. Essa è la seguente: “quemadmodum dilectus filius nobilis vir dux Sabaudie […] inpresenciarum nonnullos indubitatos adherentes suos et complices partim molestiis continuis afficit, partim bello aperto prosequitur”. Innanzitutto sorprende l’utilizzo del sostantivo “complices”, perché nella minuta ducale del 13 aprile, come già detto, Francesco Sforza utilizza sempre le parole “adherenti” e “recommendati” e nella sua lettera del 21 aprile Ottone del Carretto parla di “adherenti de vostra excellencia”. Al proposito rileviamo che a pagina 416 del III volume del Grande dizionario della lingua italiana si dice che il lemma “complice” è una “Voce dotta, lat. tardo ed eccles. complex ĭcis ‘che è implicato’: comp. da com ‘con’ o ‘insieme’ e il suffisso –plex, dalla stessa base di plicare ‘piegare’”. Viene poi riportato il seguente esempio da “Isidoro, 10-50: ‘Conplex, quia uno peccato vel crimine alteri est adplicatus ad malum; ad bonum vero numquam dicimus complice’, che a pagina 343 del Libro X “Dei vocaboli” di Etimologie o origini viene tradotto “Complice, in quanto si è unito ad altri nel compimento di un peccato o crimine: si usa unicamente in senso cattivo, perché non parliamo mai di complice con riferimento ad una buona azione”. A pagina 415 il Grande dizionario della lingua italiana fornisce un primo significato simile a quello fornito da Isidoro di Siviglia, ossia “Chi partecipa a un’azione criminosa (o, in genere, riprovevole); chi ne è consapevole e contribuisce all’esecuzione, anche se non vi prenda parte direttamente e personalmente”, ma poi nella successiva ne dà un secondo diverso, vale a dire “Per estens. (con senso attenuato, e a volte anche ironico e scherzoso): compagno in un’impresa, in una burla, in uno scherzo […]”. In ogni caso non si deve pensare all’identico termine complex, -ĭcis che secondo il Vocabolario della lingua latina di Castiglioni Mariotti significa “congiunto, compagno”. Per tornare al punto precedente la divagazione sul sostantivo “complices”, le “molestiae continuae” verrebbero a riferirsi ai signori di Cocconato, mentre il “bellum apertum”, che approfondiremo più avanti, ai già menzionati conti di Ventimiglia e Ludovico Bolleri. Negare che il 13 aprile, al momento di scrivere la sua minuta, Francesco Sforza abbia ricevuto la missiva di due giorni prima dei signori di Cocconato è naturalmente possibile, però implica che diventi inspiegabile la proposizione “como [Ludovico di Savoia] ha facto et fa continuamente”, soprattutto considerato che in una minuta datata 7 aprile diretta a Corradino Giorgi scriveva, come sappiamo: “Tu sci informato dele novitate facte per lo passato ali zentilhomini de Coconato […] et come la signoria soa non per cosa gli habiamo scripto et mandato a dire mai non ha vogliuto desistere da esse et sempre gli havemo havuto bona patientia”. La seconda osservazione concerne il fatto che riguardo alle sovraordinate della copia della bolla menzionate velocemente relative ai motivi di contrasto con il duca sabaudo, “pro quibus” “etsi ad illius nobilitatem [Ludovico di Savoia] sepe iam [Francesco Sforza] scripserit et oratores miserit”, in realtà l’unico dato reale che giustifichi quanto espresso dalla proposizione concessiva è che il duca di Milano ha “tenuto uno ambassatore più mesi passati presso la signoria soa” per “la liberatione” di Ludovico Bolleri e pertanto il pronome relativo “pro quibus” non risulta corretto: Francesco Sforza non solo in tempi relativamente recenti non ha “tenuto” alcun ambasciatore presso il duca di Savoia se non il solo Corradino Giorgi, ma nemmeno risulta avergli scritto, tantomeno “sepe iam”, ammesso naturalmente di non immaginare l’esistenza di una “corrispondenza sommersa”. Infine, notiamo en passant che l’affermazione secondo la quale, oltre a Ludovico Bolleri, anche “la mogliere et figlioli” sarebbero “in presone”, come scritto nella minuta del 13 aprile, motivo, come vedremo, ripreso anche nella copia della bolla per Alfonso d’Aragona, non corrisponde al vero. Il 30 aprile, infatti, Eleonora di Saluzzo, moglie dello stesso Ludovico Bolleri, scrive da Fossano al duca di Milano quanto segue: “Ancora de novo se retornano la pasionata e dolente que non pò più […] cum li soe poverelli figlolli e figlolle […] che ipsa se degni de moversi a compaxione de choello povero cavalero vesconte di Riglana, presono de zà tanto tempo fa”. È vero che più avanti aggiunge: “Signore, habia la signoria vostra compaxione de tanto caxo quanto hè choesto e de uno vostro coxì cordiale servo e schavo, anco dela dona soa et di figlolli, que mae non serano più in libertade”, ma il senso di quest’ultima proposizione relativa è quello di una condizione di soggezione generica, non di una prigionia vera e propria qual è quella in cui dovrebbe trovarsi Ludovico Bolleri. In ogni caso, per tornare al plurale “oratores” e trovarne una giustificazione, non occorre immaginare chissà quale invio di ambasciatori in forma segreta. La spiegazione, molto più semplice, si trova all’interno del testo stesso della copia: l’errato sostantivo si collega infatti alle parole “oratores tuos ad nos” poste sotto “conservaconem”, termine che sappiamo essere per via della mancanza della “i” in relazione con “obligaconis”, che non certo a caso è la quarta parola dopo lo scorretto “oratores”, e ai pronomi “cum eis et aliis”, sempre riferiti agli “oratores”, scritti sopra “conservacione”. A questo punto possiamo passare a esaminare il caso della ventunesima riga, al termine della quale sono presenti le lettere “pre” depennate, che abbiamo detto non essere “un vero e proprio a capo”, anche se potrebbero “sembrare una sorta di a capo mancato”. Il testo in cui esse sono inserite è il seguente: “Itaque, cum ex premissis non solum hii qui primos patiuntur impetus ledantur, sed timendum vehementissime sit ne ipsa tota Italia gravissimis damnis afficiatur, cuius pax, multo labore obtenta, propterea disolvi posset, et hosti christiane fidei, turcorum tiranno, maior in christianos seviendi audacia atque opportunitas pre preberetur, cupientes igitur, ut tenemur, comm communi rei publice christiane utilitati et presertim italice quieti consulere, serenitatem tuam hortamur et enixe requirimus ut […] de remediis opportunis ad conservaconem comunis quietis nobiscum toto animo assurgas et, nichilominus, oratores tuos ad nos quam cicius mittere non postponas”. In realtà, riguardo alle lettere depennate alla fine della ventunesima riga si può dire senza tema di smentita che si simuli trattarsi di un a capo “mancato”, perché, a prescindere dal fatto che si volesse scrivere “prebebit” o “preberetur”, non vi era motivo di depennare le lettere “pre” e sostituirle con una “p” con sopra un segno abbreviativo che sta lei medesima per le lettere “pre”. La ragione della correzione dipende dal fatto che si vuole collegare quanto segue all’a capo alla fine della sedicesima riga, che termina con le lettere “adhe”, proseguendo all’inizio della seguente con “rents” e il segno abbreviativo sulle ultime due consonanti, il quale coinvolge anche i due precedenti alla fine dell’undicesima riga e della dodicesima, e all’a capo che si trova al termine della ventinovesima riga, la quale finisce con le lettere “recep”, seguite da “cionis”, volendo peraltro sottolineare come a loro volta tutti siano stati tracciati con consapevolezza e quindi non siano affatto casuali. Prima di esaminare la ragione per la quale questi a capo, risultato di un’intenzione, di cui peraltro uno, come si è detto, si finge sia per così dire “mancato”, vanno associati, è necessario considerare il verbo all’inizio della ventiduesima riga. Come già rilevato, in un primo momento è stato scritto “prebebit”, indicativo futuro semplice del verbo “praebere”, che secondo il Vocabolario della lingua latina di Castiglioni Mariotti significa “presentare, porgere, offrire, fornire, dare” o in senso figurato “esporre, mostrare, dimostrare” oppure anche “causare, arrecare, produrre”. In ogni caso, a parte il fatto che dal punto di vista dell’analisi logica la forma attiva “prebebit” non avrebbe avuto alcuna giustificazione, perché il verbo è privo di un significato riflessivo, in più, poiché esso sarebbe dipeso dalla coniugazione perifrastica passiva “timendum […] sit”, introdotta dalla congiunzione “sed”, seconda parte della correlazione avversativa (“non solum”… “sed”) che caratterizza la proposizione causale introdotta dalla congiunzione “cum”, avrebbe violato le più elementari norme della consecutio temporum, che prevede l’utilizzo del modo congiuntivo e della perifrastica attiva (formata dal participio futuro unito al verbo “sum”) qualora, ma riteniamo non sia il caso in questione, si volesse esprimere il rapporto di posteriorità rispetto al verbo della sovraordinata. La ragione per cui in un primo momento è stato scritto “prebebit” consiste nell’anticipare le lettere “vocab” depennate alla ventinovesima riga. Che l’osservazione sia corretta è confermato dal fatto che entrambe le correzioni sono collegate all’a capo presente alla fine della sedicesima riga, che termina con “adhe” e prosegue con “rents” con un segno abbreviativo sopra le consonanti “ts”: la prima in quanto preceduta dall’a capo riguardante le lettere “per” depennate, per quanto abbiamo visto si tratti della simulazione di un a capo “mancato”, e perché seguita dal participio presente “cupientes”, la cui parte finale è resa anch’essa con le consonanti “ts” e una linea su di esse, segno abbreviativo che appunto rimanda alle lettere “rents” di “adherentes” con le quali inizia la diciassettesima riga; la seconda perché, come spiegato sopra, poco prima è scritto “cum eis et aliis”, pronomi che sottintendono il sostantivo “oratoribus” e sotto i quali è scritto “conservacione”, parola da porre in relazione con il termine “conservaconem” senza la “i” presente alla venticinquesima riga e anticipato dalla parola “obligaconis” anch’essa senza la “i” scritta sopra “adhe”, il quale in pratica si trova sopra “oratores tuos ad nos”, complemento oggetto della proposizione “ad nos quam cicius mittere non postponas”, dipendente dalla principale “serenitatem tua hortamur et enixe requirimus ut” con i verbi all’indicativo presente che contrastano con l’accennato e poi depennato indicativo futuro semplice “vocab”, che in realtà abbiamo detto “fare fede per comprendere quando sia stata scritta la copia, ossia prima del momento effettivo della convocazione degli ambasciatori”. Come abbiamo scritto, in un secondo momento le tre lettere finali “bit” di “prebebit” sono state depennate e “sopra di esse è stato scritto ‘retur’, ottenendo così la terza persona singolare del congiuntivo imperfetto ‘preberetur’”, a sua volta scorretto: se infatti in base alle norme della consecutio temporum il modo del verbo è corretto, non lo è il tempo, che dovrebbe essere il presente, perché dipende dalla perifrastica passiva “timendum […] sit”, come già detto “introdotta dalla congiunzione ‘sed’, seconda parte della correlazione avversativa (‘non solum’… ‘sed’) che caratterizza la proposizione causale introdotta dalla congiunzione ‘cum’”. A conferma di quanto appena scritto, il primo verbo retto dalla perifrastica passiva è “afficiatur”, che è appunto un congiuntivo presente, peraltro anch’esso di forma passiva. Per comprendere l’errore costituito da “preberetur” bisogna di nuovo fare riferimento alla quindicesima riga, che, come abbiamo detto, “è quasi interamente occupata dalla proposizione concessiva ‘etsi ad illius nobilitatem [Ludovico di Savoia] sepe iam [Francesco Sforza] scripserit et oratores miserit’” e al termine della quale vi è il sostantivo “obligaconis”. Tuttavia, per un’esatta comprensione della proposizione, è necessario inserirla nel suo contesto. Riportiamo pertanto le righe della copia dalla seconda alla diciottesima: “Dubitamus, ex his que nobis diversis ex partibus dietim nunciantur, ne pax italica quoquomodo turbetur, de qua re cum dilecti filii cives senenses, tum alii conplures non pauca nobis prebuerunt indicia. Et novissime dilectus filius nobilis vir dux Mediolani per oratorem suum, non sine gravi et accurrata querela, nobis exponi fecit quemadmodum dilectus filius nobilis vir dux Sabaudie, quem post conclusam pacem et ligam universalem Italie omni genere obsequii ad nutriendam concordiam coluisse asserit, inpresenciarum nonnullos indubitatos adherentes suos et complices partim molestiis continuis afficit, partim bello aperto prosequitur. Nam, et dilectos filios nobiles viros de Coconate contra certas eciam convenciones particulares inquietare non desivit et arcem Vernante, que Honorati ac fratrum comitum Vintimilii esse asseritur, nuperrime expugnavit, graviora adhuc illis denuncians, Ludovicumque de Bolleriis, vicecomitem de Relanie, nocturno impetu raptum, cum uxore et liberis carceribus detinet, terras vero et loca nonnulla eiusdem hostiliter occupavit predatusque est, pro quibus etsi ad illius nobilitatem sepe iam scripserit et oratores miserit ut, memor obligaconis que sibi cum principibus de liga esset, captivos relaxare, ablata restituere et adherentes ipsos liberos quietosque vellet dimittere, tamen in suo suo proposito perseverare affirmatur”. Si noti innanzitutto che la quarta riga inizia con il sostantivo “conplures”, nel quale al posto della “n” dovrebbe esservi una “m”. Che non si tratti di un errore casuale è confermato dalla quarta parola successiva, che è l’ormai noto verbo “prebuerunt”, questa volta all’indicativo perfetto, seguito, verrebbe da dire non a caso, dal sostantivo “indicia”, e soprattutto dalla presenza all’ottava riga dell’avverbio “inpresenciarum” in cui allo stesso modo la prima “n” dovrebbe essere una “m”. Per comprendere quest’ultimo errore, è necessario prendere le mosse proprio dalla quarta riga, a partire dalla quale si legge la seguente sovraordinata: “novissime dilectus filius nobilis vir dux Mediolani per oratore suum […] nobis esponi fecit”. Come già scritto, Ottone del Carretto parla della sua ambasciata in una lettera datata 21 aprile, nella quale, dopo avere segnalato la ricezione de “lettere de vostra excellencia de XIII de questo, ricevute hogi ad hore X”, precisa di avere “inteso quanto havea a rechiedere ala sanctità de nostro Signore per le violentie fatte ali gientilhomeni da Cocona’, a domino Aluysi Bolero et ali conti de Vintimiglia, adherenti de vostra excellencia, per lo illustre signore duca de Savoya, per la qual cosa […] feci l’ambasiata pienamenti, secundo che vostra excellencia rechideva”. In teoria, il fatto che nella copia della bolla per Alfonso d’Aragona Callisto III scriva che “novissime”, ossia “recentemente”, Francesco Sforza mediante un suo oratore “nobis esponi fecit” potrebbe essere accettabile, perché abbiamo già rilevato che all’indicativo perfetto latino, in questo caso costituito da “fecit”, in italiano non corrisponde solo il passato remoto, ma pure il passato prossimo, anche se in effetti, poiché la copia dovrebbe risalire all’1 maggio, l’avverbio “novissime” riferito al precedente 21 aprile non pare del tutto pertinente, anche se potremmo ritenerlo accettabile. Crea invece problemi quanto segue. Dall’espressione verbale “esponi fecit”, che implica il significato di “dire”, uno dei non pochi del verbo “exponere” indicato dal Vocabolario della lingua latina di Castiglione Mariotti, dipende infatti la proposizione interrogativa indiretta già citata che inizia con le parole “quemadmodum dilectus filius nobilis vir dux Sabaudie”, interrotta dalla proposizione aggettiva “quem post conclusam pacem et ligam universalem Italie omni genere obsequii ad nutriendam concordiam coluisse asserit”. Quanto riportato trova riscontro nell’ormai nota minuta ducale del 13 aprile, tuttavia, se il modo indicativo di “asserit” è corretto, non può non lasciare perplessi il tempo presente del verbo, essendo in evidente contraddizione con il perfetto dell’espressione “esponi fecit”. Rispetto a quest’ultima, poiché poco prima si precisa “novissime”, pur con la riserva che abbiamo espresso, ossia che l’ambasciata di Ottone del Carretto non è poi così recente, abbiamo scritto che il tempo perfetto, da intendersi in italiano come passato prossimo, può ritenersi accettabile. Non è però in alcun modo giustificabile il tempo presente “asserit” della proposizione aggettiva. Un problema simile, anche se non proprio identico, si presenta con l’interrogativa indiretta introdotta da “quemadmodum”, interrotta dalla proposizione aggettiva, di cui riportiamo anche l’iniziale parte già nota insieme allo scorretto avverbio “inpresenciarum” “quemadmodum dilectus filius vir dux Sabaudie […] inpresenciarum nonnullos indubitatos adherentes suos et complices partim molestiis continuis afficit, partim bello aperto prosequitur”. Innanzitutto occorre rilevare che le proposizioni interrogative indirette dovrebbero presentare il modo congiuntivo, mentre i verbi “afficit” e “prosequitur” sono all’indicativo, e inoltre dovrebbero seguire la consecutio temporum: poiché il verbo della sovraordinata è “fecit”, anche immaginando quello che non è, ossia che fosse stato impiegato il congiuntivo presente, sarebbe stato sbagliato, in quanto il tempo corretto avrebbe dovuto essere l’imperfetto, perché “fecit” è un cosiddetto tempo storico. L’apparentemente complicato quadro delineato è spiegato dall’avverbio “inpresenciarum”, che costitusce la terza parola dell’ottava riga subito dopo il verbo “asserit”, ultimo termine della proposizione aggettiva, il quale, come abbiamo visto, per via del tempo al presente risulta in contraddizione con l’espressione verbale “esponi fecit” della proposizione principale. Abbiamo anticipato che per via della “n” al posto della “m” l’avverbio “inpresenciarum” va posto in connessione con il sostantivo “conplures” all’inizio della quarta riga, la cui quinta parola è il verbo “prebuerunt”, la sesta “indicia” e l’ottava “novissime”. Proprio il rapporto fra quest’ultimo avverbio al superlativo, che in base al Vocabolario della lingua latina di Castiglione Mariotti significa “recentemente”, e l’avverbio “inpresenciarum”, il quale secondo lo stesso vocabolario vuol dire “al presente, al momento”, è rivelatore, perché il secondo non può che alludere a un momento successivo rispetto a quello indicato dal primo. Tuttavia, poiché entrambi si riferiscono alla minuta ducale del 13 aprile, i due avverbi avrebbero dovuto esprimere un rapporto di contemporaneità fra loro. L’eventuale obiezione che il termine “inpresenciarum” sia semplicemente pleonastico rispetto a “novissime” non può essere accolta, perché i due avverbi hanno significati differenti, tuttavia è vero che, se i due verbi della proposizione interrogativa indiretta fossero stati al congiuntivo imperfetto, come previsto dalla consecutio temporum, rispetto alla parola “novissime” l’avverbio “inpresenciarum” non sarebbe stato tanto pleonastico, quanto proprio scorretto. In realtà, con la terza parola dopo “inpresenciarum”, ossia “adherentes”, scritta con le consonanti finali “ts” sopra le quali è presente un segno abbreviativo, significativamente preceduta dall’aggettivo “indubitatos” scritto per esteso, di cui paiono rilevanti soprattutto le tre lettere finali “tos”, si vuole creare un collegamento con l’a capo della sedicesima riga, che termina con le lettere “adhe”, seguite, come noto, da “rents” con lo stesso segno abbreviativo, sopra le quali è scritto il sostantivo “obligaconis” senza la “i” preceduto dalla concessiva “etsi ad illius nobilitatem [Ludovico di Savoia] sepe iam [Francesco Sforza] scripserit et oratores miserit”. Uno dei problemi di quest’ultima proposizione è che si tratta di una concessiva oggettiva introdotta dalla congiunzione “etsi”, dalla quale dovrebbero dipendere verbi al modo indicativo e non congiuntivo come “scripserit” e “miserit”. Nella copia della bolla per Alfonso d’Aragona, per sottolineare l’errore riguardante i modi dei verbi dipendenti da “etsi”, la congiunzione è scritta con un breve spazio tra “et” e “si”, invece poco dopo le parole “sepeiam” risultano in modo significativo attaccate, mentre naturalmente dovrebbero essere separate. La quindicesima riga risulta così collegata per contrasto alla ventiduesima, della quale il primo termine è il verbo “preberetur”, risultato della correzione di “prebebit”, il cui modo congiuntivo è giusto, anche se in base alla consecutio temporum non lo è il tempo imperfetto, perché dipendente dalla perifrastica passiva al presente “timendum […] sit”. Se infatti nella proposizione concessiva della quindicesima riga al posto del modo congiuntivo dei due verbi, sbagliato e non sottoposto a correzione, vi sarebbe dovuto essere l’indicativo, alla ventiduesima l’errato modo indicativo di “prebebit” è stato corretto con il giusto congiuntivo del verbo “preberetur”, il cui tempo è però errato. Volendo aprire una breve parentesi, si potrebbe notare come il congiuntivo perfetto “scripserit” andrebbe corretto nell’indicativo perfetto “scripsit”, che richiama il verbo “scripsimus” della bolla di Callisto III per Francesco Sforza nella proposizione principale in cui si legge: “ad omnes illos de liga scripsimus ut suos ad nos […] mittant oratores”, con l’errata consecutio temporum del congiuntivo presente del verbo “mittere”, che a sua volta richiama “miserit”, il secondo sbagliato congiuntivo della proposizione concessiva, tuttavia, poiché nella bolla poco dopo si accenna alla “copia introclusa”, quest’ultimo esplicito riferimento pare più che sufficiente, nonostante il parallelismo rilevato fra i verbi menzionati paia senza dubbio suggestivo, sia perché in entrambi i documenti il complemento oggetto del verbo “mittere” è “oratores”, sostantivo che però nel caso della copia abbiamo rilevato avrebbe dovuto essere scritto al singolare, sia perché nella bolla, alla quinta riga, sotto il verbo “scripsimus” si trova “quemadmodum”, che introduce la proposizione aggettiva nella quale si accenna alla “copia introclusa”. Chiusa la parentesi, osserviamo che mediante la quindicesima riga è possibile porre in relazione sempre per contrasto il verbo iniziale al congiuntivo della ventiduesima, in un primo momento scritto all’indicativo, anche con l’interrogativa indiretta presente fra la sesta e la nona riga “quemadmodum dilectus filius nobilis vir dux Sabaudie […] inpresenciarum nonnullos indubitatos adherentes suos et complices partim molestiis continuis afficit, partim bello aperto prosequitur”, nella quale, senza per il momento affrontare il tema del rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità fra eventi, espresso ricorrendo a tempi verbali errati, il modo indicativo dei verbi “afficit” e “prosequitur” scritti alla nona riga non è stato corretto pur essendo sbagliato, in quanto le proposizioni interrogative indirette dovrebbero presentare il congiuntivo. La ragione della due righe, la nona e la quindicesima, collegate per contrasto all’inizio della ventiduesima consiste nel fatto che si vuole sottolineare che nelle prime non sono state operate correzioni, mettendo così in risalto quanto risultava nella terza prima di arrivare a “preberetur”, ossia il verbo all’indicativo futuro “prebebit”, che, come abbiamo scritto, anticipa le lettere “vocab” depennate alla ventinovesima riga, le quali fanno “fede per comprendere quando sia stata scritta la copia, ossia prima del momento effettivo della convocazione degli ambasciatori”. Al proposito vi è poi un altro aspetto da considerare, tutt’altro che secondario. Sotto il verbo “preberetur”, prima parola della ventiduesima riga risultato di “prebebit” corretto, sono scritte le lettere “et pstim”, sopra la cui “p” è presente un segno abbreviativo per “pre” e la “s” è tagliata per “ser”. Volendo essere precisi, sotto le lettere depennate “bit” di “prebebit” si legge “preser”; se invece si considerano anche le lettere “retur” inserite nell’interlinea, è compresa anche la “t”, ottenendo così “presert”, mentre le lettere finali “im” vanno un poco più oltre rispetto al verbo iniziale della ventiduesima riga. Il problema è che sotto “et presertim”, quindi all’inizio della ventiquattresima riga, si legge “ut, quemadmodum”. La congiunzione “ut” introduce una proposizione sostantiva volitiva dipendente dai verbi della sovraordinata “hortamur et […] requirimus”, la quale è tuttavia subito interrotta dalla proposizione aggettiva introdotta dalla parola “quemadmodum”, scritta “queadmodum” con un segno abbreviativo sulle vocali “uea” come nella prima occorrenza che si trova all’inizio della sesta riga dopo il verbo “fecit”. Le lettere iniziali di “quemadmodum” si trovano sotto “presertim” e la proposizione di cui il termine fa parte è la seguente: “quemadmodum ex concluse pridem apud Neapolim pacis ac confederacionis obligatus existis”, verbo quest’ultimo che costituisce la seconda parola della venticinquesima riga e che non a caso si trova sotto la seconda metà di “quemadmodum”. Quello che si vuol far capire è che in questo caso, ossia alla ventiquattresima riga, “quemadmodum” introduce una proposizione aggettiva correttamente retta dal verbo “existis” all’indicativo presente, mentre alla sesta riga introduce una proposizione interrogativa indiretta di cui si è parlato sopra caratterizzata dai verbi “afficit” e “prosequitur” all’indicativo presente mentre dovrebbero essere al congiuntivo imperfetto. Il problema è che, come “quemadmodum”, pur essendo la stessa parola, viene impiegato all’inizio di due proposizioni di carattere diverso, l’una interrogativa indiretta, l’altra aggettiva, la prima caratterizzata dal congiuntivo, la seconda che dovrebbe presentare l’indicativo, allo stesso modo le prime cinque lettere dell’avverbio “presertim” non devono essere intese solo come tali, ma anche come un’allusione alle “prese” di cui si parla nel primo capoverso della minuta ducale datata 10 gennaio 1458 diretta a Corradino Giorgi, ambasciatore di Francesco Sforza in Savoia, intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”. All’inizio di esso si legge infatti: “Primo. Le prese sono X […]”. Naturalmente non si deve pensare a un riferimento di carattere troppo generale, ma solo al fatto che, così come nel documento del 10 gennaio appena menzionato si anticipa che nel prossimo mese di maggio le “prese”, ossia le ricezioni da parte di Francesco Sforza delle lettere del suo ambasciatore in Savoia, saranno dieci, allo stesso modo con “il verbo all’indicativo futuro ‘prebebit’, che […] anticipa le lettere ‘vocab’ depennate alla ventinovesima riga”, si intende far capire che gli ambasciatori saranno invitati a Roma in futuro e che quindi la copia della bolla per Alfonso il Magnanimo è “stata scritta […] prima del momento effettivo della loro convocazione”. Come si è già scritto, “Essa è pertanto potuta giungere a Milano all’inizio di maggio insieme agli altri documenti, in primo luogo la bolla per Ludovico di Savoia, da inviare al duca sabaudo insieme alle ‘prese’ con la loro ‘storia alla rovescia’, segnalati da Francesco Sforza” nell’incipit della sua minuta del 19 maggio. Gli indizi sin qui rilevati, insieme agli altri che evidenzieremo, permettono dunque di affermare che, come Alfonso il Magnanimo, anche papa Callisto III si è prestato ai giochi epistolari sforzeschi o, per meglio dire, seguendo l’indizio fornito all’interno del testo della minuta ducale del 10 gennaio, alla “beffa” sforzesca, termine in essa esplicitamente impiegato nel nono capoverso, nel quale si legge: “quisti ali quali se ha ad fare questa beffa”. Al proposito può essere interessante notare che nella lettera già citata del 21 aprile, dopo avere riferito dell’ambasciata compiuta presso il pontefice e della sua prima risposta, Ottone del Carretto aggiunge: “Poy mi disse ch’io stesso ordinasse quello mi parea de bisogno in fare et in dire che lo farà”. In effetti queste ultime parole risultano piuttosto sibilline, ma riteniamo sia più che sufficiente pensare a una collaborazione fra Callisto III e il duca di Milano piuttosto che alla esecuzione di ordini, per così dire, del primo da parte del secondo. A questo punto possiamo affrontare il tema del rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità fra eventi espresso curiosamente mediante tempi verbali sbagliati. A proposito della proposizione interrogativa indiretta abbiamo rilevato come l’avverbio “inpresenciarum”, che significa “al presente, al momento”, non possa che alludere, anche se in modo errato, a un momento successivo rispetto a quello indicato dall’avverbio al superlativo “novissime”, che vuol dire “recentemente”, nella sovraordinata “novissime dilectus filius nobilis vir dux Mediolani per oratore suum […] nobis esponi fecit”, da cui dipende la stessa interrogativa indiretta introdotta da “quemadmodum”. In sostanza, è come se quest’ultima fosse in un rapporto di posteriorità rispetto alla sovraordinata, sottolineato anche dal fatto che nella proposizione interrogativa indiretta vengono utilizzati i verbi al tempo presente “afficit” e “prosequitur”, mentre in realtà si sarebbe dovuto esprimere un rapporto di contemporaneità con i tempi all’imperfetto, anche tralasciando l’ovviamente non trascurabile dettaglio che la consecutio temporum avrebbe previsto l’utilizzo del modo congiuntivo e non dell’indicativo, aspetto del quale abbiamo già parlato. Che quanto affermato riguardo al rapporto di posteriorità sia corretto è confermato dalla proposizione aggettiva “quem [Ludovico di Savoia] post conclusam pacem et ligam universalem Italie omni genere obsequii ad nutriendam concordiam coluisse asserit”, la cui parola conclusiva, ossia il verbo “asserit” al modo indicativo, precede significativamente l’avverbio “inpresenciarum” dell’interrogativa indiretta. Con il tempo presente del verbo reggente la proposizione aggettiva, benché chiaramente errato, si intende far comprendere l’intenzione di esprimere un rapporto di posteriorità rispetto al perfetto dell’espressione “esponi fecit” della proposizione principale. Si potrebbe obiettare che i tempi al perfetto dei verbi “scripserit” e “miserit” della proposizione concessiva della quindicesima riga, di cui abbiamo già parlato, “etsi ad illius nobilitatem [Ludovico di Savoia] sepe iam [Francesco Sforza] scripserit et oratores miserit”, benché sia sbagliato il loro modo congiuntivo, esprimano correttamente un rapporto di anteriorità rispetto alla sovraordinata “tamen in suo suo proposito perseverare affirmatur”. L’osservazione non può però essere accolta, perché, come già rilevato, alla fine della riga precedente la concessiva è preceduta dal pronome relativo al plurale “pro quibus” in riferimento ai motivi i quali oppongono i due duchi, ma “in realtà l’unico dato reale che giustifichi quanto espresso dalla proposizione concessiva” è quello per cui Francesco Sforza ha “tenuto uno ambassatore più mesi passati presso la signoria soa” per “la liberatione” di Ludovico Bolleri. Pertanto il pronome relativo al plurale “pro quibus” non è corretto. Si intende in questo modo indurre il lettore a leggere le righe precedenti, dalla congiunzione “Nam” della nona riga subito dopo il verbo “prosequitur”, alla fine della proposizione interrogativa indiretta, sino alla quattordicesima prima dello stesso pronome “pro quibus”. Le esamineremo fra poco, verificando gli inconvenienti che esse presentano. Che si voglia suggerire al lettore di fare attenzione alle suddette righe è confermato anche dal fatto che “Nam” si trova sotto le tre lettere finali “nts” di “adherentes”, che è la terza parola dopo “inpresenciarum” alla quale abbiamo accennato sopra. A questo punto, ricordando che i punti di partenza del ragionamento sono costituiti dal futuro semplice “prebebit”, poi corretto, e dal futuro semplice accennato delle lettere vocab, in seguito depennate, non resta che chiarire perché la proposizione interrogativa indiretta e quella aggettiva esprimano un rapporto di posteriorità rispetto al tempo della principale “esponi fecit”. La spiegazione è piuttosto semplice: come con i due verbi al futuro corretti si vuole alludere al fatto che la copia della bolla per Alfonso d’Aragona è stata scritta “prima del momento effettivo della convocazione degli ambasciatori”, all’opposto, proprio per sottolineare il rapporto di anteriorità della copia rispetto alla richiesta dell’invio degli “oratores”, esse ne esprimono uno di posteriorità. Considerazioni analoghe si possono fare a proposito del testo a partire dalla parola “Nam” della nona riga sino al pronome “pro quibus” della quattordicesima, precisando che “Nam” è una congiunzione esplicativa la quale, come si legge a pagina 144 della Grammatica latina di Giuseppe Scarpat e Flaminio Ghizzoni, spiega “quanto precede” e quindi si riferisce proprio alla proposizione interrogativa indiretta che viene prima e alla proposizione aggettiva in essa per così dire annidata, che in sostanza abbiamo rilevato trovarsi in contrasto rispetto al verbo al futuro “prebebit” e a quello solo accennato costituito dalle lettere “vocab” poi depennate. Il testo è il seguente: “Nam, et dilectos filios nobiles viros de Coconate contra certas eciam convenciones particulares inquietare non desivit et arcem Vernante, que Honorati ac fratrum comitum Vintimilii esse asseritur, nuperrime expugnavit, graviora adhuc illis denuncians, Ludovicumque de Bolleriis, vicecomitem de Relanie, nocturno impetu raptum, cum uxore et liberis carceribus detinet, terras vero et loca nonnulla eiusdem hostiliter occupavit predatusque est”. Innanzitutto facciamo alcune osservazioni di carattere generale. Nella minuta di Francesco Sforza del 13 aprile l’ordine degli argomenti è diverso: prima infatti si parla degli “zentilhomini da Cocona’”, poi di “Aluyse Bollero” e infine della “rocha de Vernante”, sottratta “ali prefati conti de Tenda”, ai quali precedentemente ci si riferisce scrivendo “messer Honorato et el fratello, conti de Ventimillia et signori de Tenda”. Si noti che nella lettera già citata del 21 aprile di Ottone del Carretto, dopo avere segnalato la ricezione della missiva estratta dalla minuta ducale del 13 aprile, l’ambasciatore risulta rispettare la sequenza che caratterizza la minuta stessa, scrivendo di avere “inteso quanto havea a rechiedere ala sanctità de nostro Signore per le violentie fatte ali gientilhomeni da Cocona’, a domino Aluysi Bolero et ali conti de Vintimiglia, adherenti de vostra excellencia, per lo illustre signore duca de Savoya, per la qual cosa […] feci l’ambasiata pienamenti, secundo che vostra excellencia rechideva”. Non vi è quindi motivo di pensare che Ottone del Carretto abbia riferito a Callisto III dei suddetti argomenti in un ordine diverso rispetto a quello da lui stesso esposto nella sua lettera del 21 aprile. Nella copia della bolla risulta inoltre curiosa la proposizione relativa che all’undicesima riga segue il microtoponimo “arcem Vernante”, ossia “que Honorati ac fratrum comitum Vintimilii esse asseritur”, sia perché dalla minuta del 13 aprile la “rocha de Vernante” risulta chiaramente appartenere “ali prefati conti de Tenda” e pertanto non si capisce perché venga utilizzato il verbo “asseritur”, come se si stesse riferendo un’informazione non sicura, sia perché nella stessa minuta è scritto, come abbiamo visto, “messer Honorato et el fratello, conti de Ventimillia”, parole che implicano che il sostantivo “fratrum” al plurale che si legge nella copia della bolla non sia corretto, in quanto dovrebbe essere al singolare, vale a dire “fratris”. Si noti infine che il verbo “asseritur” è il penultimo termine prima dell’avverbio al superlativo “nuperrime”, che va a capo con le lettere “rime”, le quali quindi si trovano all’inizio della dodicesima riga, seguite dal verbo all’indicativo perfetto “expugnavit”. Passiamo ora a esaminare più dettagliatamente il testo sopra riportato dalla nona alla quattordicesima riga. Per quanto concerne la sovraordinata “Nam, et dilectos filios nobiles viros de Coconate contra certas eciam convenciones particulares inquietare non desivit”, innanzitutto rileviamo che nella minuta ducale del 13 aprile si accenna al fatto che Ludovico di Savoia sarebbe “obligato per una speciale conventione facta per nuy cum lo suo ambasatore in questa terra in l’anno passato”, utilizzando quindi il sostantivo “conventione” al singolare, mentre nella copia si legge “convenciones”. A questo punto possiamo affrontare il caso costituito dall’espressione verbale al perfetto “inquietare non desivit”, che abbiamo già rilevato non essere pertinente in relazione al presente italiano della minuta del 13 aprile “fa [iniuria] continuamente”. In realtà, il verbo risulta per così dire in contraddizione anche con la proposizione interrogativa indiretta che lo precede, ossia, lo ricordiamo, “quemadmodum dilectus filius nobilis vir dux Sabaudie […] inpresenciarum nonnullos indubitatos adherentes suos et complices partim molestiis continuis afficit, partim bello aperto prosequitur”, nella quale secondo la consecutio temporum l’indicativo presente dei verbi “afficit” e “prosequitur” avrebbe dovuto essere corretto nel congiuntivo imperfetto dei verbi “afficeret” e “prosequeretur”, dipendenti dal tempo storico dell’espressione “exponi fecit”. Quanto esposto, che in italiano si potrebbe tradurre con il passato prossimo, potrebbe essere corretto, a patto però che non vi fosse l’avverbio “inpresenciarum”, il cui significato, come detto, implica un momento successivo a quello cui ci si riferisce con l’avverbio “novissime”, e la cui presenza, per così dire scomoda, è sottolineata dal fatto che esso è immediatamente prececeduto dal verbo “asserit” all’indicativo presente, ultima parola della proposizione aggettiva che invece dovrebbe essere “assevit”, vale a dire sempre all’indicativo, ma al tempo perfetto. D’altra parte, ed è questo l’aspetto che conta, lo stesso avverbio, riferito alla prima parte dell’interrogativa indiretta in cui in sostanza si afferma che Ludovico di Savoia “afficit” “nonnullos indubitatos adherentes suos et complices […] molestiis continuis”, all’interno della quale gli “indubitatos adherentes” non possono che essere “li zentilhomini de Cocona’” menzionati nella minuta del 13 aprile, risulta problematico, in quanto insieme al verbo “afficit” di nuovo esprime un rapporto di posteriorità rispetto all’espressione verbale della successiva sovraordinata “inquietare non desivit”. L’eventuale obiezione che si dia un’eccessiva importanza a quanto precede la sovraordinata non può essere accolta per via della congiunzione esplicativa “Nam”. Proseguiamo pertanto con la seconda sovraordinata, vale a dire “et arcem Vernante, que Honorati ac fratrum comitum Vintimilii esse asseritur, nuperrime expugnavit, graviora adhuc illis denuncians”. In sé la proposizione è corretta. Essa riprende più o meno, a parte alcuni aspetti già citati, quanto scritto nella minuta ducale del 13 aprile e il verbo all’indicativo perfetto “expugnavit”, preceduto dall’avverbio superlativo “nuperrime”, vale a dire “recentemente”, potrebbe essere tradotto senza difficoltà in italiano con il passato prossimo, ma diviene problematica se considerata rispetto all’interrogativa indiretta sopra esposta e più precisamentente alla parte dei “nonnullos indubitatos adherentes […] et complices” di Francesco Sforza che Ludovico di Savoia “inpresenciarum” “bello aperto prosequitur”. Come sappiamo, al posto di “prosequitur” dovrebbe esservi “prosequeretur”, ma l’avverbio “inpresenciarum” in relazione con l’errato presente “prosequitur” costituisce di nuovo un problema, perché con esso si intende indicare un momento successivo rispetto a “nuperrime”, come del resto al precedente “novissime”. A sottolineare quest’ultimo aspetto l’undicesima riga termina proprio con le lettere “nuper”, seguite all’inizio della successiva da “rime”, e le stesse lettere sono significativamente precedute dalla proposizione relativa “que Honorati ac fratrum comitum Vintimilii esse asseritur” riferita all’“arcem Vernanti”, la quale però, come rilevato, nella minuta ducale del 13 aprile risulta indubitabilmente appartenere “ali prefati conti de Tenda”, senza dire che nella copia della bolla viene erroneamente impiegato il sostantivo “fratrum” al posto di “fratris”. Inoltre il curioso indicativo passivo “asseritur” richiama l’errato indicativo attivo “asserit”, seconda parola dell’ottava riga posta al termine della proposizione aggettiva e subito seguito proprio da “inpresenciarum”, appunto a rilevare che quest’ultimo avverbio si riferisce a un momento successivo rispetto a quello indicato da “nuperrime”, aspetto sottolineato per contrasto dal fatto che nella bolla il tema dell’“arcem Vernanti” viene prima rispetto a quello di “Ludovicum de Bolleriis”, mentre nella minuta del 13 aprile della “rocha de Vernante” si parla dopo “Aluyse Bollero”. Passiamo ora alla terza e alla quarta sovraordinata, nelle quali si legge: “Ludovicumque de Bolleriis, vicecomitem de Relanie, nocturno impetu raptum, cum uxore et liberis carceribus detinet, terras vero et loca nonnulla eiusdem hostiliter occupavit predatusque est”. Come abbiamo sottolineato, il verbo “detinet” della terza sovraordinata potrebbe essere considerato corretto in relazione a quanto si legge nella minuta del 13 aprile. In realtà l’intento consiste nel sottolineare quanto già rilevato, ossia che, mentre dopo la congiunzione nella prima sovraordinata vi è il perfetto “inquietare non desivit” in relazione al testo della minuta del 13 aprile “como [Ludovico di Savoia] ha facto et fa [iniuria] continuamente”, nella terza si ha il contrario, vale a dire il presente “detinet” a fronte del testo “El prefato messer Aluyse Bolleri […] halo tenuto destenuto più di passati et el tene in presone”. Lo scopo consiste nel rilevare la contraddizione rappresentata dai due verbi “occupavit predatusque est”. Per comprenderla, occorre rilevare che l’undicesima riga termina con l’a capo “nuper”, cui segue nella successiva “rime expugnavit”, mentre la dodicesima finisce con “Ludovicumque de Bolleriis, vice” e la seguente inizia con le lettere “comitem”, ovviamente da unire a “vice”, seguite dalla specificazione “de Relanie”. La definizione di Ludovico Bolleri come “vicecomes de Relanie” non è però in alcun modo presente nella minuta ducale del 13 aprile. Si vuole così creare un parallelismo fra “nuperrime expugnavit” e “vicecomes de Relanie”. Poiché, come detto, quest’ultima definizione non è giustificabile sulla base della minuta del 13 aprile e la tredicesima riga finisce con “detinet”, si intende in questo modo sottolineare come a differenza di “expugnavit” il verbo “occupavit”, che si trova sotto l’errata precisazione “cum uxore” poco prima di “detinet”, è privo di un avverbio di tempo il quale aiuti a capire quanto recentemente sia avvenuta l’occupazione e quindi è problematico rispetto alla solita proposizione interrogativa indiretta nella quale si legge che “nonnullos indubitatos adherentes […] et complices” di Francesco Sforza Ludovico di Savoia “inpresenciarum” “bello aperto prosequitur”, nella quale l’avverbio “inpresenciarum”, tanto più se associato allo sbagliato tempo presente “prosequitur”, non può che di nuovo indicare un momento successivo a “occupavit”. L’errato rapporto di posteriorità espresso da “occupavit” è reso ancora più evidente dal fatto che nella minuta del 13 aprile si legge “trovamo ch’el prefato signore .. duca ha mandato […] persone a campo ale terre soe et toltogli Centallo, la principale terra ch’el havesse, et Demonte, el quale loco se dice ha pagato bona summa de dinari per salvare le persone, et ha combatuto la rocha Sparavara et assacomanato molti lochi et ville soe”. Se dunque prima è stato impiegato il verbo “detinet”, non si capisce per quale motivo dopo non sia stato utilizzato il presente “occupat” al posto del perfetto “occupavit”, dato che, come Ludovico Bolleri si trova al momento in prigione, allo stesso modo Centallo e Demonte sono ora in mano a Ludovico di Savoia. Un altro aspetto caratteristico del perfetto “occupavit” consiste nel fatto che esso è seguito dal perfetto deponente “predatusque est”, il quale, se fosse scritto il più corretto presente “occupat”, dal punto di vista temporale non potrebbe che precedere quest’ultimo verbo. Cercando di riassumere, non si può dunque che rilevare che il rapporto di anteriorità esistente fra quando è stata scritta la copia della bolla e il “momento effettivo della convocazione degli ambasciatori”, espresso dall’indicativo futuro accennato dalle lettere “vocab” depennate alla ventinovesima riga, anticipate dall’indicativo futuro “prebebit” alla ventiduesima, a sua volta depennato, sottolineato dal fatto che per contrasto alla nona riga i due scorretti verbi al modo indicativo non risultano corretti, come del resto i due all’errato modo congiuntivo della quindicesima, è ribadito dalle quattro sovraordinate rispetto alla precedente proposizione interrogativa indiretta introdotta alla sesta riga da “quemadmodum”, caratterizzata dall’avverbio “inpresenciarum” e dagli sbagliati verbi della nona riga, errati non solo perché, come detto, sono al modo indicativo, ma anche perché al tempo presente. Si noti peraltro che le sovraordinate risultano come incorniciate proprio dagli scorretti verbi della nona e della quindicesima riga. A questo punto, prima di affrontare il tema relativo a quando la copia della bolla sia stata realmente inviata, cui rimanda l’a capo “recep” alla fine della ventinovesima riga, seguito dalle lettere “cionis” e non certo a caso alla trentunesima riga dal futuro semplice “vocab”, come detto solo accennato perché depennato, ma comunque in ogni caso estremamente significativo, esaminiamo altri aspetti del testo, di cui alcuni sono già stati citati senza tuttavia approfondirli. Un buon punto di partenza per iniziare il ragionamento è costituito proprio dalla proposizione concessiva preceduta dal pronome relativo al plurale “pro quibus”, che si riferisce alle precedenti quattro sovraordinate. Il testo è il seguente, che va dalla quattordicesima alla diciottesima riga: “pro quibus etsi ad illius nobilitatem sepe iam scripserit et oratores miserit ut, memor obligaconis que sibi cum principibus de liga esset, captivos relaxare, ablata restituere et adherentes ipsos liberos quietosque vellet dimittere, tamen in suo suo proposito perseverare affirmatur”. Innanzituto notiamo, anche se forse non è di così grande utilità, che, se i verbi della concessiva fossero correttamente all’indicativo perfetto, secondo la consecutio temporum il verbo “vellet” al congiuntivo imperfetto della proposizione finale introdotta da “ut” sarebbe corretto. In ogni caso, a parte questa considerazione, occorre ricordare quanto già scritto, ossia che riguardo alle quattro sovraordinate della copia della bolla “pro quibus” “etsi ad illius nobilitatem sepe iam scripserit et oratores miserit” “in realtà l’unico dato reale che giustifichi quanto espresso dalla proposizione concessiva è che il duca di Milano ha ‘tenuto uno ambassatore più mesi passati presso la signoria soa’ per ‘la liberatione’ di Ludovico Bolleri e pertanto il pronome relativo ‘pro quibus’ non risulta corretto: Francesco Sforza non solo in tempi relativamente recenti non ha ‘tenuto’ alcun ambasciatore presso il duca di Savoia se non il solo Corradino Giorgi, ma nemmeno risulta avergli scritto, tantomeno ‘sepe iam’”. A questo punto può essere interessante notare che alla quindicesima riga l’errato sostantivo al plurale “oratores” si trova proprio sotto il problematico verbo al tempo perfetto “occupavit”, il quale, come sappiamo, è sua volta posto sotto le parole “cum uxore”, che tuttavia fanno riferimento a un’informazione infondata. Sotto l’errato termine “oratores” si trova poi il verbo “relaxare” preceduto da “captivos”, ma nella minuta ducale del 13 aprile del solo ambasciatore inviato da Francesco Sforza, ossia Corradino Giorgi, si legge in riferimento a Ludovico Bolleri: “el tene in presone luy et la mogliere et figlioli, per la liberatione del quale havemo tenuto uno ambassatore più mesi passati presso la signoria soa et mai non l’habemo possuto obtenire. Immo, quando havemo creduto de doverlo havere, trovamo […]”. In sostanza, sulla base della minuta del 13 aprile non risulta in alcun modo giustificabile la finale presente dalla quindicesima alla diciassettetima riga “ut […] captivos relaxare, ablata restituere et adherentes ipsos liberos quietosque vellet dimittere”, con la quale tuttavia si vuole in realtà inviare un preciso messaggio al lettore, per comprendere il quale è necessario considerare che sotto “ablata” si trova l’aggettivo possessivo “suo” depennato. Un’altra funzione dell’espressione “ablata restituere” consiste nell’indurre a riflettere sulle parole che separa, ossia “captivos relaxare” e “adherentes ipsos liberos quietosque vellet dimittere”. In queste ultime bisogna sottolineare come, a differenza dei due casi precedenti, l’infinito non segue immediatamente il complemento oggetto, in quanto si vuole dare rilievo all’aggettivo “quietos”, che rimanda all’infinito “inquietare” della decima riga, preceduto dall’espressione “contra certas eciam convenciones particulares”, della quale abbiamo sottolineato che il sostantivo “convenciones” non è corretto, perché nella minuta del 13 aprile si legge il sostantivo “conventione” al singolare. Esso, inoltre, si trova sopra la parola “fratrum” della più ampia precisazione al genitivo possessivo riferita all’“arcem Vernanti” “Honorati ac fratrum comitum Vintimilii”, la quale a sua volta è sbagliata, in quanto nella minuta del 13 aprile è scritto “messer Honorato et el fratello, conti de Ventimillia”. Tenendo dunque a mente che le parole corrette sarebbero “convencionem” e “fratris” al singolare, bisogna considerare che sopra l’espressione che segue la preposizione vi sono le parole “partim bello aperto prosequitur”, il cui complemento oggetto è costituito all’ottava riga da “nonnullos indubitatos adherentes suos et complices”, di cui abbiamo rilevato essere sorprendente il sostantivo “complices”, “perché nella minuta ducale del 13 aprile […] Francesco Sforza utilizza sempre le parole ‘adherenti’ e ‘recommendati’ e nella sua lettera del 21 aprile Ottone del Carretto parla di ‘adherenti de vostra excellencia’”. Ricordandosi pertanto, oltre ai due termini cui si è accennato sopra, anche il curioso sostantivo “complices”, dalle successive sovraordinate risulta evidente che i “nonnullos indubitatos adherentes suos” non possono che essere “Honorati ac fratrum comitum Vintimilii” e “Ludovicumque de Bolleriis”. A questo punto è possibile passare a considerare i due infiniti con i loro complementi oggetti della diciassettesima riga “captivos relaxare” e “adherentes ipsos liberos quietosque […] dimittere” appartenenti alla proposizione finale retta dal congiuntivo “vellet” che abbiamo già rilevato non essere giustificabile in base alla minuta del 13 aprile. Poiché si opera una distinzione fra “captivos” e “adherentes” e considerato che “captivus” secondo il Vocabolario della lingua latina di Castiglione Mariotti significa “prigioniero”, si sarebbe indotti a pensare che ci si voglia riferire alla “uxore et liberis” di Ludovico Bolleri e non allo stesso Ludovico Bolleri, il quale appartiene agli “indubitatos adherentes” di Francesco Sforza. Sappiamo tuttavia che da un lato la moglie e i figli di Ludovico Bolleri non erano in alcun modo prigionieri e dall’altro che non vi erano più “adherentes” da lasciare “liberos quietosque”, ma solo uno, vale a dire il medesimo Ludovico Bolleri. Si vuole così far capire che i sostantivi “captivos” e “adherentes” sono equivalenti, anche se da riferire a un’unica persona, ossia Ludovico Bolleri. Allo stesso modo, quando alla precedente ottava riga si usano la parola “adherentes” e il curioso sostantivo “complices” si vuole fare intendere che essi sono corrispondenti e anche in questo caso da riferire a una sola persona per via delle errate parole al plurale “convenciones” e “fratrum” che si trovano nelle righe sotto e dovrebbero essere al singolare. A questo punto non resta che spiegare il sostantivo “complices”, da considerare in realtà in relazione a un unico individuo, ricordando la seconda spiegazione del lemma “complice” fornita a pagina 416 del III volume del Grande dizionario della lingua italiana, ossia “compagno in un’impresa”, di cui, rammentando il termine “beffa” al quale si è accennato in precedenza, paiono suggestive le precisazioni “(con senso […] a volte anche ironico […])” “compagno […] in una burla”. In ogni caso, anche a prescindere da queste ultime considerazioni, l’“impresa” cui si intende alludere è quella di cui parla Ottone del Carretto nella sua lettera del 2 maggio, quando scrive: “Poy intesi che il reverendissimo cardinal de Roano haveva ditto a sua sanctità molte cose in excusatione del duca de Savoia, dicendo domino Ludovico Bolero havere tractato alcune cose tra lo illustre delfino et vostra excellencia le quale non erano state grate ala maiestà del re de Franza”. En passant notiamo che dal testo della missiva non è possibile capire se con l’avverbio “Poy” ci si riferisca al 24 maggio o a un giorno compreso fra quest’ultima data e il 28 dello stesso mese. Quasi subito dopo l’ambasciatore aggiunge: “per la qual cosa fuy con lo prefato reverendissimo cardinal et, discussa re, monstrò de intendere et laudare la honestà et patientia de vostra excellencia, dicendo che per lo vescuo de Turino li era scritto tal cosa”. Poche righe dopo Ottone del Carretto racconta: “Poy, a dì XXVIII, fuy con la sanctità de nostro Signore, ala qual feci più distintamente intendere domino Loyso Bolero non havere fatto né tractato tali capituli, ma essere state fictione”. Tuttavia, che non si sia trattato in alcun modo di “fictione” lo suggerisce il fatto che il vescovo di Torino Ludovico di Romagnano è uno dei quattro ambasciatori (gli altri tre sono Henri d’Alibertis, abate dell’abbazia di Filly, non molto distante dal lago di Ginevra, il cipriota Guiotino de Nores e Andrea Maletti) riguardo ai quali all’inizio di una lettera datata 8 giugno Antonio da Cardano scrive a Francesco Sforza che “dito .. gubernatore [“del Delfinato”; da identificare con Louis de Laval] sa […] che adesso l’ambasaria del .. dnca de Sanoya va Milano per fare liga cum l’illustrissimo signor duca de Milano a destructio[n]e del re de Franza”, informazione, a prescindere dagli errori facilmente individuabili (una “u” e una “v” sono scritte come “n”, mentre una consonante “n” è stata posta fra parentesi quadre perché tracciata come una “u” o una “v”, ossia dal punto di vista grafico in sostanza la lettera è resa al contrario; questo criterio delle “n” fra parentesi quadre vale anche nel prosieguo del testo) da inserirsi nel maggiore contesto della Lega di Borgogna, posta sotto l’ala protettrice del delfino. Il testo un poco più completo sarebbe il seguente (caratterizzato da altri errori riguardanti le lettere “u”, “v” e “n”): “dito .. gubernatore [del Delfinato] sa che lo .. duca de Bergog[n]a, lo re de Inglitera, la maiestà del re de Aragona e lo .. dnca de Sanoya hano fato liga insema et che adesso l’ambasaria del .. dnca de Sanoya va Milano per fare liga cum l’illustrissimo signore duca de Milano a destructio[n]e del re de Franza”. D’altra parte, una conferma del fatto che non si sia trattato di “fictione” la fornisce una caratteristica cui abbiamo già accennato presente nella proposizione “tamen in suo suo proposito perseverare affirmatur”, ossia la ripetizione dell’aggettivo possessivo “suo”, la cui prima occorrenza, che costituisce la quart’ultima parola della diciassettesima riga, è depennata e si trova sotto il participio “ablata”. Prima di esaminare quest’ultima, occorre rilevare che la frase, all’apparenza innocua, in realtà non lo è: infatti nella minuta ducale del 13 aprile solo in merito “ali prefati conti de Tenda, contra li quali monstrava de volere procedere più oltra”, si può affermare che Ludovico di Savoia “in suo suo proposito perseverare affirmatur”. Per quanto riguarda Ludovico Bolleri, nella stessa minuta si legge semplicemente che il duca sabaudo “ha combatuto la rocha Sparavara et assacomanato molti lochi et ville soe”, ma non vi è traccia, e si perdoni la ripetizione, di un “in suo suo proposito perseverare affirmatur”. Nella copia della bolla quanto rilevato è sottolineato dal fatto che, dopo avere parlato dell’“arcem Vernanti” all’undicesima riga, nella successiva le parole “graviora adhuc illis denuncians” sono significativamente seguite dal nome “Ludovicumque” con la congiunzione copulativa enclitica “que”. Nella copia vi sono solo altre due occorrenze della congiunzione “que”, entrambe riguardanti Ludovico Bolleri: una alla quattordicesima riga, che non certo a caso ha a che fare con il verbo “predatusque est”, in stretta relazione con quanto riportato sopra della minuta ducale del 13 aprile, l’altra alla diciassettesima riga, ossia l’aggettivo “quietosque”, il cui plurale sappiamo essere sbagliato perché gli “adherentes” ai quali ci si riferisce in realtà non possono essere costituiti che da uno solo, vale a dire appunto Ludovico Bolleri. A questo punto bisogna considerare che, benché si sia parlato di Ludovico Bolleri, in realtà alla dodicesima riga, come detto, subito dopo “graviora adhuc illis denuncians” compare “Ludovicumque” con la congiunzione copulativa enclitica “que” in modo da dare risalto al nome. Il motivo è che “Ludovicus” può riferirsi non solo a Ludovico Bolleri e a Ludovico di Savoia, ma anche al delfino Luigi. Per comprendere quest’ultima possibile identificazione, prendiamo in esame una lettera datata 24 maggio 1458 e spedita da Thonon-les-Bains all’inizio della quale Ludovico di Savoia scrive: “Regreditur ad vos nobilis Conradinus de Georgiis, orator vester, et cum eo proficiscitur spectabilis dominus Ludovicus de Boleris, vicecomes Relaine, quos eciam sequuntur oratores ad vos nostri. Que autem in rebus illis pro quibus missus erat Conradinus appunctuata fuere, ex eius relatu plene intelligetis, qui profecto non minus egregie quam fideliter in omnibus se habuit”. Al termine della missiva non può sfuggire la doppia firma del duca sabaudo, che prima scrive “Ludovicus, dux Sabaudie etc.”, poi sotto aggiunge “Loys”, mentre, come si può verificare nelle cartelle Savoia, 478 e 479, in relazione agli anni 1457 e 1458, si limita sempre a indicare solo “dux Sabaudie Loys” o “dux Sabaudie etc. Loys”. “Loys” è però anche il nome con cui si firma il delfino, come è possibile verificare nel t. I delle Lettres de Louis XI intitolato “Lettres de Louis dauphin 1438-1461”. Ne consegue che anche per quest’ultimo “Loys” può corrispondere a “Ludovicus”. A conferma di quanto appena scritto, si consideri che a pagina 64 del citato t. I è pubblicata una lettera per Francesco Sforza spedita da Valence il 21 novembre del 1453 o del 1454 alla fine della quale è presente la firma “Loys”, ma all’inizio è scritto “Ludovicus, regis Francorum primogenitus, dalphinus Viennensis”. Casi analoghi si trovano a pagina 103 e alle pagine 131-132, alle quali vi sono altre due missive inviate al duca di Milano, la prima da Genappe e datata 18 luglio 1459, la seconda da Bruxelles e del 12 dicembre 1460: alla fine di entrambe è presente la firma “Loys”, ma nell’incipit si legge: “Ludovicus, Dei gracia regis Francorum primogentus, Dalphinus Viennensis”, con la sola piccola differenza che nella seconda è scritto “gratia” al posto di “gracia”. Associando queste considerazioni all’aggettivo “suo” depennato, si vuole far capire che il “proposito” o per meglio dire la tattica politica consistente nella simulazione di contrasti fra Ludovico di Savoia e Francesco Sforza non dipende dal duca sabaudo né ovviamente tantomeno da Ludovico Bolleri, ma dal delfino “Ludovicus”/”Loys”, che il 28 marzo 1458 con la collaborazione del duca di Milano lo ha liberato dalla condizione di “subiectione” verso Carlo VII, come si legge in una lettera di Corradino Giorgi dello stesso 28 marzo nelle cui righe iniziali è scritto: “la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato”. Può essere inoltre il caso di menzionare il resto della missiva di Ludovico di Savoia del 24 maggio sopra citata. Dopo avere ricordato di essere stato “nuper” avvisato della “nativitatem illustris geniti vestri, rem quidem menti nostre periocundissimam”, il duca sabaudo aggiunge: “significamus vobis illustrissimam filiam nostram carissima[m] [……………..] Pedemoncium hiis diebus filium Deo laudes feliciter peperisse”. Il testo è incompleto perché nell angolo in basso a destra della lettera risulta asportato un rettangolo di 6,4 x 13,7 cm. Benché non sia specificato il nome della “filiam”, considerate appunto le figlie di Ludovico di Savoia e di sua moglie Anna di Cipro, non può che trattarsi di Carlotta, moglie del delfino, anche se dalle non molte informazioni che si sono riuscite a reperire al proposito i due non sembrano avere avuto un figlio in quel periodo, ma negli ultimi mesi dell’anno, il quale pare si chiamasse Louis e sia morto nel 1460. In ogni caso, considerato anche che, come detto, manca del testo, riteniamo più che sufficiente il significativo implicito riferimento al delfino in una lettera in cui prima si cita “Ludovicus de Boleris” e poi alla fine il duca sabaudo ricorre alla doppia firma “Ludovicus, dux Sabaudie etc.”, cui sotto aggiunge “Loys”. Volendo poi fare un discorso più ampio in relazione al testo della copia della bolla, bisogna rilevare che il significato “proposito, intenzione, scopo prefisso” segnalato dal Vocabolario della lingua latina di Castiglioni Mariotti in relazione al sostantivo “proposito” è del tutto affine a quello del verbo “velle”, ossia “volere, desiderare”, cui rimanda il congiuntivo imperfetto “vellet”, che è il quarto termine prima dell’aggettivo “suo” depennato. Al proposito sappiamo che in base alla minuta ducale del 13 aprile non è in alcun modo possibile giustificare la proposizione finale retta proprio dal verbo “vellet”, comprese le parole “ablata restituire”, la seconda delle quali si trova sotto il verbo “miserit” preceduto dal sostantivo “oratores” della proposizione concessiva alla quindicesima riga, con il termine “oratores”, che, come noto, dovrebbe essere al singolare, non potendosi che riferire al solo Corradino Giorgi, mentre il modo del verbo dovrebbe essere all’indicativo e non al congiuntivo. D’altra parte, le parole “oratores miserit” si trovano sotto i verbi “occupavit predatusque est”, rispetto ai quali abbiamo rilevato il carattere problematico del primo, sottolineando che, se fosse stato scritto al tempo presente “occupat”, per logica avrebbe dovuto seguire il secondo. Infine rileviamo che i due verbi appena menzionati sono scritti sotto il complemento di compagnia “cum uxore et liberis”, che però è un’informazione non corrispondente al vero, in quanto la moglie e i figli di Ludovico Bolleri non si trovano in prigione, e che in sostanza sopra “cum uxore et liberis” si legge “Ludovicumque”. In pratica, risalendo dall’aggettivo “suo” depennato della diciassettesima riga sino al complemento di compagnia della tredicesima si hanno una serie di anomalie che confermano che alla dodicesima riga il “Ludovicum” cui ci si riferisce con la doppia occorrenza dell’aggettivo “suo”, la prima delle quali depennata, non è Ludovico di Savoia, come lascia intendere anche il fatto che il sostantivo “proposito” è associabile al congiuntivo “vellet” il quale regge una proposizione finale che non riporta in alcun modo quanto scritto nella minuta ducale del 13 aprile. Per essere ulteriormente precisi, si noti che del complemento di compagnia la preposizione “cum” e la lettera “u” di “uxore” si trovano sotto “denuncians”, ultima parola della frase “graviora adhuc illis [“Honorati ac fratrum comitum Vintimilii”] denuncians”, che sappiamo essere subito seguita da “Ludovicumque”, vicinanza con la quale si vuole evidenziare che l’“in suo suo proposito perseverare” non riguarda il duca sabaudo. A questo punto risulta particolarmente significativo che sopra “Ludovicumque” sia scritto “Vintimilii”, toponimo conclusivo del genitivo possessivo “Honorati ac fratrum comitum Vintimilii” nel quale, come noto, il sostantivo “fratrum” al plurale è scorretto. Posto tuttavia in associazione con “Ludovicumque”, esso non può che voler alludere al fatto che questo nome deve essere riferito a più persone. Questa connessione è sottolineata dall’a capo delle lettere “vice” al termine della dodicesima riga, seguite all’inizio della successiva da “comitem”, parola che richiama il termine “comitum” di due righe sopra preceduto dall’errato sostantivo “fratres”. Per proseguire nelle osservazioni relative alla copia della bolla, riprendiamo in considerazione il verbo al congiuntivo imperfetto all’inizio della ventiduesima riga “preberetur”, risultato della correzione dell’indicativo futuro semplice “prebebit”. Come abbiamo scritto, “La ragione per cui in un primo momento è stato scritto ‘prebebit’ consiste nell’anticipare le lettere ‘vocab’ depennate alla ventinovesima riga”, che fanno “fede per comprendere quando sia stata scritta la copia, ossia prima del momento effettivo della convocazione degli ambasciatori”. Questa considerazione è senz’altro corretta, resta però da capire come mai il congiuntivo imperfetto “preberetur” risulti sbagliato per due ragioni cui si è già accennato, vale a dire che “i soggetti sono due, ossia ‘audacia’ e ‘opportunitas’”, e in base alla consecutio temporum dovrebbe essere al tempo presente, perché dipendente dalla coniugazione perifrastica passiva “timendum […] est” al tempo presente. Per comprenderle, è necessario considerare le proposizioni secondarie subito successive: “cupientes igitur […] comm comuni rei publice christiane utilitati et presertim italice quieti consulere”, nelle quali le lettere “comm” sono depennate e seguite dalle lettere “coi” con sopra un segno abbreviativo. Il motivo per cui le lettere “comm”, da considerare in relazione alla “rei publice christiane”, sono depennate consiste nel far capire che vi è un soggetto politico che per qualche motivo risulta escluso da tale consesso. A questo punto, poiché in senso figurato il verbo “praebere” può significare “esporre, mostrare, dimostrare” e il congiuntivo imperfetto “preberetur”, anche considerato in relazione all’errato indicativo futuro semplice “prebebit”, rispetto al presente che secondo la consecutio temporum sarebbe stato corretto esprime un rapporto di anteriorità, con l’errore del verbo al singolare mentre i soggetti sono due si vuole far capire che a due dei quattro destinatari della copia della bolla, di cui uno, come si ricorderà, è indicato per errore, ossia “duci Mediolani”, la copia stessa è stata mostrata in anticipo, non si può escludere per concordarne il contenuto, rispetto all’inizio di maggio ed essi non possono che essere identificati con “Alfonso Aragonum et utriusque Sicilie regi” e i “Florentinis”, mentre all’inizio di maggio al “domimo Venetorum” la bolla è stata inviata come se non si trattasse di un documento elaborato in un periodo precedente e posto all’attenzione di altri sotto forma di copia. Per avere la conferma di quanto appena scritto, è necessario iniziare a ragionare a partire dalla lettera citata di Ludovico di Savoia del 24 maggio 1458 e inviata da Thonon-les-Bains, all’inizio della quale, come sappiamo, il duca sabaudo scrive: “Regreditur ad vos nobilis Conradinus de Georgiis, orator vester, et cum eo proficiscitur spectabilis dominus Ludovicus de Boleris, vicecomes Relaine, quos eciam sequuntur oratores ad vos nostri”. Come si è rilevato, l’importanza di questa missiva consiste nel fatto che grazie a essa si capisce che con il nome “Ludovicus” è possibile identificare tre persone diverse, ossia Ludovico Bolleri, Ludovico di Savoia e il delfino Luigi. Un altro aspetto importante è costituito dal fatto che in essa si dice che nel loro viaggio verso Milano Corradino Giorgi e Ludovico Bolleri sono seguiti dagli ambasciatori del duca sabaudo, tema che consente di associare ulteriormente la missiva alla copia della bolla per Alfonso d’Aragona. Nello stesso giorno e dal medesimo luogo Ludovico di Savoia scrive una lettera a Francesco Sforza all’inizio della quale si legge:

“Nunc ad vos duximus destinandos reverendos in Christo patres dominos Ludovicum, ex marchionibus Romagniani, episcopum thaurinensem, et Henricum, abbatem Filliaci, necnon magnifficum militem dominum Guioctinum de Nores, cambellanum #, compatresque et consiliarios nostros sincere dilectos”; nella missiva con la stessa data a Bianca Maria Visconti è scritto invece: “Impresenciarum ad vos duximus destinandos reverendos in Christo patres dominos Ludovicum, ex marchionibus Romagniani, episcopum thaurinensem, et Henricum, abbatem Filliaci, necnon magnifficum militem dominum Guioctinum de Nores #, compatres nostros sincere dilectos”.

Tralasciando le differenze, fra tutte l’errato “compatresque” della missiva per il duca di Milano, con il quale diciamo en passant che insieme ad altri aspetti che approfondiremo in un altro testo si vuol far capire che con il nome “Henricum” dell’“abbatem Filliaci” si intende alludere al “re de Inglitera” di cui poi parla Antonio da Cardano nella lettera dell’8 giugno citata in precedenza, nella quale egli accenna anche all’“ambasaria del .. dnca de Sanoya va Milano”, e per il momento non approfondendo il fatto che il segno “#” viene richiamato alla fine del testo seguito dalla specificazione “et Andream Maleti”, rileviamo che in una minuta datata 13 giugno Francesco Sforza scrive a Marchese da Varese:

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“Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa et, quantuncha siano cose assay legiere, nientedemancho cossì come sonno ne è parso mandartene copia, le quale seranno qui incluse adcioché de esse tale quale sonno ne possi dare noticia a quella illustrissima signoria, ala quale etiamdio notificheray da nostra parte come heri gionseno qui quattro ambaxatori del duca de Savoya, li quali, per quello ne hanno facto dire, ne hanno ad referire alcune cose per parte d’esso duca. Et cossì ancora li gionse pur heri un altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa. Ali quali ambaxatori per ancora non havemo dato audientia per alcune occupatione ne sonno occorse, ma da domane in là vedremo de audirli et darli expeditione et de quello haveranno referito, tanto li ambaxatori del duca de Savoya, quanto quello vene da Zenoa, quale è però vechio, per essere stato parechi dì a Novi per respecto del morbo è in Zenoa, te ne daremo per nostre lettere adviso, per adcioché de tucto possi in nostro nome comunicare con essa illustre signoria. Et, per quanto intendemo, parte de dicti ambaxatori de Savoya, expediti che seranno qui, veneranno dala prefata illustre signoria”. Nel primo capoverso della lettera datata 18 giugno del duca di Milano diretta a Ottone del Carretto si legge però quanto segue (si noti che si tratterebbe di un originale e nella cartella Roma, 47, non è l’unico, tuttavia alla nota 248 della pagina 155 di Uno mundo de carta Francesco Senatore scrive: “La percentuale di lettere ducali originali nel carteggio estero sforzesco è molto discontinua: abbondanti sono quelli conservati in ASM, SPE, Roma, 40, 41, 43 e soprattutto 42 […] Nelle cartelle Napoli, 195-215, che contengono oltre 5000 documenti, ci sono pochissimi originali indirizzati agli ambasciatori (non più di qualche decina)”. In effetti sorprende che lo studioso non citi la cartella Roma, 47): “Sono già quatro dì che sono qui quatro ambaxatori del illustre segnore duca de Savoya, quali, per essere stato uno poco male uno di loro, non hano exposta la loro ambaxata più presto de hier sera. Et in effecto se sonno sforzati iustificare et scusare el prefato illustre duca de Savoya che habia facto con rasone ogni novità che ha facto contra domino Alluyse Bolleri, li gentilhomini da Cocona’ et lo conte de Tenda, ma, quando li havemo resposto et factoli intendere le nostre raxone circha queste novità hano facte, non hano saputo replicare. Se altro ne exponerano, ve ne daremo adviso, et così dela conclusione se farà con loro”. La missiva prosegue poi nel secondo capoverso così: “In super, fin mo dele nove havemo havute deli facti de Zenoa continuamente ve ne havemo tenuto advisato. Adesso havemo recevuta una lettera dela quale ve mandiamo la copia ad questa inclusa, per la quale intenderete quanto hucusque sia sequito” (l’avverbio iniziale “Insuper” è proprio scritto con un breve spazio fra “In” e “super”, come si può verificare nell’immagine più avanti intitolata “Roma29”). In base a quanto riportato nella minuta a Marchese da Varese gli ambasciatori sarebbero giunti a Milano prima rispetto a quanto Francesco Sforza scrive a Ottone del Carretto. Per comprendere perché vengano riferite queste diverse informazioni, bisogna considerare che all’opposto la bolla di Callisto III al “domino Venetorum” è stata inviata dal papa in un momento successivo rispetto alla copia della bolla stessa nella quale, come abbiamo visto, proprio in relazione alla convocazione di ambasciatori con il verbo al congiuntivo imperfetto “preberetur” e le lettere “vocab” depennate si fa capire al lettore che essa è stata spedita in visione in un momento precedente ad Alfonso d’Aragona e ai fiorentini. A questo punto, considerato che, come abbiamo visto, nella copia della bolla l’aggettivo “suo” depennato in relazione al sostantivo “proposito” è in realtà riferito al delfino Luigi e il legame del documento con le lettere di Ludovico di Savoia datate 24 maggio, possiamo aprire una breve e interessante parentesi, iniziando il ragionamento dalla fine dell’ultima riga, dove non è scritto “Datum ut supra”, che già di per sé sarebbe un po’ pleonastico, considerato che nel foglio, in alto a sinistra, è scritto “Mediolani, die XIII iunii 1458”, ma solo “Datum”, parola che ovviamente da sola non è corretta, aspetto quest’ultimo sottolineato dal fatto che la penultima riga presenta l’unico a capo di tutta la minuta con le lettere “sente”, seguite da “remo”. Si vuole così collegare il verbo “senteremo” con il connesso errato termine “Datum” ad “audirli” della dodicesima riga. Nella minuta, infatti, i due verbi sono gli unici ad avere un senso affine: il primo, che è una forma antica per “Udire” (pagina 840 del I volume del Grande dizionario della lingua italiana), di “stare a sentire” (pagina 492 del XXI volume dello stesso dizionario), il secondo di “udire pronunciare o dire” (pagina 668 del XVIII volume). L’eventuale obiezione che anche “intendemo” avrebbe un significato simile non può essere accolta, perché in questo caso il verbo non significa “ascoltare qualcuno, prestarvi attenzione” (pagina 196 dell’VIII volume), ma “Apprendere (una notizia, un fatto, una circostanza); venirne a conoscenza, esserne informato” (stessa pagina appena citata dell’VIII volume). I motivi del suddetto collegamento sono due: da un lato si vuole rilevare che “i quattro ambaxatori del duca de Savoya” e l’“altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa”, cui si riferisce la particella pronominale enclitica “li” di “audirli”, sono tutti giunti “heri”, dall’altro che proprio sotto “audirli” vengono espressi i soggetti del verbo “haveranno referito”, che sono appunto “tanto li ambaxatori del duca de Savoya, quanto quello vene da Zenoa, quale è però vechio, per essere stato parechi dì a Novi per respecto del morbo è in Zenoa” con caratteristiche però particolari rispetto alla prima occorrenza in cui gli inviati risultano arrivare insieme a Milano il 12 giugno. Al proposito bisogna rilevare che è piuttosto significativo il fatto le parole “del duca” siano depennate: gli “ambasciatori […] de Savoya” dovrebbero infatti essere solo tre, in quanto, quando il 24 maggio Ludovico di Savoia scrive le sue lettere da “Thonoun”, ossia Thonon-les-Bains, località della Savoia, a Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti segnala l’invio di Ludovico di Romagnano, vescovo di Torino, di Henri d’Alibertis, abate dell’abbazia di Filly, e di Guiotino de Nores. In una lettera di Antonio da Cardano datata 1 giugno e inviata da Torino essi risultano essere ancora tre. L’ambasciatore scrive infatti, con i soliti problemi riguardanti le lettere “u”, “v” e “n”: “E domino Giotino disse non se cercha pni ultra, facesse qnelo è da fare e vadasse pur dricto ad exequire quanto è concluso e ch’el non dubita che ala ve[n]uta sua lì ha Milano, una cum .. monseg[n]ore lo vescono de questa terra e l’abbate de Figlie, che vostra signoria restarà molto contenta”.

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Il quarto ambasciatore, ossia Andrea Maletti, si può inferire con ragionevole certezza sia stato aggiunto proprio a Torino in un giorno successivo. In questo modo si vuole attirare l’attenzione sul testo che segue “quello vene da Zenoa”, ossia “quale è però vechio, per essere stato parechi dì a Novi per respecto del morbo è in Zenoa”. Premesso che esso è evidentemente privo di senso, in quanto non può esservi alcuna relazione fra l’avanzata età di “quello vene da Zenoa”, che poi si chiama Daniele Arrighi, con il suo essere stato esposto al “morbo” presente nella città ligure, l’aspetto al momento da sottolineare è il riferimento a “Novi”. Infatti, pur non potendosi escludere che Daniele Arrighi abbia trascorso “parechi dì a Novi”, quello che è certo è che nella seconda lettera del recto della carta 37 del Registro delle Missive 44, datata 29 maggio 1458 e diretta allo stesso Daniele Arrighi, Francesco Sforza scrive: “Non vi havemo admetuto più presto a nuy per respecto della mala peste che pur, segondo se dice, regna in quelle parte de Zenoa, per la quale cosa havemo mo ordinato ch’el vostro logiamento sia in Claravalle, propimqua a questa nostra inclita cità de Milano quatro milia, et, stando lì allogiato, ve farimo dare spazamento, siché a vostro piacere venite”. Evidentemente, come con le parole “del duca” depennate si vuole alludere ad Andrea Maletti, ambasciatore aggiunto in un secondo momento a Torino agli altre tre inviati a Milano dal duca di Savoia, come risulta nelle sue lettere del 24 maggio, così si vuole far riflettere sul fatto che Daniele Arrighi, dopo essere stato a “Novi” e prima di giungere a Milano, era stato a Chiaravalle presso l’abbazia (nella lettera di Bartolomeo da Recanati diretta ad Alfonso d’Aragona e datata 1 giugno 1458 che si trova nelle pagine di un copiario con la numerazione moderna 178-179 si legge: “De Ienova è partito uno cortigiano del duca de Renna, Daniele Arrigo da Napoli, signore de Bucco, el quale vene ambasciatore ad questo signore. Et, perché a sua signoria glie pare serria disonesto prohibirli non volerlo odire, have trovato honesta scusa et, per mectire tempo in mezo, gli have mandato a dire che vengono de terra de peste, non vole che intra in Milano, ma che se ne vada ad alogiare al abadia. Pure verrà qui”; in un’altra missiva dello stesso Bartolomeo del 6 giugno che si trova al foglio 182 è scritto: “Lo imbasciatore che scripse dovere venire ad questo signore mandato del dicto duca de Renna già sonno dui dì è gionto a Chiaravalle, ma ancora non è venuto ad explicare la sua imbasiata né credo glie sie premiso ce venga per alcuni dì cum ne scusa dela peste”; come si può notare, Daniele Arrighi è definito “imbasciatore […] del dicto duca de Renna”, mentre nella minuta ducale del 13 giugno per Marchese da Varese risulta essere inviato dal “duca de Calavria, locotenente in Zenoa”, Giovanni d’Angiò), creando una sorta di corrispondenza fra i due toponimi, al primo dei quali si contrappone l’aggettivo “vechio”, che si trova sotto “ambaxatori” prima delle parole depennate “del duca”. Il fatto che, come accennato, il testo che segue l’aggettivo sia illogico significa che bisogna riflettere su di esso. La sua posizione sotto la parola “ambaxatori” della tredicesima riga prima dei termini “del duca” depennati, seguiti dall’indicazione “de Savoya”, crea un parallelismo fra questa parte citata della tredicesima riga e il testo fra la nona riga e l’inizio dela decima, che è il seguente: “pur heri un altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa”. Esso dipende dal fatto che “Calavria” è scritto sopra “Lorena” depennato: come con le parole depennate “del duca” si vuole attirare l’attenzione su quanto segue per via del fatto che gli ambasciatori “de Savoya” erano in realtà solo tre, così si vuole sottolineare l’espressione “locotenente in Zenoa”, in quanto essa implica un riferimento al re di Francia. Nella copia in italiano di una lettera di Carlo VII datata 16 giugno 1458 e inviata da Beaugency si legge infatti: “Et in signo de questo [li Zenovesi] hanno metudo et levado le bandere de le nostre arme sopra le porte, piaze et navilii de la dicta signoria et de quella hano data la possessione per nui et in nostro nome al nostro granmente caro et granmente amato nepote, lo duca de Calabria, nostro locotenente generale de là”. Se è vero dunque che Giovanni d’Angiò risulta “duca di Lorena” grazie alla madre Isabella e “duca di Calavria” per via del padre Renato, il dato che conta è che egli è “locotenente in Zenoa” in nome di Carlo VII ed è a quest’ultimo cui in realtà ci si riferisce con l’aggettivo “vechio”. A questo punto, considerato che il toponimo “Novi” può anche essere considerato il plurale dell’aggettivo “novo”, per il quale a pagina 617 dell’XI volume del Grande dizionario della lingua italiana si rimanda alla voce “nuovo” e che a pagina 677 fra i vari significati di quest’ultimo aggettivo si fornisce quello di “Giovane”, non pare particolarmente difficile immaginare in chi debba essere identificato il “nuovo” nel senso di “Giovane” contrapposto al “vechio” Carlo VII: non può che trattarsi del delfino Luigi. Un’ulteriore conferma viene dal riferimento implicito a “Claravalle” e all’abbazia, dove, secondo una missiva presente nel recto della carta 37 del Registro 44 e datata 29 maggio, Francesco Sforza aveva “ordinato” che Daniele Arrighi stesse “lì allogiato”, abbazia fondata da Bernardo di Chiaravalle nel 1135 come filiazione di quella francese di Clairvaux, in italiano “Chiaravalle” e in latino “Clara Vallis”. Bernardo di Chiaravalle, nato verso il 1090, era figlio del signore di Fontaine, dove era nato, località non lontana da Digione e situata a pochi chilometri dalla capitale della Borgogna, della quale al tempo era duca Oddone I. Il toponimo “Claravalle” rimanda dunque a Bernardo di Chiaravalle, originario della Borgogna, dove in quel periodo si trovava appunto il delfino e costituisce un inequivocabile riferimento a quest’ultimo. A tal proposito può essere interessante considerare in modo completo il testo iniziale della lettera di Antonio da Cardano dell’8 giugno relativo alla Lega di Borgogna, che è il seguente (come si noterà, non diversamente dalle precedenti citazioni, è contraddistinto da errori concernenti le lettere “u”, “v” e “n”): “Guillielmo, di signori de A[n]tesano, prexo ha Tanrino, che vene de presente dal Delfinato, ha intexo da Gabriel de Ber[n]ezio, signore de Targi, quale è camererio e del Consilio dela maiestà del re de Franzia e che andana dal re de Franza per parte de monsegnore de Giaton, gubernatore del Delfinato, che dito .. gubernatore sa che lo .. duca de Bergog[n]a, lo re de Inglitera, la maiestà del re de Aragona e lo .. dnca de Sanoya hano fato liga insema et che adesso l’ambasaria del .. dnca de Sanoya va Milano per fare liga cum l’illustrissimo signor duca de Milano a destructio[n]e del re de Franza” (come si può notare nell’immagine sotto, la ”B” di “Bergog[n]a” risulta tagliata da una linea lievemente obliqua caratterizzata nella parte superiore da un piccolo uncino, che pare quasi solo accennato: in base alle indicazioni fornite alla suddetta pagina XXXIV da Adriano Cappelli riteniamo che essa non possa che stare per la sillaba “Ber”).

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En passant si noti che il toponimo “A[n]tesano” sta per Antignano, che, senza entrare nello specifico della storia dei suoi signori, dista circa 10 chilometri da Asti, in quel momento in mano ai francesi, e circa 60 da Torino e quindi la precisazione “prexo ha Tanrino” non è corretta, non solo perché ovviamente è scritto “Tanrino” invece di “Taurino”. Come sappiamo, il “gubernatore del Delfinato” è Louis de Laval, detto “monsegnore de Giaton”, definizione di poco preceduta dalle parole riportate nell’interlinea “dal re de Franza”, scritte sopra “per parte de mon”. Alcuni studiosi, come Paul M. Kendall, Vincent Ilardi ed Ernesto Pontieri, lo definiscono in modo un po’ vago signore di “Châtillon”, mentre, per essere precisi, si tratta dell’attuale comune di Châtillon-en-Vendelais, distante circa 50 chilometri da Rennes, capitale della Bretagna (abbastanza curiosamente nel suo primo volume dei Carteggi diplomatici fra Milano sforzesca e la Francia lo studioso italiano ha posto la breve nota biografica a pagina 374, dove l’esponente numero 4 compare nel seguente testo: “[il Re] ha mandato per li tri stati del Delphinato e per lo governadore[4] che vegnessero a Vienna” e non alle precedenti pagine 366 e 367, dove risulta scritto rispettivamente “Ludovicum de Lavalle, dominum Castilioni” e “Ludovicum de Lavalle”; inoltre nella nota si legge: “Luigi de Laval, signore di Chatillon; governatore del Delfinato dal 28 luglio 1455 al 24 gennaio 1458; governatore di Genova dal 1458 al 1461. Nel 1467 divenne gran maître delle acque e delle foreste (Bueil, Le Jouvencel, I, pp. CXXX, CXXXIII, CXLI, CCXXVI, CCLXIII”): a parte l’accento circonflesso mancante sulla “a” di “Chatillon”, nella nota 9 a pagina 177 del vol. II 1460-1461 di Dispatches with Related Documents of Milanese Ambassadors in France and Burgundy Kendall e Ilardi scrivono: “Louis de Laval, Lord of Châtillon, formerly Governor of Dauphiné for the Dauphin, was appointed Governor of Genoa by Duke John when the latter sailed to attempt the conquest of the Kingdom of Naples”; Giovanni d’Angiò partì però dal capoluogo ligure per attaccare il regno di Napoli il 4 ottobre 1459, quindi non è possibile che “Luigi de Laval” nel 1458 fosse già “governatore di Genova” come scritto da Pontieri; inoltre, in conclusione alla nota, i due studiosi si riferiscono a Louis de Laval in modo piuttosto bizzarro, facendo riferimento al luogo di cui sarebbe signore, ossia così: “Châtillon failed to maintain a firm grip upon the city [Beaucourt, VI, 332]”; tornando a Pontieri, un ultimo aspetto curioso è che “Laval, Luigi de, signore de Chatillon”, toponimo sempre scritto senza accento circonflesso, compare nell’indice a pagina 400 dopo le voci “Laval, Guy de, signore di Loué” e “Laval, Jeanne”: non si capisce il motivo per cui il nome italiano “Luigi” sia preceduto da due nomi francesi, scelta che al limite potrebbe essere comprensibile per “Guy”, ma non per “Jeanne”, soprattutto considerato che appunto subito dopo viene “Luigi”). In realtà, il toponimo “Giaton” è volutamente aperto a più possibilità di identificazione, come anticipato dall’errata precedente precisazione che “A[n]tesano” sarebbe “prexo a Tanrino”, con la quale si vuole far capire che “Giaton” non è la località distante una trentina di chilometri da Aosta, ma un’altra. A questo punto, considerate le parole “dal re de Franza” scritte nell’interlinea, come a indicare un’ascensione, e l’ambiguità del toponimo “Giaton”, è chiaro che con l’accenno al “gubernatore del Delfinato”, il cui nome è Louis, in latino “Ludovicum”, si vuole far capire che con l’implicito riferimento a Louis/”Ludovicum” si intende alludere in realtà al delfino, garante della “lega” cui si accenna subito dopo, in un documento firmato da “Iacopo Ventura” e datato “A Campi, a dì IIII di luglio MCCCCLVIII” (nel 1862 “Campi” assunse il nome di Cambi Bisenzio, secondo quanto risulta dal sito online del comune, distante circa 15 chilometri da Firenze) definita “Lega di Borgogna”. In esso infatti si legge: “Per la morte del re [de Raona] è finita la Lega di Borghogna”, ma, consultando la documentazione successiva, si capisce che non è affatto così e che il delfino, destinato a divenire re di Francia entro non molto tempo per via delle cattive condizioni di salute del padre, ha assunto sotto la sua tutela, per così dire, re Ferrante, figlio di Alfonso d’Aragona, succeduto al padre come sovrano di Napoli. Per quanto riguarda invece “Gabriel de Ber[n]ezio, signore de Targi”, inviato dal governatore del Delfinato presso Carlo VII, egli deve essere invece identificato con Gabriel de Bernes, signore di Targé, località situata a una quarantina di chilometri da Poitiers, nell’attuale regione della Nouvelle-Aquitaine. A pagina 279 del già menzionato t. I delle Lettres de Louis XI all’interno di una missiva viene citato tre volte proprio “Gabriel de Bernes”, così menzionato anche nel regesto nella pagina precedente; inoltre in più di un sito online egli viene definito signore di Targé in relazione alla chiesa di Saint-Georges appunto di Targé, citando come riferimento bibliografico la nota 126 a pagina 179 del libro Sigillographie du Poitou jusqu’en 1515 di François Eygun (si noti peraltro che Antonio da Cardano si riferisce a lui come “camererio e del Consilio dela maiestà del re de Franzia”, tuttavia egli non compare nel testo di Pierre-Roger Gaussin Les conseillers de Charles VII (1418-1461). Essai de politologie historique, nemmeno nell’“Appendice” con i “Brefs curriculum vitae des conseillers de Charles VII (1418-1461)”). A questo punto si può prendere in esame la missiva successiva di Antonio da Cardano, “Ex Sancto Petro ad pedem montis Sancti Bernardi versus Sabaudiam, die XIII iunii MCCCC°LVIII”, nella cui data il toponimo corrisponde all’attuale comune svizzero di Bourg Saint Pierre e che è significativamente l’ultima della corrispondenza tra l’ambasciatore e Francesco Sforza, anch’essa caratterizzata dalle lettere “u”, “v” e “n” dal punto di vista grafico scritte alla rovescia (basti pensare che nelle prime due righe si legge: “Venere passato me partì da Tanrino per andare ala presentia del illustre signor dnca de Sanoya et heri, hora XXa, gionse ha Sancto Brenceto, villa de Sanoya, prexo manco de meza giornata ha Martig[n]ino”, toponimo scritto in modo errato, in quanto corrispondente alla cittadina elvetica di Martigny, capoluogo dell’omonimo distretto). Evitando di entrare nei particolari della lettera, nella quale in sostanza Antonio da Cardano racconta del suo peregrinare nel tentativo, all’apparenza inutile, di parlare con Ludovico di Savoia (si noti che nella missiva ricorre numerose volte lo sbagliato termine “andientia”), in essa non può non colpire il toponimo reso con le varianti “Sancto Brenceto”, “Bnceto” con un segno abbreviativo, come vedremo, caratteristico”, “Berenceto”, “Brenzeto” e “Brenceto”, quest’ultima ripetuta due volte, corrispondente al comune svizzero di Sembrancher, capoluogo del distretto di Entremont. Si noti che nella sillaba “ce” le due lettere sono del tutto identiche e quindi almeno in teoria non distinguibili, anche se ovviamente a senso è possibile identificarle, richiamando comunque il fatto che allo stesso modo le “n” rese graficamente al contrario non si capisce se in effetti vadano intese come “u” o “v”. In ogni caso qualsiasi dubbio è fugato dalla variante “Brenzeto” alla ventiduesima riga, che è la seguente: “dito domino Gabriel da mi e disseme ch’el volena vegnesse con sì de compagnia sino Brenzeto, cum”. A parte il fatto che l’ultima parola della riga precedente è “vene”, posta proprio sopra “cum”, la variante “Brenzeto” richiama chiaramente “Gabriel de Ber[n]ezio, signore de Targi”, come confermato dal fatto che all’inizio della riga si legge “dito domino Gabriel” (di cui prima si legge “da Cardona, texaurero”). Come si ricorderà, Gabriel de Bernes è mandato presso il re di Francia dal governatore del Delfinato, ma abbiamo anche visto che con quest’ultimo per via dei suoi nomi Louis/”Ludovicum” si vuole alludere al delfino. Che non si tratti di sovrainterpretazione è confermato dal fatto che la prima occorrenza del toponimo Sembrancher è “Sancto Brenceto”, sesta e settima parola della seconda riga, che poi compare di nuovo come penultimo termine della quarta riga scritto “Bnceto”, unico caso nella lettera, il quale, per essere precisi, è particolare, perché non taglia la consonante come nel caso sopra rilevato di Bergog[n]a”, ma solo la sua parte inferiore destra, trovandosi quasi fra le consonanti “B” ed “n”. Non si può tuttavia che supporre che tale segno abbreviativo vada inteso in modo simile alla “B” di “Bergog[n]a”, anche se, in base alle indicazioni fornite a pagina XXXIV da Adriano Cappelli, non si sa quale scegliere fra due soluzioni, ossia “Ber” o “Bre”, perché, nelle cinque occorrenze in cui ricorre per esteso, le prime tre lettere del toponimo Sembrancher sono in quattro casi “Bre” e in uno solo “Ber”, sillaba che appartiene a una variante che però a sua volta ha un carattere eccezionale, per così dire, in quanto scritta “Berenceto”. Poiché tuttavia il particolare segno abbreviativo viene ripreso nella terza parola della terz’ultima riga e nel nono termine della penultima nel nome “Bernardo” e infine nella seconda parola dell’ultima riga in “Bernardi”, facente parte della data topica, riteniamo che esso non possa che essere inteso come “Ber”, e quindi la variante linguistica del toponimo sia “Bernceto”, anche se della parte iniziale di essa vi è un’unica occorrenza scritta per esteso, a meno di non avanzare l’obiezione, la quale pare francamente assurda, che il nome “Bernardo” vada letto “Brenardo”. Che sia quella proposta la trascrizione corretta è confermato dal fatto che essa viene per così dire anticipata dal secondo termine della stessa quarta riga, che è “miser”, non a caso unica occorrenza in tutta la lettera seguito dal nome “Alnyse Bollero”, abbreviato con le lettere “mi” dopo le quali vi è la consonante “s” tagliata da una linea obliqua con il consueto uncino nella parte superiore. Anche se quest’ultimo segno abbreviativo è disposto in modo diverso, in quanto chiaramente obliquo, e con un uncino di dimensioni più contenute, esso richiama quello della “B” di “Bernceto”, volendo indirizzare alla sua corretta interpretazione. D’altra parte la stessa lettera iniziale di “miser” è problematica, in quanto la “m” si potrebbe leggere come la sillaba “in”, perché la prima linea non è legata alla successiva. In questo modo si anticipa anche il pronome personale “me” scritto alla fine della quarta riga subito dopo “Bernceto”, la cui “m” è allo stesso modo ambigua, perché potrebbe leggersi come le due lettere “rn” per via della particolare forma della prima linea. In questo modo si sottolinea quale sia nella precedente variante linguistica “Bernceto” la corretta collocazione della “r”, ossia prima della “n” e dopo la “e”. Che quanto scritto non sia sovrainterpretazione è dimostrato da due evidenze della stessa quarta riga, che riportiamo insieme ad altre porzioni di testo: “el prefato signor [“dnca de Sanoya”] […] havena mandato lì [a Sembracher] Frassa, suo camerero, che hanena [in] guardia il / (4a riga) magnifico [m]iser Alnyse Bollero [in] Sanoya, con com[i]ssione da sua signoria che, s’el non me tronana ha Bernceto, [m]e / aspetasse lì”. Innanzitutto, la quint’ultima parola della quarta riga è il pronome personale “me” con la “m” che senz’ombra di dubbio è tale, volendo così evidenziare la differenza con la “m” dell’identico pronome successivo; in secondo luogo, la nona posizione rispetto al termine della riga è occupata dal sostantivo “signoria”, abbreviato con la “s” che in apice presenta le lettere “ria” delle quali la consonante “r” è molto simile a quella del pronome “me” se la “m” venisse intesa come “rn”, appunto con l’intento di evidenziare l’ambiguità della “m”. Immaginando sempre che la principale obiezione a quanto appena scritto potrebbe essere che si tratti di sovrainterpretazione, si noti che nel testo il termine “signoria” ricorre nove volte: due casi riguardano Francesco Sforza e sono abbreviati con la sola “s”; sette occorrenze si riferiscono a Ludovico di Savoia e sono rese quattro volte con la “s”, in un caso la parola è scritta per esteso “sig[n]oria”, mentre in due occorrenze, a una delle quali si è accennato, la consonante “s” è seguita dalle lettere “ria” in apice. Per quanto riguarda questi ultimi casi, la seconda occorrenza si trova alla ventiseiesima riga, che è la seguente: “dito signor [Ludovico di Savoia] […] mandome dire per dito Frassa, sno camererio, ch’io non stesse più lì ha / (26a riga) Brenceto e passasse la montag[n]a et andasse aspetarlo [in] Angusta, done sna signoria saria zobia / matina che vene”. In questo caso la “r” iniziale delle lettere in apice è diversa dalla stessa precedente consonante in apice e uguale, sebbene di poco più piccola, alla “r” nel verbo “saria” subito dopo, la quale a sua volta richiama quella della variante linguistica “Brenceto” all’inizio della riga, volendo così sottolineare la differenza riguardante la posizione della consonante “r” nelle varianti “Brenceto” e “Bernceto”, come sappiamo penultimo toponimo della quarta riga. Sempre in quest’ultima ricorrono poi i nomi “Alnyse” e “Sanoya” e il verbo “tronana”, ai quali, tuttavia, considerate le numerosissime occorrenze della vocale “u” e della consonante “v” rese come “n”, crediamo non si debba dare alcuna importanza: probabilmente questi casi dipendono dal fatto che risultava più agevole tracciare una “n” invece di una “u” o una “v”. Analogo discorso riteniamo si possa applicare al toponimo “Zenona” al posto di Genova, del quale più avanti ci imbatteremo in non pochi casi in alcune minute ducali e di cui non è possibile fornire una spiegazione che abbia un minimo fondamento logico. Crediamo che al proposito abbia una qualche attinenza quanto scrive Alberto Del Monte in Elementi di Ecdotica: prima a pagina 103 afferma che “Se si deve operare una selectio fra più congetture possibili, occorre tener presenti nella scelta: a) Lectio difficilior,potior. Infatti una lezione più difficile è da preferire a una più facile per la tendenza dei copisti alla trivializzazione”; poi alle pagine 114-115 scrive: “L’editore deve di frequente affrontare problemi di attribuzione, principalmente quando edita raccolte di testi brevi, come le liriche, per alcuni dei quali i testes possono divergere nella paternità […] Quando un problema di attribuzione non è risolvibile, si riuniscono i componimenti dubbi in un’appendice […]. In linea di massima, la prevalenza numerica dei manoscritti che danno una determinata attribuzione non ha importanza […]; fra l’attribuzione a uno scrittore molto noto e a uno meno noto è più probabile la seconda (come lectio difficilior)”. Riteniamo invece significativi il caso della preposizione “in” dopo “Bollero”, quindi poco dopo “miser”, e del sostantivo “com[i]ssione”. Come peraltro in altre occorrenze della missiva, la preposizione, priva del punto sovrascritto, si può leggere anche come una “n” seguita da un segno non ben chiaro che, benché privo di uncino, è del tutto simile a quello che taglia la “s” di “miser” e caratterizza la variante linguistica “Bernceto”, dopo la quale sappiamo esservi il pronome “me” che potrebbe leggersi anche come “rne”. D’altra parte, anche la “n” richiama il precedente termine “miser” se la “m” iniziale viene trascritta come le due lettere “in”, che, come abbiamo detto, anticipano il pronome personale “me” dalla “m” ambigua scritto alla fine della quarta riga, che “sottolinea quale sia nella precedente variante linguistica ‘Bernceto’ la corretta collocazione della ‘r’, ossia prima della ‘n’ e dopo la ‘e’”. Un’ulteriore conferma della rilevanza della consonante “n” è fornita dalla parola “com[i]ssione”: le lettere “m[i]” si potrebbero infatti leggere come due “n” per il modo in cui sono legati i segni che compongono quella che dovrebbe essere la sillaba “m[i]. Riportiamo per completezza il testo delle circa quattro righe conclusive della missiva, delle quali più avanti esamineremo alcuni aspetti, limitandoci ora a cogliere lo spunto per passare rapidamente in rassegna le date delle lettere di Antonio da Cardano, anche se non solo di esse: “Oge è passato una gra[n]de parte del carriagio d’esso signor la mo[n]tag[n]a / de Sancto Bernardo et ha tuta via passano ultra de qnili d’esso [m]onseg[n]ore dnca, qnale do[m]a[n]e, seque[n]do / poi la note, dorunrà [n]el mo[n]asterio de Sancto Ber[n]ardo. Ex Sancto Petro ad pedem montis / Sancti Bernardi versus Sabaudiam, die XIII iunii MCCCC°LVIII”. Come si può osservare nella seconda immagine sotto, la piccola “o” che dovrebbe trovarsi in apice dopo la quarta “C” è posta in alto fra la terza e la quarta.

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Al proposito può essere interessante osservare che, nella minuta di Francesco Sforza che reca il titolo “Instructio A[n]tonii de Cardano […]”, sopra quest’ultimo si legge “MCCCC°LVIII, die XXVII maii”, con la piccola “o” posta sopra la quarta “C”, la “L” che in realtà consiste in una “l” quasi del tutto priva del tratto inferiore orizzontale e senza l’indicazione della data topica, presente invece nella forma “Mediolani” nelle minute del 29 maggio e del 6 giugno. Riguardo al primo di questi ultimi due documenti, che curiosamente, a differenza di tutti gli altri della corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Cardano, si trova in una camicia intitolata “Maggio 1458, Carteggio interno, Rocca d’Arazzo”, può essere interessante osservare che all’inizio si legge: “Antonio. Tu hai inteso quello te dissemo a bocca et quanto se contene in la i[n]structione toa de quello hai a dire et operare per la relaxatione del magnifico domino Aluyse Bollero et de le terre et lochi et cose soe et deli ze[n]tilhomini de Cocona et […], perché le cose predicte ne sono tropo a core et dubitiamo pur che quello illustre signore te daga parolle se[n]za effecto come ha facto per lo passato a Conradino Zorzo, volemo che, quando haverai exposto a la signoria soa per nostra parte quanto se co[n]te[n]e in la i[n]structione predicta et sii in precincto de partirte, se tu non vederai et palparai chiaramente che […]”.

Come si può notare, è quasi impossibile non cogliere la voluta ambiguità dell’incipit del testo: il duca di Milano, infatti, non intende dire che l’argomento di quanto riferito oralmente è diverso da “quanto se contene in la i[n]structione”, ma che in un caso e nell’altro il tema “de quello hai a dire” è il medesimo, solo che in realtà “quello te dissemo a bocca”, termine significativamente separato dalla successiva congiunzione “et” con uno spazio maggiore rispetto a quello presente fra le altre parole della prima riga (e per la verità anche della seconda), in modo da dargli risalto, è diverso da ciò che si può leggere nell’istruzione. Il fatto che più avanti si accenni di nuovo all’esposizione di “quanto se co[n]te[n]e in la i[n]structione predicta” non ha alcuna importanza, perché quelle che contano sono le sibilline parole iniziali “Tu hai inteso quello te dissemo a bocca”, comunicazione a voce della quale non sappiamo nulla (è possibile peraltro che, come in altre corrispondenze, in realtà si voglia alludere a una “corrispondenza sommersa”, basata non su vere e proprie lettere, ma su “note” nelle quali si potevano scambiare opinioni per esempio sui colloqui avuti, argomento di cui parleremo in un altro testo; è chiaro, tuttavia, che non si può escludere che nel caso specifico di Antonio da Cardano lo scambio di informazioni tra lui e il duca di Milano sia avvenuto “a bocca”, necessariamente servendosi di un intermediario che abbia fatto la spola fra Milano e Torino, almeno così supponiamo, visto che in quasi tutte le missive dell’ambasciatore come data topica è indicato il capoluogo piemontese) e il cui contenuto possiamo inferire essere stato ben diverso rispetto a quello dell’istruzione, come quasi certamente ha compreso l’ignota persona che ha inserito la minuta del 29 maggio 1458 in una camicia dal titolo “Carteggio interno, Rocca d’Arazzo” (pur trovandosi all’interno della cartella Savoia 479, appartenente alla Potenze Estere; si consideri che a pagina 610 del I volume del Grande dizionario della lingua italiana il sostantivo maschile “Arazzo” viene così definito: “Tessuto eseguito a mano con tecnica particolare (avvolgendo i fili della trama […] intorno ai fili dell’ordito, che rimangono completamente coperti), variamente istoriato in tutta la sua ampiezza […] e destinato alla decorazione delle pareti”), quindi non al suo posto subito dopo l’“Instructio A[n]tonii de Cardano ad illustrem dominum ducem Sabaudie profecturi” di due giorni prima. La prima lettera dell’ambasciatore è datata “Ex Tanrino, die primo innii MCCCCLVIII”, con il numero del giorno del mese che è l’unico scritto in lettere per esteso, senza alcuna “o” riferita a una delle quattro “C” e con la “L” che presenta la linea orizzontale inferiore di una certa lunghezza (per maggiore chiarezza precisiamo che la lettera è visibile prima con il titolo “CS2”); al termine della seconda è scritto “Tanrini, die II° iunii MCCCC°LVIII”, con la data topica espressa con il genitivo locativo e non con la preponderante preposizione “Ex”, con la “o” sopra la quarta “C” e la “L” con il tratto orizzontale un po’ meno lungo rispetto alla missiva precedente.

Non può inoltre sfuggire che nel numero “II” del giorno del mese il secondo segno “I” è piuttosto lungo e alla fine di esso si trova un uncino (come se si trattasse di una sorta di “s” rovesciata): il quarto segno del numero “IIII°” della lettera datata 4 giugno si avvicina per lunghezza, ma esso consiste solo in una linea orizzontale che al termine tende verso sinistra e, al fine di sottolineare la diversità rispetto al particolare precedente “II”, la successiva “i” iniziale del mese di giugno è tracciata come una lunga asta che parte dall’interlinea superiore finendo in basso anch’essa con un uncino, anche se più aperto, oltre a essere scritta su una “i” minuscola, risultando quindi differente da tutte le altre identiche vocali iniziali del suddetto mese, che consistono in una semplice asta verticale di una certa lunghezza;

il quarto segno del numero “VIII” della missiva datata 8 giugno, di cui si è pubblicata sopra l’immagine con il titolo “CS8”, è lungo all’incirca quanto quello della lettera di quattro giorni prima, tuttavia anch’esso, oltre a non essere preceduto dal sostantivo “die”, come vedremo più avanti, finisce con un uncino come il secondo segno del numero “II”, più ampio però rispetto a quest’ultimo. Allo scopo di dare risalto a tale particolarità, la vocale “i” conclusiva del mese “innii” non consiste in una linea verticale che finisce con un uncino: quest’ultimo infatti non è semplicemente ricurvo, ma tende verso destra, chiudendosi nel punto in cui si interseca con l’asta verticale, terminando all’altezza della parte superiore delle lettere dell’ultima riga “VIII innii MCCCC°LVIII”. Un aspetto che pare mettere in evidenza la “i” finale di “innii” con l’uncino che si chiude, per così dire legandosi alla linea da cui ha origine, consiste nel fatto che la lettera la quale la precede, che senza dubbio può leggersi come una “i” per via del punto sovrascritto, nella parte superiore presenta un breve tratto rivolto verso sinistra il quale la lega alla “n”, che pertanto potrebbe anche intendersi come una “m”. Riteniamo piuttosto evidente che in questo modo si voglia creare un collegamento fra la missiva datata 2 giugno e quella di sei giorni più tardi. Proseguendo nell’esaminare le date delle lettere di Antonio da Cardano, alla fine della terza è scritto “Ex Tanrino, die III iu[n]ii MCCCC°LVIII”, con la “o” di nuovo sopra la quarta “C” e la “L” con la linea inferiore orizzontale di maggiore lunghezza rispetto alla missiva del 2 giugno.

La quarta missiva reca la data “Ex Tanrino, die IIII° innii MCCCC°LVIII”, con la “o” in alto tra la terza e la quarta “C” e la “L” il cui tratto orizzontale pare lungo quanto quello della prima missiva dell’ambasciatore e per la prima e unica volta risulta legato al numero romano “V” (l’immagine della lettera è già stata pubblicata sopra con il titolo “CS5”); la quinta lettera termina con “Ex Tanrino, die V° innii MCCCC°LVIII”, con di nuovo la “o” in alto tra la terza e la quarta “C” e la “L” con la linea inferiore un po’ meno lunga di quella della missiva precedente.

La sesta lettera, cui abbiamo già accennato e che reca il titolo “CS8”, è datata “Ex Tanrino, VIII innii MCCCC°VLIII”, senza il sostantivo “die”, che si sarebbe dovuto trovare all’inizio dell’ultima riga, la quale comincia con il numero “VIII”, volendo così richiamare l’incipit della stessa missiva, in cui si parla della Lega di Borgogna, alla quale si è accennato prima, ancora con la “o” in alto tra la terza e la quarta “C” e la “L” con il tratto orizzontale lungo come nella missiva del 5 giugno; infine si arriva alla lettera del 13 giugno, che si può vedere sopra con il titolo “CS9”, con la sua particolare data topica, piuttosto lunga, e la “L” con la linea inferiore simile a quella delle due missive precedenti. Per tornare al tema principale, risulta abbastanza evidente che con la variante linguistica “Bernceto”, scritta “Bnceto” con il suo segno abbreviativo quasi posto tra le consonenti “B” ed “n”, e quella “Brenzeto” del toponimo Sembracher si vuole creare un’associazione fra Gabriel de Bernes, cui allude la seconda variante, e il nome Bernardo, al quale rimanda la prima. A proposito del “signore de Targi” si ricordi che quasi all’inizio della seconda riga della lettera dell’8 giugno egli è menzionato come “Gabriel de Ber[n]ezio”; poi all’inizio della ventiduesima della missiva del 13 giugno si legge, riferendosi a un’altra persona, “dito domino Gabriel [de Cardona]”, mentre quasi alla fine della stessa riga è scritto “Brenzeto”, variante che, considerata l’occorrenza di “Bernceto”, la quale non a caso è unica, volendosi attirare l’attenzione su di essa, sia perché non scritta per esteso sia per il risultato cui porta lo scioglimento dell’abbreviazione, implica che in teoria potrebbe esistere anche la variante “Bernzeto”, molto simile a “Ber[n]ezio” per via dell’allitterazione iniziale, riguardo alla quale può essere interessante citare quanto scrive Angelo Marchese a pagina 18 del Dizionario di retorica e di stilistica: “L’effetto di parallelismo fonico che deriva dall’allitterazione si riflette sui significati, ad esempio sottolineando i rapporti fra le parole”; d’altra parte il toponimo e il cognome si potrebbero considerare una paronomasia, che alle pagine 234-235 dello stesso volume Angelo Marchese definisce come “una figura morfologica che si produce mediante l’accostamento di due parole con un’analoga sonorità”, aggiungendo poi che nel mottetto montaliano Non recidere, forbice, quel volto si possono considerare paronomasie gli accostamenti […] freddo-duro (gruppo / r.d.o./ /d.r.o./). Poiché Gabriel de Bernes è a sua volta in relazione con il governatore del Delfinato, al punto che nella lettera dell’8 giugno di Antonio da Cardano le parole della seconda riga “signore de Targi” sono in sostanza scritte sopra “per parte de monsignore”, fra le quali si trova nell’interlinea “dal re de Franza”, è chiaro che l’obiettivo consiste nel far capire al lettore che il nome “Bernardo” va posto in connessione con il delfino, cui rimandano i nomi Louis/”Ludovicum” del governatore del Delfinato. Inoltre, il fatto che nella data sia scritto “Ex Sancto Petro ad pedem montis Sancti Bernardi versus Sabaudiam” è a sua volta rivelatore del fatto che, se non è al suo servizio, papa Callisto III, cui allude il toponimo “Sanctus Petrus”, è sicuramente d’accordo con il delfino. Prima di riprendere le considerazioni in merito alla minuta del 13 giugno diretta a Marchese da Varese, vorremmo fare alcune altre osservazioni sulla lettera dello stesso giorno di Antonio da Cardano diretta a Francesco Sforza. Come si può notare nell’immagine sopra, la terza parola della penultima riga è “note”, la cui “n”, che per facilità di comprensione definiamo maiuscola, è diversa dalle altre poste all’inizio di parola, che invece si configurano come minuscole e di cui pare se ne contino ventiquattro. Della “n” maiuscola vi sono quattro occorrenze. L’ultima è la suddetta della parola “note”, che si trova sotto il nome “Bnardo” con il suo segno di abbreviazione ed è seguita dallo scorretto verbo “dorunrà”, il quale non può che stare per “dormirà”, volendo così rimandare al titolo “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” della minuta ducale datata 10 gennaio 1458 e destinata a Corradino Giorgi, ambasciatore sforzesco presso Ludovico di Savoia, e al fatto che in esso si vuole alludere al delfino e alla sua resurrezione, anche se ovviamente il sonno che si intende richiamare non è quello del “[m]onseg[n]ore dnca”, bensì delle “guardie” filo-Carlo VII. Si noti fra l’altro che fra la seconda e la terza riga del verso della missiva si legge: “ho domandato al dito Frassa s’el dito arzerio nominato Girardo de Gion era / rivato dal prelibato signor dnca” e che la prima parola della terza riga potrebbe leggersi anche “rinato”, perché la seconda gamba di quella che dovrebbe essere la “v” si configura come un semplice breve tratto verticale di quasi impossibile interpretazione se appartenga appunto a una “v” o a una “n”. Proseguendo nelle osservazioni, il sostantivo “note” con la prima occorrenza della “n” maiuscola ricorre anche all’ottava riga, alla quale, riferendosi al duca sabaudo, si legge quanto segue: “non vole fare dimora in villa alchuna senon / (8a riga) una note e che vada Invrea aspetarlo, done sarà lnnedì ho martedì che vene al più tarde, che poi me / darà qnela andientia che vorò”. Il suddetto sostantivo con la sua particolare “n” va collegato all’avverbio di negazione “non” che si trova alla fine della quinta riga, la quale è la seguente: “con com[i]ssione da sua signoria [Ludovico di Savoia] che s’el [“Frassa, suo camerero”] non me tronana ha Bernceto [m]e / (5a riga) aspetasse lì e dicesseme cum luy m’à dito per parte de esso signor che per ninna conditione del mondo non / devesse aspetare lì sua signoria né passare più inante per andare da essa”. Come si può notare nell’immagine sopra, la “n” finale dell’avverbio “non”, che si trova sotto le lettere “nceto” della variante linguistica “Bernceto” con il suo segno abbreviativo, consiste in una parte di poco maggiore della metà della “n” di “note”, ma come fosse scritta alla rovescia rispetto a quest’ultima, a evidenziare quanto abbiamo già sottolineato più volte, ossia che la sillaba che precede le lettere “nceto” non è “Bre” (si noti fra l’altro che poco prima della metà della seconda riga è scritto “Sancto Brenceto”), ma “Ber”. Considerato che “Bernceto” si trova sotto il sostantivo “guardia”, diviene inevitabile domandarsi se con il termine “ninna”, al cui posto dovrebbe leggersi “niuna”, che precede di poco l’avverbio “non” con la sua particolare “n” la quale rimanda a quella della parola “note” quasi all’inizio dell’ottava riga, a sua volta identica a quella dello stesso sostantivo che nel verso del foglio occupa la terza posizione della penultima riga e precede l’errato verbo “dorunrà”, non si voglia in realtà riferirsi al sostantivo femminile che a pagina 444 dell’XI volume del Grande dizionario della lingua italiana viene anche definito come la “nenia per far dormire un bambino”. L’obiezione che il salto a ritroso dall’inizio dell’ottava riga alla fine della quinta sia arbitrario non può essere accolta, perché alla fine dell’ottava riga si trova la seconda occorrenza del pronome “me”, sicuramente da trascriversi in questo modo, al termine appunto di una riga, a differenza della prima occorrenza nella stessa posizione, la quale sappiamo potersi leggere anche “rne” (la terza occorrenza, senza dubbio corrispondente a “me”, è alla fine della dodicesima riga, che inizia menzionando “Gabriel da Cardona”, il quale ricorda “Gabriel de Ber[n]ezio” della lettera dell’8 giugno). Alla fine della settima riga è poi scritta la congiunzione “senon”, abbreviata “seno” con una linea sulle lettere “no”. Quest’ultima ricorre altre due volte nel testo: la seconda costituisce la quinta parola, scritta per esteso “senon” e quindi al proposito da non prendere in considerazione; la terza è invece di nuovo abbreviata “seno” con una linea sulle lettere “no” ed è collocata anch’essa al termine di una riga, ossia la trentesima, che è la seguente: “disseme [“esso domino Gabriel”] per parte / (30a riga) del prefato signor dnca cum me ha dito Frassa ut supra. Gli respoxe non volena da sna signoria senon / quelo gli era de piacere, ma che gli recordana ben quelo me havenano dito loro de Co[n]silio”. Che la posizione della congiunzione “senon” sia significativa è confermato dal fatto che il pronome “me”, sesta parola della riga, si potrebbe leggere “rne”, vale a dire come il pronome alla fine della quarta riga (delle circa venti occorrenze di “me” si tratta degli unici due casi con questa caratteristica così chiara, che riteniamo invece del tutto assente nelle altre occorrenze o comunque assolutamente meno evidente). La ragione della variante linguistica con il segno abbreviativo per la lettera “n” alla fine della settima riga dipende dal fatto che sopra di essa, al termine della sesta riga, si trova la sbagliata variante linguistica “andie[n]tia” del sostantivo “audienza”, con una “u” o una “v” al posto proprio della corretta “n” (che per questo motivo, come al solito, abbiamo posto fra parentesi quadre). Quindi sopra “andie[n]tia”, alla fine della quinta riga, si trova la congiunzione “non” con la “n” finale scritta in modo particolare da porre in relazione con la “n” iniziale del sostantivo “note”, seconda parola dell’ottava riga. Inoltre l’avverbio “non” con la solita “n” maiuscola che costituisce la terza parola della ventitreesima riga conferma che quanto osservato a proposito della particolare “n” finale della congiunzione “non” posta in parte sotto le lettere “nceto” di “Bernceto”, variante del toponimo Sembracher da riferirsi a “[Gabriel de] Ber[n]ezio” seguita da “me/rne”, è corretto, perché essa si trova sotto il nome “Gabriel [de Cardona]”, terza parola della ventiduesima riga il cui penultimo termine è significativamente “Brenzeto”. Un ultimo caso di “n” maiuscola, anche se meno vistosa, si trova all’inizio della trentaseiesima riga nella “n” di “Nondimeno”. Il testo è il seguente: “(36a riga) Nondimento, non podendo fare altramente, havria pacientia sino zobia. Dopoi, non podendo hanere andientia, / me ne retor[n]aria per la via donde son vennto. Ho mostrato con dito domino Gabriel che aspetarò dito signor / in Angusta, ma io voglio fare el co[n]trario, che zobia matina me presentarò denante esso signor al / calare zoxo del monte ala hostaria de Sancto Romeo ultra el monte e con quanta più honestate poterò / sforzarome hanere andientia”. Il passo sopra riportato è significativo per vari motivi. Alla fine della riga si trova una delle non poche occorrenze della scorretto sostantivo “andientia”, che si presenta però, unico caso, scritto “andietia” con un segno abbreviativo posto sulle tre lettere finali. Si noti che l’ultima parola della trentacinquesima riga è il corretto termine “audientia”, a voler sottolineare che le lettere “andietia” con il loro segno abbreviativo devono essere messe in relazione con la congiunzione “seno” con il segno abbreviativo alla fine della settima riga e con la parola “andie[n]tia” al termine della sesta riga che si trovano sotto l’avverbio “non” con la seconda “n” scritta in modo particolare da collegare a “Bernceto”. A conferma di quanto appena affermato in “altramente” la prima gamba della “m” si potrebbe intendere come una “r”, ossia come se ci trovassimo di fronte alla solita alternativa “rn”. Bisogna poi rilevare l’errata forma “dopoi”, che non a caso si trova sopra “Gabriel [de Cardona]”. Al proposito è opportuno notare che al lemma “Dappoi”, presente a pagina 21 del IV volume del Grande Dizionario della lingua italiana, viene data come unica alternativa “da poi”, non “dopoi” o qualcosa di simile. Quello che si vuol far capire è che il cardo del castrum cui rimanda il toponimo “Angusta”, che però si trova scritto anche nella forma corretta “Augusta”, a voler sottolineare che esso può stare sia per Augusta Taurinorum, ossia Torino (da cui ha scritto sino a quel momento Antonio da Cardano o, per essere più precisi, da “Tanrino”) sia per “Augusta Praetoria”, vale a dire Aosta, e cui allude il cognome di Antonio da Cardano (al decumano rimandano le dieci prese e la lettera inviata da Ludovico di Savoia il 12 giugno di passaggio da San Maurizio Agaunense; ad Agaunum verso il 286 d.C. si svolse la vicenda dei martiri della Legione Tebea, composta da egiziani cristiani sotto il comando di Maurizio e affidata a Massimiano: a causa della disobbedienza dei soldati tebani quest’ultimo comandò di sottoporli alla decimazione, consistente nell’uccisione di un soldato su dieci; la legione, incoraggiata da Maurizio, rifiutò di eseguire altri ordini, e fu comandata una seconda decimazione) deve essere letto alla rovescia, come la corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi, avendo come punto di riferimento “Gabriel de Cardona”, le cui tre lettere finali di “Cardona” sono il contrario di quelle di Cardano. Chiariamo che non deve stupire che per questo scopo sia stato scelto Antonio da Cardano, perché era l’unico fra gli officiali o i “famigli cavalcanti” sforzeschi il cui cognome presentasse un chiaro riferimento al cardo e si prestasse al gioco del contrario, per così dire, rispetto a Cardona. Per questo motivo si legge nel testo: “io voglio fare el co[n]trario”. A proposito di “Angusta”, precisiamo che nel testo vi sono due varianti linguistiche e una di “Augusta”. La prima delle due è preceduta dalla preposizione “in” con la seconda gamba della “n” piuttosto lunga. In realtà la prima lettera potrebbe essere letta come una “n” e il terzo segno come qualcosa di non ben chiaro, ma riteniamo che il punto sovrascritto tolga ogni dubbio. Il secondo caso del toponimo “Angusta” è sicuramente preceduto da “in”, perché le due lettere sono staccate e chiare e la seconda gamba della “n” è sempre lunga; l’occorrenza di “Augusta”, che si trova fra le altre due, è sicuramente preceduta dalla preposizione “in” con il punto sovrascritto e la seconda gamba della “n” è un po’ più breve. In questo modo si intende appunto alludere all’ambiguità di “Angusta”/“Augusta”, che può intendersi sia per Augusta Taurinorum sia per Augusta Praetoria. D’altra parte l’epistolario di Antonio da Cardano è messo sotto il segno del delfino sin dall’inizio. Non è il caso di dilungarsi qui sull’argomento, ma la prima lettera del recto della carta 40 del Registro delle Missive 44 è diretta “Antonio da Cardano” e datata 31 maggio 1458, quattro giorni dopo l’istruzione per l’ambasciatore, e in essa si legge: “Dappoy che tu sey posto in camino, havemo recevute lettere dali gentilhomini da Cochonate per le quale essi ne scriveno de alcune robarie et vexatione che mo novamente gli ha facto Bonifatio da Castegnola, le quale lettere, per più tua meiora informatione, te le mandiamo qui alligate. Pertanto volemo che tu debbi mettere questa novitate insieme cum le altre quale hay ad dire allo illustre signore ducha de Savoya et, cum primum seray gionto da soa signoria, exponiraglila insieme cum le altre, exeque[n]do exi[n]de il tutto secundo che tu hay in commissio[n]e da nuy, che certo, se dovessemo nuy mettergli la persona nostra, non deliberamo comportare più a modo alcuno cum tale nostra vergogna et cum ma[n]camento del nostro honore cotalle insollentie, che a nuy pare seriano sufficiente ad omnis heremito fare perdere la pacientia”. La “s” depennata di “omnis” è da collegare all’eremita per eccellenza, ossia Sant’Antonio, e d’altra parte la lettera è diretta “Antonio de Cardano” e si ricordi che la meta iniziale del viaggio di Alessandro Sforza era stata Sant’Antonio di Vienne nel Delfinato.

A conferma di quanto scritto si consideri che nel recto della carta 21 in una lettera diretta “Petro de Gallarate” e datata 30 aprile è scritto: “Per tua consolatione te advisamo como questa matina in ortus solis la illustrissima madonna Bianca, nostra consorte, ne ha parturito uno bello putto et così segondo el caso essa nostra consorte cum lo puto stano bene, per la Dio gratia, et sonno in bona convalesentia”, con la “s” di “ortus” depennata.

Ancora più esplicito pare il caso della missiva riportata nel recto della carta 35, diretta “Domino ducis Sabaudie” e datata 27 maggio, all’inizio della quale si legge: “Mittentes ad excellentiam vestram nobilem familiarem nostrum dilectum Antonium de Cardano, presentium latorem, sibi nonnulla commisimus eidem, nomine nostro, viva voce referenda”. È evidente che con il passaggio da “ducis” a duci” si vuol far capire che non ci si rivolge più al “signore del duca di Savoia”, ossia a Carlo VII, ma al “signore duca di Savoia”, che è stato liberato dalla condizione verso il re di Francia di “subiectione”.

Si arriva poi al recto della carta 40 con la “s” di “omnis” depennata, che, considerate le occorrenze precedenti, non si può in alcun modo considerare casuale. A conferma che la corrispondenza fra Antonio da Cardano e Francesco Sforza è posta sotto l’egida del delfino e va letta alla rovescia secondo l’indicazione fornita con il nome di “Gabriel de Cardona”, vi è anche il fatto che, subito dopo avere menzionato quest’ultimo, viene citato “Stefano Scaglia”, il cui cognome non costituisce solo la terza persona del verbo scagliare, ma si può intendere anche come un sostantivo, del quale come primo significato a pagina 741 del XVII volume del Grande dizionario della lingua italiana si legge “Ciascuna delle formazioni lamellari di natura connettivale che formano il dermascheletro dei Pesci […] squama”. Si consideri che come prima citazione si fornisce un esempio tratto dall’Inferno di Dante. Il concetto di pesce, e quindi il riferimento al delfino, viene indirettamente ripreso con il riferimento al verbo “scagliare” alla fine del recto della lettera del 13 giugno, dove, per dare maggiore risalto, si legge: “ala mia ve[n]uta in queste parte tronay a Ginasso uno arzerio de”. Per proseguire, può essere interessante approfondire altri aspetti delle circa quattro righe conclusive già menzionate della lettera, partendo dalla terz’ultima e anche citando le righe precedenti, dalla quint’ultima riga del recto della lettera sino circa all’inizio della quinta del verso, che proponiamo qui di seguito: “Illustrissimo signor, io credo che, prima lo prefato signor me daga andientia, ch’el voglia / hanere havuto resposta da soy .. ambasiatori venuti ha Milano, che verissimilmente al dito termino che / l’à tolto de prestarme andientia porà hanere hannto loro resposta de qnanto hanrano fato ha Milano, /de che m’è parxo darne aniso ala signoria vostra. E la cason perché io penso che lo prefato signor differisca darme così presto a[n]dientia è questa: che ala mia ve[n]uta in queste parte tronay ha Ginasso uno arzerio de / Iohanne Lornati, quale vene con mi in compagnia. Passato Mo[n]tegioneto, poi se ne vene via batendo, / che non l’ò mai pin visto. Ho domandato al dito Frassa s’el dito arzerio, nominato Girardo de Gion, era / ri[v]ato dal prelibato signor dnca. Disseme de sì e che, quam prinum dito arzerio fu ala presentia d’esso sno signor, / statim sna signoria comandò al dito Frassa veg[n]esse aspetarme ha Brenceto, cum ha fato, che me pare / me hanesse drieto la spia”. Non possono lasciare indiffenti le “m” di “[m]onseg[n]ore” e “do[m]a[n]e”, le quali è possibile leggere come le due lettere “in” da mettere in relazione con la terza posizione della riga, occupata dal nome “Bernardo”, scritto “Bnardo” con il segno abbreviativo che trasforma la consonante “B” nella sillaba “Ber”. Anche se parrebbe potersi stabilire una relazione con la quarta riga, nella quale, come sappiamo, la parola “miser”, con la sua “m” che può leggersi allo stesso modo “in” e la sua “s” tagliata da una linea obliqua, è da associare alla variante linguistica “Bernceto”, la quale è il penultimo nome della stessa riga, in realtà non sarebbe corretto, perché con la vocale “i” non legata alla “n” delle parole “[m]onseg[n]ore” e “do[m]a[n]e” si vogliono sottolineare per contrasto le caratteristiche particolari della “n” del verbo “sequendo”, posto alla fine della riga, che non a caso la rendono un caso unico nella missiva. Nella riga non hanno quindi alcuna importanza i casi di “dnca” e “qnale”, perché contano solo quelli segnalati. La “n” di “sequendo” richiama la “n” del nome “Gion” che occupa la penultima posizione della seconda riga del verso della lettera, anche se non è identica, per il semplice fatto che non si trova alla fine della parola e quindi la sua seconda linea non si allunga sino a terminare nell’interlinea, fatto che non a caso accomuna la “n” di “Gion” a quella di un altro nome, l’unico con questa caratteristica nella lettera dell’8 giugno, ossia “Giaton” nell’espressione “monsegnore de Giaton, gubernatore del Delfinato” presente nella seconda metà della terza riga della missiva di Antonio da Cardano. In sostanza, come nella lettera del 13 giugno “Brenzeto” richiama “Gabriel de Ber[n]ezio” della missiva dell’8 giugno, a sua volta in modo per così dire speculare “Gion” si riferisce a “monsegnore de Giaton, gubernatore del Delfinato”, che sappiamo era Louis/“Ludovicum” de Laval, il quale rimanda al delfino. D’altra parte sappiamo anche che “Giaton” è un toponimo ambiguo, perché a una lettura superficiale si potrebbe pensare che si riferisca a Châtillon presso Aosta, mentre in realtà allude all’attuale comune di Châtillon-en-Vendelais, situato non lontano da Rennes. Questa ambiguità rafforza quella rilevata relativa ad Augusta Taurinorum e Augusta Praetoria e il suo rimando ai due castra romana, di cui cercheremo di fornire una spiegazione. A questo proposito pare significativo il fatto che la preposizione “in” prima di “compagnia”si caratterizzi per una seconda gamba dalla “n” molto corta, simile, anche se più breve, a quella che si trova prima di “Augusta”. In ogni caso, poiché il delfino, cui rimanda il governatore del Delfinato, rimanda a Gesù, è chiaro che il di pochissimo successivo participio “rivato”, che si può leggere anche “rinato”, assume un senso ben preciso, così come l’errato verbo al futuro “dorunrà” che si trova quattro righe più in basso. Al proposito si rifletta anche sul fatto che l’“arzerio” cui si accenna alla fine del recto della lettera, che per il tramite della terza persona del verbo al presente indicativo “scaglia” rimanda al pesce”, si trova scritto prima di “nominato Girardo de Gion”, a rinforzare la successione “arzerio”-“Gion”/“Giaton”- Louis/“Ludovicum” de Laval-delfino/Gesù. Prima di tornare alla minuta del 13 giugno diretta a Marchese da Varese, vorremmo spiegare il motivo per cui riteniamo si insista sul concetto di castrum. Per comprenderlo, è necessario prendere le mosse dal concetto di “geografia alla rovescia” di cui si è già parlato altrove. In una missiva datata 23 dicembre 1458, dopo avere ribadito la richiesta della polvere narcotizzante da parte di Ludovico Bolleri, Corradino Giorgi precisa che “fa perché vorebe fugire, […], et vorea piglare una de doe vie”. Queste ultime sono le seguenti: “l’una vorea andare a capitare a uno locho che sce chiama Saselo, qual hè lonze de qui doe lege, è supra il Rodeno he ly vorea havere una bona fusta con sey navaroli galiardi, scorti de l’aqua he scecuri, forniti de reme, de victualia et de ogni altra cossa necessaria per doy dy, he vorea venire suxa per Rodeno et non dice unde, né più ultra, l’atra via hè andare a Buseria, ch’è in del Dalfinato, hed è lonze de qui octo lege e bisogna capitare prima a Zambalero, dove sono lege zinque de qui, he a questa Buseria vorea havere una fusta, como ho sopra dicto, per inscire per aqua, però dubita che queli del Dalfinato non lo reteneseno, he non dice né unde vogle capitare, né che, né como, como di sopra”. In sostanza Ludovico Bolleri vorrebbe dirigersi a “Saselo” (si tratta di Seyssel, nell’Alta Savoia), sul Rodano, o a “Buseria” (la Buissiere, sull’Isère, circa venticinque chilometri a sud di Chambéry), nel Delfinato. In questi luoghi avrebbe bisogno che il duca gli metta a disposizione “una bona fusta con sey navaroli galiardi, scorti del’aqua he scecuri, forniti de reme, de victualia et de ogni altra cossa necessaria per doy dy”: nel primo caso per risalire il Rodano, partendo da “Saselo”, nel secondo “per inscire per aqua”, dopo avere raggiunto “Buseria”. Il problema è che nella minuta del 18 gennaio, dopo avere segnalato la ricezione della lettera del 23 dicembre precedente, Francesco Sforza riassume le “doe vie” in modo del tutto errato, scrivendo: “te / havemo mandato la polvere da fare dormire che tu / ce richiede, ma, perché hora tu ne scrivi che par / miser Aluyse dice che, venendoli facto el modo ch’el cercha / de fugire per la via de dicta polvere […/…], el voria pigliare una de doe vie, zoè andare / a Sasello overo ad Busena nel Dalphinato per le via via del fiume del Rodano mediante la provisione d’una / barcha fornita d’homini et de victualie etc., dela quale / barcha voria che nuy facessemo la provisione”. Si noti che in due casi significativamente Francesco Sforza utilizza il termine “barcha” al posto di fusta; inoltre, sempre in maniera significativa, in modo da darle rilievo, la parola “barcha” è l’unico sostantivo ripetuto all’inizio di due righe consecutive di tutta la minuta, ossia la tredicesima e la quattordicesima, ed è posto nel margine destro dove, come ultima parola della quattortidicesima riga si legge “primum” e poi subito di seguito si aggiunge “che non haveremmo / el modo de providere / de dicta barcha / ma”.

In più il duca di Milano inverte le caratteristiche geografiche del percorso delle “doe vie”, che prevedevano il raggiungimento di Seyssel o la Buissiere per terra e il proseguimento dela fuga per fiume, sostenendo fantasiosamente che Ludovico Bolleri vorrebbe prima “andare a Saselo overo ad Busena nel Dalphinato per la via del fiume del Rodano”. Francesco Sforza compie inoltre un altro sbaglio: simulando di essere ingannato dal fatto che nella lettera del 23 dicembre si accenna solo al Rodano, accosta tale fiume a la Buissiere, mentre quest’ultimo comune si trova sull’Isère. Quanto appena esposto induce a ritenere che nella minuta ducale del 18 gennaio si voglia alludere all’attraversamento del Rodano compiuto da Annibale, il cui patronimico era Barca, che era stato il soprannome del padre e significa “Saetta”, descritto nel XXI libro di Ab Urbe condita di Tito Livio e avvenuto nella seconda metà del 218 a.C. Quanto scritto nella terza lettera in cifra del sacco, datata 23 gennaio, conferma quanto appena esposto. Senza entrare troppo nei particolari, in essa è scritto “uno d Scipione”, ma all’undicesima riga della decifrazione si legge “uno da Scipione”.

La differenza non è da poco. Per comprenderla, bisogna considerare che prima, all’ottava riga della decifrazione, si trova “dicto d. Umberto” con la lettera “d.” che sta per la parola “domino”, mentre significativamente nella lettera in cifra è scritto “dicto misir Umberto”, con l’intento di evidenziare che, se nella decifrazione la “d.” sta per “domino”, analoga considerazione deve valere per la “d” prima di “Scipione” della lettera in cifra, che però è stata decifrata “da”. È evidente che si vuole giocare sul fatto che “Scipione” può corrispondere sia a un cognomen dell’antica Roma sia a un borgo che si trova nell’omonima frazione di Salsomaggiore Terme, comune distante una trentina di chilometri da Parma, che si caratterizzava per la presenza di un castello, ben conservatosi sino ai giorni nostri. Considerato che sotto “uno da Scipione” si trova “una assalto”, non si può escludere ci si voglia riferire a Publio Cornelio Scipione Emiliano, che nel 146 a.C. distrusse Cartagine dopo un lungo assedio (l’utilizzo del termine “assalto” farebbe pensare più a questo evento storico che alla battaglia di Zama avvenuta nel 202 a.C. nella quale Publio Cornelio Scipione Africano sconfisse Annibale). Si noti che che nel sito online del castello di Scipione si legge che “La leggenda vuole che il Castello debba il suo nome ad una preesistente villa romana costruita da consanguinei di Publio Cornelio Scipione l’Emiliano, il generale che annientò Cartagine”, ma naturalmente bisognerebbe stabilire quanto essa fosse diffusa alla metà del Quattrocento. In sostanza pare comunque determinante che con “Scipione” ci si possa riferire non solo a “un borgo […] che si caratterizzava per la presenza di un castello” ma anche “a un cognomen dell’antica Roma”, particolarmente implicato nella vicenda di Annibale, che fra l’altro nel 218 a.C. nella battaglia del Ticino sconfisse Publio Cornelio Scipione, il padre di Publio Cornelio Scipione l’Africano. Il messaggio che si intende comunicare è che in Italia, rispetto a Giovanni d’Angiò, il quale si apprestava ad attaccare il Regno di Napoli, il delfino Luigi risulterà vittorioso come Annibale. Quanto scritto è confermato anche dal fatto che nella lettera in cifra del sacco del 26 gennaio manca del tutto il tema della “barcha”, che invece nella minuta del duca di Milano datata 18 gennaio cui l’inviato pare rispondere risulta in primo piano, al punto che, come abbiamo visto, in essa Francesco Sforza, dopo avere riassunto la lettera del 18 dicembre precedente, scrive: “primum che non haveressemo el modo de providere de dicta barcha”. Si vuole così far capire che il tema di Annibale non è estraneo a quello della “geografia alla rovescia” presente nella minuta ducale, per comprendere la quale è necessario rifarsi alla lettera di Corradino Giorgi datata 23 dicembre 1457 di cui nella stessa minuta si segnala la ricezione. Nella sua missiva l’ambasciatore ribadisce che Ludovico Bolleri ha rinnovato la richiesta della polvere narcotizzante, di cui l’inviato aveva già parlato nella sua lettera del 16 dicembre, “et fa perché vorebe fugire […] et vorea piglare una de doe vie”. Il segnale della “geografia alla rovescia” serve per richiamare l’attenzione del lettore sul significato dei toponimi “Saselo” e “Buseria”. “Saselo”/Seyssel rimanda al maresciallo filofrancese “Iohannes de Seiselo”/Jean de Seyssel, a capo del partito che ha condotto Ludovico di Savoia “a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero”, come si legge in una lettera del 14 marzo. “Buseria”, corrispondente all’attuale la Buissiere, deriva dal latino buxus, in italiano bosso, divenuto il francese buis: il buis bénit è l’ulivo benedetto distribuito nelle chiese la Domenica delle Palme, che è la domenica che precede la Pasqua e apre la Settimana Santa nella quale si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Il Vangelo di Giovanni racconta che, mentre Gesù si avvicinava a Gerusalemme, la folla, presa da entusiasmo, lo accompagnò alla Città Santa agitando rami di palme, fra l’altro gridando: “Osanna benedictus qui venit in nomine Domini rex Israhel” (Io 12,12-15). Attraverso il riferimento alla Domenica delle Palme “Buseria”/la Buissiere rimanda dunque alla Pasqua (la quale celebra la Resurrezione di Gesù, ossia il suo passaggio da morte a vita e il passaggio a vita nuova per i cristiani, chiamati a risorgere con lo stesso Gesù, ed è legata alla Pasqua ebraica, la quale a sua volta celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù sotto gli egizi grazie a Mosè), il cui reale significato nella “storia alla rovescia” è di simbolo della liberazione del duca sabaudo. Nella parte iniziale di una lettera datata 14 marzo Corradino Giorgi riferisce infatti di essersi “trovato cum uno notabile zentilomo de questo paise, lo quale ha nome Glaudio de Langino”. L’ambasciatore continua in questo modo: “dice havere casone de conferire cum la signoria vostra per par de una bona parte deli zentilomini he baroni de questo paise de Sabaudia e de dire cose ala signoria vostra le quale ve piazeranon, ma che non vrea venire se non havese qualche casone honesta et legiptima scusa de venire, et dice che hano deliberati queli che lo voleno mandare de prendere questa via, videlibet che la signoria vostra gli faza una littera de familiaritate tanto ampla quanto scia posibile et cum ie preminentie e prerogative e specificatione de salario como se fose vero famiglo dela signoria vostra, rechedendoli che a suo piazere vegna dala signoria vostra, quale gli fa servare il locho suo et mandare lì una litera de passo per quatro ho sei cavali in forma favorevele, he che, habuta la litera predicta, venerà dala signoria vostra, la quale intenderà quelo referarà, et poi, monstrando de venire ad prendere ordine ali facti soi, retornerà da questi soi e, secondo troverà la mente dela signoria vostra, se procederà ala conclusione […] me prega pregasse la signoria vostra che, volendo concedere dicte littere, facesse presto e che le havese de qua da Pasqua, però che la memoria havea a confrire con la signoria vostra era de tale natura ch’era bisogno de celere e breve expeditione e che, non havendo dicte littere al termino soprascrito, non poterebe venire dala signoria vostra et ali soi sarebe forza prendere altro partito”. Qui preme rilevare che “Glaudio de Langino” prega l’inviato ducale “pregasse la signoria vostra che, volendo concedere dicte littere, facesse presto e che le havese de qua da Pasqua”, perché “la memoria havea a confrire con la signoria vostra era de tale natura ch’era bisogno de celere e breve expeditione e […] non havendo dicte littere al termino soprascrito, non poterebe venire dala signoria vostra et ali soi sarebe forza prendere altro partito”, ossia aderire al partito filo-Carlo VII, che ha condotto Ludovico di Savoia “a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero”, come riportato sopra. Rispetto al duca sabaudo la festa di Pasqua, che nel 1458 cadde il 2 aprile, diviene dunque simbolo di liberazione. Con la “geografia alla rovescia” il duca di Milano sottolinea così i valori opposti di “subiectione” e liberazione impliciti nei toponimi “Saselo” e “Buseria”. Vi è però di più. In una lettera del 5 aprile, quando ormai i giochi sono fatti, perché Ludovico di Savoia è stato liberato il 28 marzo precedente, Corradino Giorgi esordisce scrivendo che “a dy octo del prescente debe retrovarsse da questo signor XXX uno ambasciatore del duca de Borgogna, lo quale sce apella lo conte de Stampes, et sce dice che vene per intendere la voluntà he opinione de questo signore, sc’el vole essere franzoso ho borgognono, e vene bem cum cinquanta cavalli”. L’alternativa espressa dalle parole “sc’el vole essere franzoso ho borgognono” rimanda alle “doe vie” della lettera del 23 dicembre con l’alternativa espressa dai toponimi “Saselo”-“Buseria”, solo che, come detto, si simula che l’ambasciatata di Jean de Bourgogne, conte d’Estampes, arrivi in ritardo, perché il duca sabaudo è già stato liberato la settimana precedente dalla condizione di “subiectione” verso il re di Francia e ha scelto di essere, più che “borgognogno”, filo-delfino Luigi e quindi anti-Carlo VII. In sostanza, fra la propria “subiectione” al re di Francia e la sua liberazione Ludovico di Savoia ha optato per la seconda e il Gesù/delfino Luigi risorto lo ha liberato, accingendosi a replicare in Italia, a differenza di Giovanni d’Angiò, che si prepara ad attaccare il Regno di Napoli, i successi di Annibale, avvertimento che in prospettiva, essendo egli destinato a divenire re di Francia, non può che essere inteso come un minaccioso avvertimento. Vi è poi un’ultima considerazione da compiere in merito alla seconda e alla terza lettera del sacco. Nella prima datata 21 gennaio si legge: “me sforzarò de fare che lo magnifico habia ogni cossa, il che dubito me sarà dificile, perché sono scechate le vie, como vostra signoria intenderà più largamente per quele mie porta il cavalaro”. La missiva cui ci si riferisce è quella del 19 gennaio, nella cui parte finale è scritto: “sapia vostra signoria che la via havea de avisare domino Aloyse he esso my hè tagliata, però ch’el famiglio quale portava le lettere hinc inde hè retenuto asay più strecto che domino Aloyse”. Rispetto alla lettera del 21 gennaio, quella del 23 contiene un elemento in più. In essa si legge infatti: “me sforzarò fare che lo amico habia ogni cosa e ch’elo intenda el modo ha a servare, il che dubito me sarà dificile, però che m’è sechata la via, como per altre ho scripto h la signoria vostra mandate per la via de queli del conto Franchino he anchora per lo cavalaro”. Come abbiamo visto, quest’ultimo riferimento al “cavalaro” allude alla missiva del 19 gennaio. Esso però è preceduto dall’accenno a “queli del conto Franchino”, che sembra ricondurre alla minuta di Francesco Sforza datata 11 gennaio, appartenente alla serie delle “prese”, nella quale è scritto: “Havemo ricevuta la tua lettera in zifra, la quale ne hai mandato per la via de quelli del conte Franchino Rusca, et havemo inteso quanto tu scrivi et ne comendiamo la diligentia tua et non te facemo altra risposta al presente, perché per altre nostre lettere haveray inteso quello che hay ad fare, ma solo te mandiamo lo presente nostro cavallaro cum la polvere da fare dormire che tu ne hay richiesta”. Il duca si riferisce alla lettera di Corradino Giorgi del 16 dicembre precedente, la quale tuttavia non contiene alcun accenno a difficoltà di comunicazione con Ludovico Bolleri perché “è sechata la via”. Questa constatazione costituisce un ulteriore elemento che non consente di accostare la lettera del 23 gennaio alla serie delle “prese”. Tuttavia è evidente che vi è un errore nella lettera del 21 gennaio, perché l’informazione relativa a Franchino Rusca avrebbe dovuto essere presente anche in essa: a questo punto viene da chiedersi se non si tratti di una sorta di riferimento bibliografico al libro XXI di Ab Urbe condita di Tito Livio. Al proposito senza dubbio è curioso che al v. 12 del canto XXVIII dell’Inferno di Dante si legga: “come Livio scrive, che non erra” al termine delle due terzine “S’el s’aunasse ancor tutta la gente / che già in su la fortunata terra / di Puglia fu del suo sangue dolente / per li Troiani e per la lunga guerra / che de l’anella fe’ sì alte spoglie, / come Livio scrive, che non erra”, dedicate alla seconda guerra punica, “durata sedici anni, di cui Dante indica il momento culminante nella battaglia di Canne, al termine della quale i Cartaginesi con gli anelli d’oro strappati dalle dita dei Romani caduti formarono un cumulo di tre moggia, secondo che narra Livio, XXIII 7 e 12” (citazione di Natalino Sapegno). Per concludere la parentesi aperta in merito ad Annibale, può essere il caso di notare che nella lettera del 13 giugno è come se si chiudesse il cerchio: i toponimi “Angusta”/“Augusta” alludono infatti a due castra romani, Augusta Taurinorum e Augusta Praetoria, sorti nel I secolo a.C.; poi a pagina 743 del XVIII volume del Grande dizionario della lingua italiana si dice che il verbo “scagliare” può significare anche “far cadere un fulmine” e “Saetta” era il soprannome dato ad Amilcare, padre di Annibale, poi mantenuto dal figlio come patronimico; si noti quindi che a pagina 627 del I volume dello stesso Grande dizionario del sostantivo “arciere”, di cui alla fine della missiva ricorrono tre occorrenze a breve distanza l’una dall’altra, si fornisce il seguente particolare senso: “Mitol. Denominazione di Amore (come dio armato d’arco e di saette)”. Considerato quanto scritto, riteniamo che i riferimenti ai castra romani di “Angusta”/“Augusta” si vadano a saldare con il cognome “Scaglia” nel suo duplice alludere indirettamente da un lato tramite la triplice ripresa del sostantivo “arciere” al pesce, ossia al delfino, rinforzando l’ambiguità del toponimo Giaton, derivato da Gion, dall’altro sempre mediante il termine “arciere” al concetto di “saetta” e quindi ad Annibale Barca e allo scompiglio dal lui portato in Italia al tempo della seconda guerra punica. A questo punto, dopo le lunghe parentesi trattate, per le quali ci scusiamo, e senza affrontare il caso dell’avverbio “verissimilmente”, scritto in modo curioso circa al termine della quart’ultima riga del recto della lettera di Antonio da Cardano del 13 giugno, in relazione alla “resposta de qnanto hanrano fato a Milano” gli “ambasciatori” sabaudi inviati nel capoluogo lombardo (è chiaro che, poiché la corrispondenza di Antonio da Cardano va posta sotto il segno del delfino e letta alla rovescia, si vuole far capire che in realtà Francesco Sforza e Ludovico di Savoia si sono alleati all’interno della più vasta Lega di Borgogna) e dell’espressione “la cason perché io penso che lo prefato signor differisca darme così presto a[n]dientia è questa”, nella quale l’avverbio “così” pare quanto meno pleonastico, se non proprio errato, possiamo tornare alla minuta del 13 giugno diretta a Marchese da Varese, rispetto alla quale si ha la conferma che, quando si legge dell’ambasciatore che “vene da Zenoa, quale è però vechio, per essere stato parechi dì a Novi per respecto del morbo è in Zenoa”, con un implicito riferimento a “Claravalle” e all’abbazia, dove Daniele Arrighi si era intrattenuto dai primi giorni di giugno, si vuole alludere a Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’abbazia e, come detto sopra, originario della Borgogna, e quindi al delfino Luigi, che si trovava presso il duca Filippo il Buono. Un’ulteriore conferma di quanto scritto viene dal prosieguo della minuta, nella quale si legge: “Da Napoli havemo per lettere de dì II del presente come la maiestà del re stava bene et che deveva andare ad Gayeta per respecto al morbo è in Napoli”. Come si può notare, le parole “per respecto al morbo è in Napoli” riprendono i termini “per respecto del morbo è in Zenoa” riferiti a Daniele Arrighi. A differenza di quanto si sarebbe indotti a pensare, le “lettere de dì II del presente” “Da Napoli” non possono essere identificate con alcuna missiva di Antonio da Trezzo. Nell’incipit di una lettera del 5 giugno quest’ultimo scrive infatti: “Per lettere de XXX del passato la excellentia vostra fo avisata come in quello dì haveva recevuto lettere de la excellentia vostra de dì XX”. Non esiste pertanto alcuna missiva di Antonio da Trezzo datata 2 giugno, anche se può essere il caso di rilevare che all’inizio del secondo capoverso della stessa missiva del 5 giugno, che il 13 successivo il duca di Milano non pare avere ricevuto, l’ambasciatore a Napoli scrive: “Scripsemo el vescovo et mi che la maiestà del re era come reducta ad sanità non supervenendoli altro; doppo la partita d’esso monsignore sonno pur ad essa maiestà supravenuti alcuni accidenti de febre et dolore de fianchi; da dui dì in qua pare che essa maiestà sia stata meglio”. Sarebbe quindi dal 3 giugno che il sovrano starebbe “meglio” e non dal 2 dello stesso mese. En passant notiamo che all’inizio del terzo capoverso della missiva del 29 maggio cui Antonio da Trezzo si riferisce, si legge: “Hogi siamo stati presenti quando el re ha manzato, la cui maiestà, per quanto io vescovo possa comprehendere, me pare che sia reducta ad sanità de questo male, non succedendoli altro”. Fra l’altro alla fine del capoverso precedente è scritto: “La prefata maiestà del re pur se extese in dirne quanto el senteva de li apparechi se fanno contra la maiestà del re de Franza sì da inglesi come dal delfino, inferendo che sua maiestà haverà tanto da fare a casa sua che poco potrà attendere ad le cose de Zenoa”. In ogni caso, tornando alla connessione tra le parole “per respecto del morbo è in Zenoa” riferite a Daniele Arrighi e a quelle “per respecto al morbo è in Napoli” in relazione alla “maiestà del re”, il fatto che riguardo a queste ultime, ribadiamo da associare alla “maiestà del re”, si dica genericamente che si tratta di informazioni provenienti “Da Napoli” e non da Antonio da Trezzo, significa che le prime, all’opposto in relazione a un personaggio chiaramente identificato, prima definito “ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa”, devono essere intese rispetto a un’altra “maiestà”, ossia Carlo VII, cui si allude, come si è scritto, insinuando che è “vechio”. A questo punto, però, non si può non notare che in base all’informazione presente nella lettera di Antonio da Trezzo datata 5 giugno, quella relativa ad Alfonso il Magninimo fornita nella minuta ducale non corrisponda al vero. Al proposito può essere interessante osservare che qualcosa di simile si verifica già nella minuta ducale diretta a Marchese da Varese datata 10 giugno, all’inizio della quale, con l’intento, che non è il solo, di ancipare l’errato “Datum” finale della minuta del 13 giugno, la data è ripetuta due volte: in alto a sinistra si legge infatti “Mediolani, X iunii 1458” e al centro, all’incirca sopra il destinatario “Marchesio de Varesio”, “Mediolani, die X iunii 1458.

Nel secondo capoverso di essa si legge infatti: “Appresso diray etiandio ad quella illustrissima signoria come hogi havemo havuto lettere da Antonio da Trezo facte a Napoli a dì XXXta del passato per le quale ne advisa come la maiestà del re è migliorata et al iudicio di medici è fuora de periculo per questo male che ha havuto, non innovandosi altro, et che, parlando con la maiestà sua de le cose de Zenoa, gli disse che omnino dispone de prosequire l’impresa sua contra Zenoa et ch’el non lassarà affare cosa alcuna ad luy possibile per obtenerla con victoria, dicendo che gli ne seguirà mazor gloria etc., et ch’el faciva alhora armare due nave grosse et de le altre galee per mandarle in favore de la sua armata”. Occorre precisare che nella minuta ci si riferisce in modo curioso alla lettera del 30 maggio dell’ambasciatore a Napoli. Verso circa la metà della sesta riga del secondo capoverso di quest’ultima, infatti, in merito alla salute di Alfonso il Magnanimo si legge l’esatto contrario, sottolineato dalla pleonastica e piuttosto rara, se non proprio unica, almeno a giudicare dal I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli di Francesco Senatore, ripetizione della data della lettera dopo l’avverbio “Hogi”: “Hogi, che è XXX del presente, alla maiestà del re, immediate come ha havuto disnato, è venuto freddo con febre cum freddo, che, ancora che l’accidente sia legiero, come se dice (che in camera quasi intra persona), tamen ne è da fare caso, perché pare che la maiestà sua non se possi rehavere per modo che in capo de quatro o cinque dì non habia qualche recaduta”.

E l’ambasciatore aggiunge: “De quanto seguirà avisarò la excellentia vostra, a la quale, quantunque ogni mio recordo sia debere ed [sic] superfluo, pure cum fede gli recordo che me pare ch’ella habia ad deportarse in queste cose de Zenoa assai moderatamente, atenta la inconvalesentia de questo re, perché, mancando la maiestà sua, come poria seg<u>ire, il che sta a la volontà de Dio, ma pure è da fare caso de queste recadute così spesse, non voria che apertamente ve havessivo provocato inimico el re de Franza o chi fa per quella, cum la quale non ve mancariano mai boni partiti” (il testo riportato in corsivo costituisce la decifrazione pubblicata da Francesco Senatore a pagina 641 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli; anche se si tratta di una deviazione rispetto all’argomento principale, rileviamo che in effetti la decifrazione presentata dallo studioso non pare proprio corretta, anzi essa, che dovrebbe essere quella che segue, sembra presentare più di un problema: “a la quale quantvnque ogni mio r[..]ordo sia deb(il)e ed svp(er)(f)luo, pvm c(vm) (f)le gli r[..]ordo che me pare qu’ella habia ad deportasse in quest[. .]ose de Zenoa assai mod(er)atamente, atenta la inconualesentia de questo re Ferdinandus, perché, mancando la maiestà soa, come pori(a s)egire, il che sta a la uolontà de Dio, (m)a p[..] è da far[. .]aso de queste r[..]advte così spesse, non uoria che ap(er)tamente ue haues[.]iuo prouocato inimico el re de Franza o [.] chi [f]a p(er) quella, cvm la quale credo non ue mancariano mai boni partiti“; trascurando il fatto che nulla vieta che quelle segnalate nel cifrario come “v” e “u” vengano decifrate al contrario, ossia come “u” e “v”, anche se bisognerebbe capire come mai, per esempio, la “v” venga indicata come tale se in realtà poi la si deve intendere come una “u” e che alcuni segni non sono resi in modo proprio perfetto, rileviamo gli aspetti maggiori: nelle due occorrenze della parola “r[..]ordo”, nel caso di “quest[. .]ose”, di “far[. .]ose” e di “r[..]advte” viene impiegato per le lettere “ec” il segno “ac”, assente nel cifrario, nel quale, per le lettere “ec” è invece presente il segno “ee”; nella parola “deb[il]e”, per interpretare il segno per le lettere “il” è in effetti necessaria una certa dose di fantasia: vi è una “a” scritta sopra due lettere, caso che nel cifrario si presenta solo per la “a” posta su “cc”, come nelle tre righe più sotto, dove si legge “il che sta”; nel caso in esame, la seconda lettera potrebbe essere una “c”, ma la prima non è per nulla chiara, parendo al limite più una “o”, tanto è vero che Francesco Senatore ha inteso il segno come una “a” caratterizzato a destra in alto da una breve linea orizzontale per “er”, ma è tuttavia presente una breve linea in basso che appunto farebbe pensare a una “c” e inoltre non si capisce per quale motivo, se la decifrazione dello studioso fosse corretta, nell’interlinea la “a” non sia stata depennata; nelle parole “svp(er)(f)luo”, “mod(er)atamente”, “ap(er)tamente” e “p(er)” il segno per lettere “er” dovrebbe consistere, come detto, in una “a” che a destra presenta in alto una breve linea orizzontale, mentre nel testo in cifra la linea si trova a mezza altezza; inoltre nel primo termine, in “(f)le” di poco successivo e verso la fine del testo nel verbo “[f]a” il segno per la “f”, consistente in una croce, dovrebbe presentare un punto nel quadrante, per così dire, in alto a sinistra, che però è assente; subito dopo “(f)luo” non si legge “cum”, ma “pum”, perché il primo segno consiste in un “7”, corrispondente appunto alla lettera “p”; per quanto riguardo “c(vm)”, nel cifario il segno per le lettere “vm” consiste in una “g” dalla quale in alto esce una brevissima linea orizzontale sormontata da una piccola “e”: nel testo, sopra la “g”, la cui linea non è breve, vi è una lettera molto vistosa che pare essere più una “c” che una “e”, ma che comunque potremmo essere disposti a intendere come una “e”; l’aspetto più sorprendente è tuttavia che nel testo in cifra l’“inconualesentia”, che Francesco Senatore pone in relazione a “questo re”, non è seguita dal segno per “Rex Aragonum”, ossia una “p” con la linea verticale tagliata da un tratto orizzontale, ma da una “p” dalla quale in alto a sinistra esce, per così dire, una corta linea obliqua tendente verso il basso, che nel cifrario non ha eguali e che non può che essere intesa come il segno per “Re Ferdinandus”; nelle parole “pori(a s) segire” il segno per le lettere “as” dovrebbe consistere in una “b” subito seguito da una croce priva del braccio destro: tuttavia nel testo in cifra il braccio sinistro è intersecato da una breve linea verticale, anche se forse, nonostante questa caratteristica, il segno potrebbe essere considerato accettabile; nella congiunzione avversativa “(m)a” il segno per la “m” è reso con un tratto tremolante che sopra non presenta la breve linea che si può vedere nel cifrario, ma una sorta di arco di dimensioni piuttosto vistoso: è comunque possibile che si possa ritenere corretto anche questo segno; dopo il segno per la “p” ve n’è un altro consistente in una “g” caratterizzata a destra in alto da una breve linea orizzontale, il quale è però assente nel cifrario, nel quale sopra la linea è sempre presente una piccola lettera; nella parola “haues[.]iuo”, resa da Francesco Senatore come “havessivo”, in realtà la seconda “s”, oltre a essere piuttosto pasticciata, è depennata; infine dopo le parole “el re de Franza o” vi è un segno depennato con due linee verticali; riguardo alle osservazioni fatte sopra, Francesco Senatore si è limitato a scrivere nella nota (b): “deportasse A [ossia l’“Originale autografo”, come scritto a pagina 640] per scambio tra cifre simili”, precisazione non molto comprensibile, considerato che nel testo in cifra risulta scritto proprio “deportasse”). Nella missiva del 30 maggio è inoltre assente un qualsiasi accenno al fare “armare due nave grosse”, come riferito nella minura ducale del 10 giugno, benché all’inizio del secondo capoverso di essa si affermi in modo vago: “Quanto alle cose de Zenova sua maiestà dice volere proseguire l’impresa et, bisognando, gli mandarà altre nave et galee, le quale dice fa metere in puncto in modo che spera obtenere lo intento suo”. Come si noterà, inoltre, non si dice in alcun modo, come riportato nella minuta di Francesco Sforza del 10 giugno, “ch’el non lassarà affare cosa alcuna ad luy possibile per obtenerla con victoria, dicendo che gli ne seguirà mazor gloria etc.”. A questo punto, cercando di riassumere, nella minuta ducale del 10 giugno diretta a Marchese da Varese Francesco Sforza scrive: “Appresso diray etiandio ad quella illustrissima signoria come hogi havemo havuto lettere da Antonio da Trezo facte a Napoli a dì XXXta del passato per le quale ne advisa come la maiestà del re è migliorata et al iudicio di medici è fuora de periculo per questo male che ha havuto, non innovandosi altro”, informazione che in realtà esprime l’esatto contrario di quanto si legge nella lettera del 30 maggio dell’ambasciatore a Napoli; poi nella successiva minuta del 13 giugno è scritto: “Da Napoli havemo per lettere de dì II del presente come la maiestà del re stava bene”, ma, come sappiamo, nella sua lettera del 5 giugno Antonio da Trezzo scrive: “da dui dì in qua pare che essa maiestà sia stata meglio”, parole che implicano che il sovrano si sia sentito “meglio” dal 3 giugno e non dal 2, giorno in cui pertanto egli non stava ancora bene. Di nuovo, quindi, Francesco Sforza afferma il contrario di quanto scritto in una missiva, quella del 5 giugno, del suo ambasciatore, anche se non accenna a lui chiaramente. Per comprendere l’informazione contraddittoria, bisogna considerare che alla ventunesima riga è scritto “per respecto al morbo”, che richiama l’espressione della quindicesima riga “per respecto del morbo”. Come si può notare, per dargli risalto, il sostantivo “respecto” è seguito nella prima occorrenza dalla preposizione articolata “del”, nella seconda dall’articolo determinativo “al”, in modo da sottolineare la sua importanza e soprattutto quella delle prime cinque lettere, con le quali è possibile formare il termine “prese”, che rimanda al citato secondo capoverso della minuta ducale del 10 gennaio 1458, appartenente alla corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo ambasciatore in Savoia Corradino Giorgi, intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, che dice: “Primo. Le prese sono X […]”. Questa considerazione è confermata dal fatto che la prima occorrenza di “respecto” dipende da “quanto quello vene da Zenoa”, parole nelle quali “quanto” è da porre in correlazione con il precedente “tanto” di “tanto li ambaxatori del duca de Savoya”, rispetto ai quali nella lettera del 24 maggio di Ludovico di Savoia si dice che “nobilis Conradinus de Georgiis, orator vester, et […] dominus Ludovicus de Boleris” “eciam sequuntur oratores ad vos nostri”. Come si è scritto altrove, le “prese”, che vengono inviate all’ambasciatore sforzesco in Savoia all’inizio di maggio del 1458, consistono in una “storia alla rovescia”: si spiega così perché nella minuta del 13 giugno per Marchese da Varese venga fornita un’informazione che esprime il contrario rispetto a quanto scritto da Antonio da Trezzo nella sua lettera del 5 giugno riguardo alla salute di Alfonso il Magnanimo. Inoltre significativamente sotto “del” e dopo il sostantivo “adviso” è scritto “per” depennato, mentre all’inizio della riga, che è la sedicesima, vi è una “p” tagliata all’inizio della sequenza di parole “per nostre lettere adviso”, allo scopo di evidenziare che diversamente il successivo “per” depennato è scritto per esteso. Il significato è duplice. Da un lato, si rimanda alla minuta ducale dell’11 gennaio, cui era allegata quella citata del giorno precedente, nella quale si legge: “te ne mandiamo dece prese [di “polvere”] per darne a dece persone”, termini nei quali sopra la “p” di “per” è tracciata una “x”, a sottolineare la corrispondenza fra la congiunzione “per” e il numero romano “X” del primo capoverso del documento sulla polvere.

Ne consegue che anche la preposizione “per” depennata nella minuta ducale del 13 giugno per Marchese da Varese deve essere interpretata come una “X”, il cui significato non può che essere “dece”, da porre in relazione con il sostantivo “prese” ricavabile dalle due occorrenze della parola “respecto”. Inoltre, con la preposizione “per” depennata scritta per esteso dopo le parole “per nostre lettere adviso” si vuole confermare che le dieci “prese” con la loro “storia alla rovescia”, che costituiscono la corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi, sono state inviate in un secondo momento, ossia, come detto, all’inizio di maggio del 1458. Un’ulteriore conferma di quanto scritto è fornita dal fatto che, come segnalato, all’inizio della minuta ducale del 10 giugno diretta all’ambasciatore a Venezia la data “X iunii 1458” è ripetuta, ma la seconda volta, a differenza della prima, il numero romano “X” è preceduto dal sostantivo latino “die”, al fine significativo di dare risalto al numero stesso. Sappiamo inoltre che rispetto alle condizioni di salute della “maiestà del re” nel secondo capoverso ci si riferisce alla lettera di Antonio da Trezzo del 30 maggio esprimendo l’opposto di quanto si legge proprio nella missiva del 30 maggio dell’inviato a Napoli. Possiamo ora tornare al punto in cui abbiamo rilevato che secondo la minuta ducale del 13 giugno diretta a Marchese da Varese gli ambasciatori di Ludovico di Savoia risultano giungere a Milano prima rispetto a quando Francesco Sforza scrive a Ottone del Carretto. Come abbiamo scritto, in questo modo si vuole rilevare che all’opposto la bolla di Callisto III al “domino Venetorum” è stata inviata dal papa in un momento successivo rispetto alla copia della bolla stessa nella quale, proprio in relazione alla convocazione di ambasciatori, con il verbo al congiuntivo imperfetto “preberetur” e le lettere “vocab” depennate si vuole far capire al lettore che essa è stata spedita in visione in un momento precedente ad Alfonso d’Aragona e ai fiorentini. A questo punto, prima di considerarne altri aspetti, può essere interessante esaminare l’inizio del terzo capoverso della minuta ducale datata 18 giugno diretta a Marchese da Varese in cui si legge quanto segue: “Te scripsimo ancora come erano ve[n]uti qui quattro ambaxatori del duca de Savoya et che te advisaressemo de quello [n]e expo[n]eria[n]o per parte del suo signore. Dicti ambaxatori ne parlarono pur hersera et sonno restati fin mo ad expo[n]er[n]e la sua ambassata per certo male era occorso ad uno de loro” (nel testo è scritto scorrettamente “hersera” tutto attaccato, ossia con la consonante “r” legata alla “s” successiva, e, come vedremo, vi è una ragione per questo errore; inoltre, le sei consonanti “n” fra parentesi quadre risultano tracciate come “u” o “v”; precisiamo, anche in relazione a successive osservazioni simili, che abbiamo preferito segnalare solo i casi certi, tralasciando quelli di dubbia lettura).

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La data dell’udienza concessa da Francesco Sforza agli inviati sabaudi corrisponde con quanto si legge nella lettera del duca di Milano a Ottone del Carretto dello stesso 18 giugno, vale a dire: “Sono già quatro dì che sono qui quatro ambaxatori del illustre segnore duca de Savoya, quali, per essere stato uno poco male uno di loro, non hano exposta la loro ambaxata più presto de hier sera”. Se dunque la copia della bolla di Callisto III non è stata vista in anticipo dal “domino Venetorum”, si vuole far capire che il papa, e non Francesco Sforza, cui ci si sembra riferire, riceverà, come del resto è naturale che sia, gli inviati degli Stati italiani nello stesso giorno. Che quanto scritto non sia sovrainterpretazione è confermato dal fatto che a proposito degli ambasciatori sabaudi nelle corrispondenze con Antonio da Trezzo e Nicodemo Tranchedini, inviati rispettivamente a Napoli e Firenze, vi sono problemi, nel senso che mancano i primi documenti ducali che li informerebbero dell’arrivo a Milano degli inviati dalla Savoia, con l’intento di confermare che all’opposto la copia della bolla di Callisto III è stata mostrata prima proprio ad Alfonso il Magnanimo e ai fiorentini. D’altra parte una sorta di anticipazione di quanto scritto sopra è fornita nella stessa minuta ducale datata 18 giugno per Marchese da Varese. All’inizio di essa si legge: “Havemo recevuto le tue littere de dì VIII et XIIII° del presente” (si noti nella prima foto sotto che rispetto ai casi analoghi di cui parleremo in seguito quest’ultima parola è correttamente abbreviata “pnte” e sopra vi è una linea semiarcuata che interessa tutte e quattro le lettere). Poi dall’ottava all’undicesima riga è scritto: “Et, perché essa [illustrissima signoria] etiandio habia noticia de quello havemo havuto de le cose de Zenoa, dapoy te havemo scripto ultimamente, te ma[n]diamo la copia inclusa de una lettera quale havessemo her sera de La[n]zaloto Bosso” (in questo caso, come si può sempre verificare nella prima immagine sotto, le parole “her sera” sono staccate: la consonante “r” non risulta infatti legata alla “s” seguente; inoltre, nel nome “La[n]zaloto” la consonante “n” è posta fra parentesi quadre perché a differenza della minuta del 13 giugno scritta come una “u” o una “v”, anomalia già segnalata prima a proposito dell’incipit del terzo capoverso della stessa minuta). La proposizione “dapoy te havemo scripto ultimamente” non può che riferirsi alla minuta ducale del 13 giugno, nella quale all’inizio si legge: “Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa et, quantuncha siano cose assay legiere, nientedemancho, cossì come sonno, ne è parso mandartene copia, le quale seranno qui incluse, adcioché de esse, tale quale sonno, ne possi dare noticia a quella illustrissima signoria”. Il problema è che nella minuta del 18 giugno, dopo l’unica parola, che è “periculo”, della ventesima riga del primo capoverso, lungo appunto 20 righe, vi sono le lettere “Te scri” depennate,

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come se si stesse scrivendo “scripsimo” in relazione a quanto segue le parole “illustrissima signoria” nella minuta del 13 giugno, ossia “ala quale etiamdio notificheray da nostra parte come heri gionseno qui quattro ambaxatori del duca de Savoya, li quali, per quello ne hanno facto dire, ne hanno ad referire alcune cose per parte d’esso duca. Et cossì ancora li gionse pur heri un altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa. Ali quali ambaxatori per ancora non havemo dato audientia per alcune occupatione ne sonno occorse, ma da domane in là vedremo de audirli et darli expeditione et de quello haveranno referito, tanto li ambaxatori del duca de Savoya, quanto quello vene da Zenoa, […] te ne daremo per nostre lettere adviso”. Si noti che quest’ultima minuta consiste in un unico capoverso e pertanto non è inverosimile inferire che in quella del 18, dopo avere scritto alla decima e all’undicesima riga “te ma[n]diamo la copia inclusa de una lettera quale havessemo her sera de La[n]zaloto Bosso”, alla ventesima riga, dopo il sostantivo “periculo”, si intendesse proseguire con le parole “Te scripsimo” riferendo degli ambasciatori, anche se poi di esse si sono tracciate solo le lettere depennate “Te scri”, così come in modo parallelo nella minuta del 13 giugno l’accenno all’arrivo degli inviati è preceduto dal testo “Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa et […] ne è parso mandartene copia, le quale seranno qui incluse, adcioché de esse […] ne possi dare noticia a quella illustrissima signoria”. Questa considerazione è confermata dal fatto che nella minuta del 18 giugno nelle frasi “perché essa [illustrissima signoria] etiandio habia noticia de quello havemo havuto de le cose de Zenoa, dapoy te havemo scripto ultimamente” si trova la congiunzione “etiandio” scritta per esteso (si veda la foto sopra), che a pagina 124 del suo Dizionario di abbreviature latine ed italiane Adriano Cappelli scrive essere la forma corretta della parola “etiamdio” (per essere precisi, lo studioso scrive “eziandio”, voce presente a pagina 537 del V volume del Grande dizionario della lingua italiana seguita senza alcun tipo di commento dalle varianti “(eziandèoeziamdìo))”, che si trova abbreviata proprio nel testo riportato poco sopra della minuta del 13 giugno, di cui per chiarezza riproponiamo la parte iniziale: “ala quale etiamdio notificheray da nostra parte come heri gionseno qui quattro ambaxatori del duca de Savoya”. La differenza tra “etiamdio” ed “etiandio” non è casuale, anche perché nel primo caso la congiunzione non è abbreviata nella forma “etdio” con una breve linea sulle lettere “et” segnalata dallo stesso Adriano Cappelli e per esempio presente tre volte nel primo capoverso della minuta ducale del 26 giugno per Antonio da Trezzo, di cui parleremo più avanti, ma alla fine della quinta riga si legge “etidio” con una linea sopra che parte dalla “t” e prosegue per un po’ oltre la “o” (si veda la quinta foto di questo testo con il titolo “Venezia37”). Essa mira a porre il lettore sull’attenti, per così dire, in relazione al tema dell’arrivo a Milano degli ambasciatori sabaudi. L’eventuale obiezione che nella minuta del 18 giugno la congiunzione “eziandio” sia riferita a Genova e che il collegamento con gli inviati giunti a Milano di cui si parla nella precedente minuta del 13 per via della congiunzione “etiamdio” abbreviata in modo curioso sarebbe arbitrario non può essere accettata. Come sappiamo, all’inizio del terzo capoverso della minuta si legge: “Te scripsimo ancora come erano ve[n]uti qui quattro ambaxatori del duca de Savoya et che te advisaressemo de quello ne expo[n]eria[n]o per parte del suo signore. Dicti ambaxatori ne parlarono pur hersera et sonno restati fin mo ad expo[n]er[n]e la sua ambassata per certo male era occorso ad uno de loro”. La congiunzione “pur” prima delle parole attaccate “hersera” è piuttosto ambigua. Essa infatti non significa “Solamente”, come indicato a pagina 1017 del XIV volume del Grande dizionario della lingua italiana, anche se poi fra parentesi è aggiunto “(per lo più in espressioni negative e in contrapposizioni)”, ma, per comprenderne il senso, bisogna prendere a modello il seguente già noto passaggio della minuta del 13 giugno “ala quale [illustrissima signoria] etiamdio notificheray da nostra parte come heri gionseno qui quattro ambaxatori del duca de Savoya […]. Et cossì ancora li gionse pur heri un altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa”, in cui la congiunzione “pur” non può che voler dire “Anche, inoltre […] (e ha valore aggiuntivo)”, come segnalato sempre a pagina 1017 del XIV volume sopra menzionato. Nelle prime dieci righe del capoverso precedente non si precisa però in alcun modo che Francesco Sforza abbia dato “audientia” a Daniele Arrighi. Infatti si legge: “Appresso te scripsimo a li dì passati come l’era qui uno ambaxatore del predicto .. duca de Calavria et che ancora non gli havevamo data audie[n]tia et che, olduto che l’havessemo, de quello ne referiria te ne daressemo adviso. Mo te advisamo ch’el dicto ambaxatore ne ha exposto prima da parte del suo signore prima co[n]gratula[n]dosi con [n]uy dela sua venuta ad Zenoa et de la possessio[n]e havuta et de la città et de le altre cose in nome de la maiestà del re de Fra[n]za, dicendone appresso che de ciò ne dovemo haver piacere, narrando l’effecto de quello el prefato .. duca ha scripto ad quella illustrissima signoria” (di nuovo abbiamo posto sei “n” fra parentesi quadre perché tracciate come “u” o “v”). In realtà, l’ambiguità relativa alla congiunzione “pur” serve a sottolineare come l’unico riferimento esplicito alla sera precedente o, per essere più precisi, a “ieri sera”, è presente nelle citate righe dall’ottava all’undicesima del primo capoverso, che ripetiamo per chiarezza: “Et, perché essa [illustrissima signoria] etiandio habia noticia de quello havemo havuto de le cose de Zenoa, dapoy te havemo scripto ultimamente, te ma[n]diamo la copia inclusa de una lettera quale havessemo her sera de La[n]zaloto Bosso”. In questo modo, passando da “pur hersera”, riferito agli ambasciatori sabaudi, a “her sera”, in relazione a una lettera ricevuta da Lancillotto Bossi, della minuta del 18 giugno a “heri” e “pur heri”, riferiti rispettivamente agli inviati di Ludovico di Savoia e a Daniele Arrighi, della precedente minuta del 13 giugno, si conferma quanto scritto sopra, ossia la volontà di “porre il lettore sull’attenti, per così dire, in relazione al tema dell’arrivo a Milano degli ambasciatori sabaudi”, aspetto confermato dal fatto che nella minuta del 13 giugno prima si accenna ai “quattro ambaxatori del duca de Savoya” e poi all’“ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa”, sequenza che è al contrario rispetto a quanto esposto nella successiva minuta del 18 giugno. A questo punto, tornando alle lettere “Te scri” depennate della minuta appunto del 18 giugno, non si può non notare come non si prosegua con un unico capoverso sull’esempio della minuta del 13 giugno, ma venga fatta la scelta di iniziare un nuovo capoverso scrivendo, come abbiamo visto: “Appresso te scripsimo a li dì passati come l’era qui uno ambaxatore del predicto .. duca de Calavria et che ancora non gli havevamo data audie[n]tia et che, olduto che l’havessemo, de quello ne referiria te ne daressemo adviso”. Come noto, all’inizio del terzo capoverso poi si legge: “Te scripsimo ancora come erano ve[n]uti qui quattro ambaxatori del duca de Savoya et che te advisaressemo de quello ne expo[n]eria[n]o per parte del suo signore”. Rispetto alla solo accennata espressione “Te scri”, che sarebbe stata una sorta di naturale proseguimento di quanto scritto nella minuta del 13 giugno, non possono lasciare indifferenti le parole che si leggono al suo posto, ossia “Appresso te scripsimo a li dì passati come l’era qui uno ambaxatore del predicto .. duca de Calavria”. A pagina 513 del XXI volume del Grande dizionario della lingua italiana, infatti, dell’avverbio “ultimamente”, presente nella proposizione secondaria “dapoy te havemo scripto ultimamente” in relazione alle “cose de Zenoa”, viene fornito il seguente significato: “In un periodo di tempo appena trascorso e vicino a chi parla o scrive; negli ultimi tempi, di recente”. Se per l’avverbio “appresso” si può optare per il significato di “Oltre, inoltre, altresì, in più”, riportato a pagina 586 del I volume dello stesso dizionario, scartando quindi quello di “Dopo, in seguito, poi, più tardi”, presente nella medesima pagina, non pare invece giustificabile la precisazione “a li dì passati” proprio alla luce del precedente avverbio “ultimamente”, che in sostanza vuol dire “di recente”, perché pare accennare a un’altra lettera, anche considerato che nella minuta ducale del 13 giugno in relazione a Genova si legge: “Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa”, mentre rispetto agli inviati che, come sappiamo, “heri gionseno qui quattro ambaxatori del duca de Savoya” e che “cossì ancora li gionse pur heri un altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa”. In sostanza, con le lettere depennate “Te scri” si vuole far riflettere il lettore sul fatto che i due capoversi che seguono, il cui contenuto, come abbiamo visto, è riportato alla rovescia rispetto alla minuta del 13 giugno, in quest’ultima minuta fanno parte di un unico capoverso. Quindi si sceglie di dedicare a Daniele Arrighi e agli ambasciatori sabaudi due capoversi a se stanti, ma, se l’inizio del secondo capoverso “Appresso te scripsimo” non presenta inconvenienti, non lo è la precisazione “a li dì passati”, con la quale, anche grazie all’inversione degli argomenti rispetto alla minuta del 13 giugno, si vuole far capire che, come anticipato sopra, vi sono problemi con le minute o le lettere ducali datate 18 giugno, ossia proprio la data della minuta per Marchese da Varese, in relazione all’arrivo degli ambasciatori sabaudi, più precisamente nelle corrispondenze di Francesco Sforza con Antonio da Trezzo e Nicodemo Tranchedini. Una conferma in questo senso viene anche dal secondo capoverso della lettera datata 18 giugno del duca di Milano per Ottone del Carretto, nella quale, come già riportato, si legge: “In super, fin mo dele nove havemo havute deli facti de Zenoa continuamente ve ne havemo tenuto advisato. Adesso havemo recevuta una lettera dela quale ve mandiamo la copia ad questa inclusa, per la quale intenderete quanto hucusque sia sequito”. Se si considerano le parole successive a “In super”, quanto scritto all’ambasciatore pare non poco confuso. Prima infatti si scrive a Ottone del Carretto di averlo “tenuto” advisato” “dele nove” “deli facti de Zenoa” “fin mo”, ossia, secondo il significato fornito a pagina 621 del X volume del Grande dizionario della lingua italiana dell’espressione “fino a mo”, “fino a questo momento, finora”, che, per dare un senso al testo, non si può che intendere come un generico riferimento al 18 giugno. Quindi si dice che “Adesso”, ossia evidentemente in un’ora dello stesso 18 giugno che però nella missiva non è precisata, sarebbe stata ricevuta una lettera di cui viene inviata una copia grazie alla quale l’ambasciatore capirà “quanto hucusque sia sequito”. Secondo il Vocabolario della lingua latina di Castigioni Mariotti, l’avverbio “hucusque” significa però “fin qui, fino a questo punto”. Considerato che il momento di partenza rispetto a “quanto hucusque sia sequito” “dele nove” “deli facti de Zenoa” dovrebbe essere “fin mo”, ossia l’iniziale riferimento generico al 18 giugno, e che l’avverbio “hucusque” non può che coincidere con l’ora non chiara dall’avverbio “Adesso”, sorge il problema che le nuove notizie arrivate, per quanto di prima mano, per così dire, e contenute in una lettera giunta “Adesso”, non possono riguardare “quanto […] sia sequito” “hucusque”, ma riferirsi a un momento precedente, magari di poco, ma comunque precedente rispetto all’ora non precisata espressa in modo implicito dall’avverbio “Adesso”. Il quadro si chiarisce se si considera la minuta ducale datata “Mediolani, XIII iunii 1458” recante come destinatario Nicodemo Tranchedini, nella quale da circa metà della seconda riga si legge: “havendo de presenti havuto certe littere da Zenoa continente de quelle cose dellà, te ne mandiamo qui inclusa la copia, del che volemo ne dagi piena noticia a la prefata excelsa signoria”. All’inizio della seconda metà del foglio è inoltre indicato come secondo destinatario “Domino Othoni de Carreto”, preceduto dall’indicazione “die suprascrito”, cui segue il testo: “Scriptum fuit ut supra et misse fuerunt dicte copie”. Prima di procedere, è opportuno aprire una parentesi, che approfondiremo più avanti. Anche se lo si potrebbe pensare, l’espressione “de presenti” non corrisponde a quella indicata a pagina 230 del XIV volume del Grande dizionario della lingua italiana come “De, di presente”, il cui significato è “subito, immediatamente; senza indugio, prontamente”, ma alla locuzione che si trova nella stessa pagina “A, al presente”, il cui senso è “in questo periodo di tempo, in questo momento; attualmente, ora”. Ne consegue che le “littere da Zenoa” di cui si segnala la ricezione nella minuta ducale del 13 giugno non possono che essere arrivate nello stesso giorno. Tuttavia, come sappiamo, nell’incipit della minuta con la stessa data diretta a Marchese da Varese si legge: “Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa et […] cossì come sonno, ne è parso mandartene copia, le quale seranno qui incluse, adcioché de esse, tale quale sonno, ne possi dare noticia a quella illustrissima signoria”. Un problema analogo si verifica con la stessa lettera di Francesco Sforza per Ottone del Carretto datata 18 giugno, nella quale, come riportato sopra, si legge: “Adesso havemo recevuta una lettera” relativa ai “facti de Zenoa”, mentre nella minuta ducale con la stessa data diretta a Marchese da Varese sappiamo essere scritto: “te ma[n]diamo la copia inclusa de una lettera quale havessemo her sera de La[n]zaloto Bosso”. Chiudendo momentaneamente la parentesi e tornando di nuovo alla missiva del 18 giugno del duca di Milano per l’ambasciatore a Roma, le parole “fin mo dele nove havemo havute deli facti de Zenoa continuamente ve ne havemo tenuto advisato” non sono corrette, perché, come abbiamo visto, l’ultima minuta del duca di Milano riguardante i “facti de Zenoa” avente come secondo destinatario Ottone del Carretto risale al 13 giugno. Questa imprecisione, per così dire, è sottolineata dal fatto che, come già accennato, l’iniziale avverbio “Insuper”, che secondo il Vocabolario della lingua latina di Castiglioni Mariotti significa “di più, inoltre, oltre a ciò”, è scritto “In super”, con un breve spazio fra le prime due lettere e le successive cinque, a sottolineare che la seguente espressione “fin mo” è sbagliata, in quanto, come detto, l’ultima minuta ducale con destinatario Ottone del Carretto e riguardante “Zenoa” è datata 13 giugno e quindi rispetto al 18 giugno vi è uno stacco, nel senso di “Intervallo di tempo trascorso fra due avvenimenti” (significato presente a pagina 29 del XX volume del Grande dizionario della lingua italiana), reso graficamente nell’avverbio iniziale.

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La stessa minuta del 13 giugno evidenzia inoltre l’insensatezza dell’espressione “quanto hucusque sia sequito” della lettera per Ottone del Carretto datata 18 giugno. Come abbiamo visto, infatti, in essa si legge: “havendo de presenti havuto certe littere da Zenoa continente de quelle cose dellà, te ne mandiamo qui inclusa la copia”, ma le parole “te ne” sono scritte attaccate, ossia “tene”, in sostanza sotto “presenti”, a voler sottolineare che le “cose dellà” di cui si parla nella “copia” delle “littere da Zenoa” non possono che precedere la minuta stessa di un certo intervallo di tempo, il quale potrà anche essere breve o brevissimo, ma che naturalmente va considerato (più avanti nel testo si trova una foto del documento datato “Mediolani, XIII iunii 1458” e diretto a “Nicodemo de Pontremulo, Florentie” e “Domino Othoni de Carreto” che permette di osservare i termini “tene” cui si è accennato sopra). D’altra parte, la stessa minuta del 13 giugno diretta a Marchese da Varese è caratterizzata da un aspetto simile. Come si è visto, all’inizio si legge: “Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa et, quantuncha siano cose assay legiere, nientedemancho, cossì come sonno, ne è parso mandartene copia, le quale seranno qui incluse, adcioché de esse, tale quale sonno, ne possi dare noticia a quella illustrissima signoria, ala quale etiandio notificheray da nostra parte […]”. Le parole “de esse”, riferite a “cose”, sono scritte sopra “tale”, che è il penultimo termine della quarta riga, con un segno di inserimento posto in basso fra le parole “adcioché” e appunto “tale” e in sostanza sopra la lettera “q” del pronome relativo “ala quale” prima della congiunzione “etiamdio”. In questo caso non deve tanto attirare l’attenzione il fatto che il pronome relativo “ala quale” sia scritto tutto attaccato, ossia “alaquale”, perché, per essere precisi, nella riga sopra si legge “lequale” riferito a “cose”, due righe sotto “liquali” in relazione ai “quattro ambaxatori del duca de Savoya” e cinque righe sotto “ali quali ambaxatori”, quanto il fatto che la “q” sia tracciata in modo molto particolare rispetto a tutte le altre occorrenze della lettera, quindi non solo quelle riguardanti i pronomi relativi. Di norma, infatti, le “q” si presentano con la consueta linea verticale dritta. Nel caso di “ala quale”, invece, la linea è lievemente obliqua verso sinistra e poi dalla fine parte una linea semiarcuata posta alla sua destra che va a ricongiungersi con il punto di partenza della stessa linea obliqua. Inoltre dalla parte sinistra in basso del cerchiolino che caratterizza la “q” esce un breve tratto obliquo tendente verso l’interlinea. Gli aspetti più interessanti di questa “q” così caratteristica sono due: in primo luogo essa, non diversamente da altre “q”, che però non sono in alcun modo così particolari, sfiora la lettera “i” dell’avverbio “qui” all’interno della proposizione “heri gionseno qui quattro ambaxatori del duca de Savoya”; inoltre si trova prima della congiunzione “etiamdio”. Cercando pertanto di riassumere, con le parole “de esse” inserite nell’interlinea riferite a “cose”, il cui segno di inserimento si trova sopra la particolare “q” di “quale”, che precede la particolare forma abbreviata “etidio” per “etiamdio” che presenta una “i” di troppo e si trova sopra l’avverbio “qui”, si vuole di nuovo far capire che le “cose de Zenoa” contenute nelle “lettere” di “Lanzalotto Bosso” non possono che essere arrivate a Milano in un momento precedente rispetto alla missiva cui risultano “incluse”, ossia con il medesimo stacco al quale si è accennato sopra, sottolineato dalla presenza della “i” nell’abbreviazione “etidio”, che in realtà non dovrebbe esserci. Allo stesso modo “la copia” della “lettera” “recevuta” riguardante “facti de Zenoa” che Francesco Sforza scrive di inviare a Ottone del Carretto nella sua missiva datata 18 giugno non può contenere informazioni per cui “intenderete quanto hucusque sia sequito”, ossia “fin qui, fino a questo punto”. Esse devono risalire necessariamente a un momento precedente. La conferma di quanto affermato è fornita dal fatto che, perché le proposizioni “Adesso havemo recevuta una lettera dela quale ve mandiamo la copia ad questa inclusa, per la quale intenderete quanto hucusque sia sequito” risultino sensate, è sufficiente togliere proprio l’avverbio “hucusque”, una volta chiarito naturalmente che con l’espressione “fin mo” ci si riferisce in realtà al 13 giugno. Le precedenti considerazioni relative al secondo capoverso della missiva per Ottone del Carretto sono da porre in connessione con un particolare aspetto del primo capoverso, in cui si legge: “Sono già quatro dì che sono qui quatro ambaxatori del illustre segnore duca de Savoya, quali, per essere stato uno poco male uno di loro, non hano exposta la loro ambaxata più presto de hier sera”. La motivazione del ritardo nel compiere l’ambasciata è anticipata rispetto alla minuta ducale sempre del 18 giugno per Marchese da Varese, nella quale è riferito: “Te scripsimo ancora come erano ve[n]uti qui quattro ambaxatori del duca de Savoya et che te advisaressemo de quello ne expo[n]eria[n]o per parte del suo signore. Dicti ambaxatori ne parlarono pur hersera et sonno restati fin mo ad expo[n]er[n]e la sua ambassata per certo male era occorso ad uno de loro”. Per concludere, con le osservazioni sin qui fatte relative ai due capoversi della missiva del 18 giugno per Ottone del Carretto si intende ribadire che “vi sono problemi con le minute o lettere ducali datate 18 giugno, […] in relazione all’arrivo degli ambasciatori sabaudi”, dei quali si parla appunto nel primo capoverso della missiva così datata di Francesco Sforza per l’ambasciatore a Roma. Una conferma di quanto appena affermato è fornita dalla lettera di Ottone del Carretto del 28 giugno, formata da tre capoversi, di cui il primo e il terzo in chiaro, rispettivamente di cinque e tre righe, mentre il secondo, piuttosto lungo, è in cifra. Nel primo si legge: “Respondendo a le lettere de vostra ex[cellenci]a de [X]III et de XVIII del presente, prima de le novelle de Genoa et de li ambasiatori de [lo] illustre duca de Savoia, non possendo io comodamente andare da la sanctità de nostro Signore per v[..] de infirmità havuta, li feci fare noticia per lo secretario de sua sanctità de quello che vostra excellencia scrivea. Et ha havuto caro intendere et così prega vostra excellencia vogli fare per l’avenire”. Come si può notare, quattro brevi parti risultano fra parentesi quadre poiché il loro testo deve essere integrato, in quanto molto difficile da trascrivere, chissà se casualmente o meno, perché della lettera “x” della parola abbreviata “ex[cellenci]a” se ne vede la metà. Di esse la più rilevante è quella che precede il numero romano “III”, la quale, per quanto di quasi impossibile lettura, si può inferire con più che ragionevole certezza vada integrata con il numero “X”, con riferimento quindi alla missiva di Francesco Sforza estratta dall’ormai nota minuta datata 13 giugno nella quale Ottone del Carretto risulta il secondo destinatario dopo Nicodemo Tranchedini. Il problema è costituito dalla formula adottata da Ottone de Carretto nell’incipit, ossia “Respondendo a le lettere de vostra ex[cellenci]a de [X]III et de XVIII del presente, prima de le novelle de Genoa et de li ambasiatori de [lo] illustre duca de Savoia”. Essa risulta ambigua perché in realtà delle “novelle de Genoa” si parla nella missiva del “[X]III” giugno e nel secondo capoverso di quella del “XVIII del presente”, mentre degli “ambasiatori de [lo] illustre duca de Savoia” nel primo capoverso di quest’ultima lettera. Esponendo gli argomenti come fa nella sua missiva l’ambasciatore a Roma, ossia in modo non del tutto pertinente, si vuole far capire quanto ripetuto sopra, ossia che “vi sono problemi con le minute o lettere ducali datate 18 giugno, […] in relazione all’arrivo degli ambasciatori sabaudi”. Inoltre, il fatto che tali inconvenienti emergano grazie a una minuta del 13 giugno il cui primo destinatario è Nicodemo Tranchedini è un modo per suggerire al lettore di verificare la corrispondenza di Francesco Sforza anche con altri ambasciatori, in primo luogo naturalmente l’inviato a Firenze, ma anche Antonio da Trezzo. Cominciamo proprio esaminando la minuta del 26 giugno avente come destinatario l’ambasciatore a Napoli. Prima di considerare il tema che qui interessa, ossia quello relativo all’arrivo a Milano degli inviati di Ludovico di Savoia, rileviamo come essa presenti aspetti piuttosto interessanti, che tuttavia  preferiamo non appronfondire eccessivamente, limitandoci a osservare che all’inizio della minuta si legge: “Per le proxime precedente lettere de dì XXIIII° del presente fecimo risposta ad tutte le tue lettere e satisfecimo ad qna[n]to ne parve bisognare, scrivendo etiamdio ad lo illustrissimo signore dnca de Calabria, come haneray vednto per la copia te mandassimo i[n]clusa, siché ad qnelle parte non ne pare necessario fare altra replicatione. Te scripsimo etiamdio del andare de Bartholomeo de Recanate ad l’armata dela maiestà del signore re” (considerati insieme agli sbagli già segnalati riguardanti le consonanti [n] fra parentesi quadre, gli errori rilevati nel testo appena citato richiamano alla mente quelli presenti nelle lettere di Antonio da Cardano viste in precedenza: in quattro casi, ossia nelle parole “qna[n]to”, “dnca” e “vednto” e “qnelle”, la lettera “n” è scritta al posto della vocale “u”; nel verbo “haneray” si legge una “n” invece di una “v”; come al solito, inoltre, le due “n” fra parentesi quadre sono in realtà tracciate come “u” o “v”; precisiamo di nuovo che non abbiamo segnalato le lettere di dubbia lettura). Brevemente rileviamo come in un primo momento nella minuta datata “1458, Mediolani XXIIII iunii” siano state scritte le seguenti parole: “Respondendo a doe toe lettere de octo et X del presente”. Poi però sono state operate due correzioni abbastanza vistose: il numero “doe” è stato depennato e sopra di esso è stato scritto “tre”, quindi sono stati depennati i termini “octo et X”, sopra i quali sono state aggiunte le parole “dì 9, 10 et XIIII” con un segno di inserimento posto in basso subito dopo il “X” depennato. Non può sfuggire il fatto che, per segnalare la ricezione della missiva del 10 giugno di Antonio da Trezzo, viene utilizzato prima il numero romano “X”, poi quello arabo “10”, in modo appunto da attirare l’attenzione sulla missiva cui ci si sta riferendo.

Al proposito può essere il caso di rilevare che in modo curioso a pagina 648 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore non ha pubblicato la missiva del 10 giugno, ma solo il “poscritto a una lettera di pari data (ivi [ASM, SPE, Napoli], 198, 157)”. In più a pagina 649 ha trascritto la missiva di Antonio da Trezzo a Francesco Sforza datata 14 giugno 1458 e inviata da Giugliano così: “Per mie de VIIII° et 10 del presente avisai la excellentia vostra de quanto occorreva de qua de quelle cose ch’io posso intendere”. In realtà, però, l’ambasciatore non scrive il numero arabo “10”, ma quello romano “X”.

In ogni caso, a prescindere da queste considerazioni, l’importanza della lettera del 10 giugno consiste nel fatto che nel primo capoverso l’inviato riferisce della sua ambasciata presso Alfonso il Magnanimo per conto di Alessandro Sforza. Nelle prime righe si legge infatti: “Lo illustre signor Alesandro, vostro fratello, me ha ma[n]dato una lettera de credenza in mia persona al signore re et u[n]’altra ad mi directiva ad questa inclusa. Ho exposto alla maiestà del re l’ambassata che sua signoria me commette” (come si può notare, nel breve testo riportato vi sono due “n” scritte come “u” o “v”: si tratta di due casi certi, perché la “u” di “ma[n]dato” è identica a quella dell’articolo indeterminativo subito dopo e analoga considerazione si può fare per “u[n]’altra”). Nella lettera “ad mi directiva”, inviata il 26 maggio da Pesaro, Alessandro Sforza scrive: “per farvi intendere la casone de questa mia ambassata et che vui possate con più vivacità attendere al mio bisogno, ve aviso che, ultra el desiderio mio de fare visitare la maiestà prefata, el fo per havere trovato de qua certa fama ch’io era homo et capitaneo del re di Francia, el quale io visitai, sì como feci ancora el duca de Bergogna et el dalphino, per non commettere una negligentia grande, la quale me pareva incorrere passando per loro terrenno senza visitare la maiestà et signorie predicte, ad effecto che vui possate porgere el facto mio in modo che la maiestà del re intenda la fama non solo non essere vera, ma essere stata omninamente fora del mio proposito […]. Vagheza de vedere paesi, costumi, signorie et altre cose notabile fora del mondo nostro me hanno tracto per tutto dove son andato” (come si può notare nell’immagine sotto, l’asta lunga della “b” di “Bergogna” risulta tagliata da una breve linea orizzontale: in base alle indicazioni fornite a pagina XXX, e per la verità anche a pagina XXXIV, da Adriano Cappelli nel suo Dizionario di abbreviature latine ed italiane riteniamo che essa non possa che corrispondere alle lettere “Ber”).

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In realtà, il fratello di Francesco Sforza si era recato presso Carlo VII solo come paravento, mentre il vero obiettivo della sua missione, svolta in completo accordo con il duca di Milano, era consistito nel recarsi successivamente presso il delfino Luigi. A questo punto possiamo tornare a considerare il tema degli ambasciatori sabaudi. Dopo avere in sostanza ricordato di avere inviato “lettere de dì XXIIII° del presente”, Francesco Sforza scrive che “Dapoy”, “partendose da Zenona”, “l’arcivescovo fratello de miser Perrino, olim dnxe”, “per venire ad None et da là andare in Franza dal dnca Renato per ratificare el pare[n]tato de miser Maxino con la figliola natnrale del prefato dnca”, “essendo in el piano de Buzalla, è stato assaltato et misso in rotta quella gente chi la compagnana” (come si sarà notato, il testo che precede, sempre tratto dal primo capoverso, è caratterizzato dallo stesso tipo di errori di quello prima citato; può essere il caso di rilevare che nell’intero capoverso vi sono tre casi di “Zenona” al posto di “Zenova”, di cui uno sopra segnalato insieme a “None”, toponimo più avanti scritto in modo che forse può essere letto correttamente “Nove”). Evidentemente il fatto non può essersi verificato che fra il 24 e il 26 giugno. Poi nel secondo capoverso si legge: “Preterea tu haneray inteso che qui sono qnatro ambaxatori del duca de Sanoya per lo facto de miser Alnise Boleri, li conti de Tenda et zentilhomini da Cochonato, nostri adherenti et recommandati, li quali ambaxatori monstrano de volere adaptare qnesti facti et renocare alc[n]ne obligatione che hanenano facte fare ad li dicti nostri adherenti che non se son potuto fare de rasone. Et per questo uno d’essi ambaxatori è andato dal prefato signore dnca, el qnale è venuto da qua dali monti ad Hivrea per fargli ultima conclusione. Et così se expecta qui per questi altri ambaxatori” (nel capoverso sono presenti gli sbagli già menzionati in precedenza: il fatto che al posto di “Savoya” si legga “Sanoya” insieme a un’occorrenza del sostantivo “duca”, ossia la seconda, scritta senza dubbio “dnca”, mentre per la prima la lettura può essere dubbia, anche se per la verità pure in questo caso pare di potersi leggere “dnca” e non “duca”, conferma il legame con le lettere di Antonio da Cardano prima sottolineato; anche se dalla foto qui pubblicata il nome Alnise non risulta leggibile, al posto della vocale “u” vi è proprio la consonante “n”). In teoria non si potrebbe escludere che l’iniziale avverbio “Preterea”, derivante ovviamente dal latino classico “praeterea”, voglia dire “in seguito”, secondo significato indicato dal Vocabolario della lingua latina di Castiglioni Mariotti, come se si volesse alludere a una lettera di Francesco Sforza successiva a quella del 24 giugno grazie alla quale Antonio da Trezzo avrebbe inteso “che qui sono qnatro ambaxatori del duca de Sanoya per lo facto de miser Alnise Boleri, li conti de Tenda et zentilhomini da Cochonato, nostri adherenti et recommandati”. Il dubbio non è chiarito dal terzo capoverso, nel quale viene trattato un argomento del tutto nuovo e il cui incipit è il seguente:

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“Dreto ad qnesti è venuto uno Honorato de Berra, ambaxatore et consigliero del duca Renato, pnr per qnesto facto de miser Alnise Boleri et deli conti de Tenda” (nel capoverso vi sono quattro occorrenze di “Sanoya” e una di “Snvoya” al posto di “Savoya” e “Hinrea” invece di “Hivrea”; inoltre, le parole “et deli conti de Tenda” sono inserite nell’interlinea sopra i termini “el quale”, ultimi della terz’ultima riga della prima pagina della minuta, iniziando un po’ prima del pronome relativo e finendo nel margine destro), ma dal quarto capoverso di tre righe in cui si legge: “Preterea, como per altre te hanemo scritto, vogli solicitare de hanere la copia dela ratificatione che fece el dnca de Sanoya in la pace et luga come collegato dela maiestà del signore re et mandarcela, perché ne hanemo bisognio qni in certe cose” (nella minuta, oltre agli sbagli già rilevati altrove, di cui i più interessanti sono “dnca de Sanoya” per “duca de Savoya”, risulta scritto proprio “luga”, che riteniamo costituire un’allusione all’omonimo sostantivo femminile a proposito del quale a pagina 263 del IX volume del Grande dizionario della lingua italiana si legge: “Ant. Luogo, dimora”, con la seguente aggiunta: “Deriv. dal provenz. luga e loga ‘luogo’”; può essere il caso di ricordare che Renato d’Angiò era conte di Provenza).

Il riferimento è a una lettera del precedente 18 giugno, la stessa data della minuta per Marchese da Varese e della missiva per Ottone del Carretto nella quale si parla dei “quatro ambaxatori del illustre segnore duca de Savoya”, nel cui secondo capoverso Francesco Sforza scrive: “Insuper, perché, como hai inteso per altre nostre, sonno alcune contentione tra lo illustre signore ducha de Savoya et nuy per le novitate ch’el fa contra messere Aluyse Bolera, el conte de Tenda et li gentilhomini da Coconato, ne bixogneria la ratificatione che il prefato ducha fece a la maiestà del re in lo contracto de la ligha, il perché volemo che tu operi de haverne la copia et subito ne la mandaray, remandandone questa lettera presente. Item remanda per uno tuo famiglio tucte et singule scripture tu hay lì qui ad Milano” (si noti che, a differenza dell’incipit del secondo capoverso della lettera di Francesco Sforza per Ottone del Carretto, anch’essa del 18 giugno, l’avverbio “Insuper” è scritto tutto attaccato, come si può verificare in una foto successiva; nel primo capoverso si ricorda un fatto avvenuto “in l’anno de MCCCC°LII, quando nuy eramo cum lo exercito nostro in Bressana” e “tu ne scrivesti havere havuto aviso da uno preyto tuo amico como alcuni citadini parmesani tunc temporis tractavano de dare quella nostra cità de Parma al illustre ducha de Modona”). Nel caso del quarto capoverso è evidente che l’avverbio “Preterea” non vuol dire “in seguito”, bensì “inoltre, in più”, primo significato indicato nel Vocabolario della lingua latina citato. Antonio da Trezzo segnala la ricezione della missiva ducale del 18 giugno in una lettera del 5 luglio, nel cui primo capoverso si legge: “Veduto quanto la excellentia vostra me scrive per sue lettere de dì XVIII del passato, ho facto ch’el signore re ha comandato ad Fonolleda, prothonotario, che me dagha la copia de la ratificatione facta per lo illustre signore .. duca de Savoya de la ligha, el quale ha dicto la farà cercare et me la darà. Domane cavalcarò a Castello del’Ovo, dove luy habita, per fare insta[n]tia de haverla et, havuta, sine temporis intermissione la mandarò alla vostra signoria, alla quale remando incluse le dicte sue che me ha scripte” (può essere il caso di notare che il sostantivo “insta[n]tia”, nel quale la [n] è in realtà una “u” o una “v”, si trova sopra il verbo “remando”).

Nel secondo capoverso l’ambasciatore affronta il tema relativo “alla parte de quello ch’io scripsi sta[n]do ad Ferrara havere havuto aviso che alcu[n]i citadini parmesa[n]i tractavano de dare quella cità ad lo illustre duca de Modona etc.” (come si può notare, vi sono tre “[n]” che in realtà sono “u” o “v”), poi nella terza riga si legge di “uno preyte parmesa[n]o quale usava ad la chiesa de Sancto Bnasio in Ferrara”. Naturalmente “Bnasio” è un errore per “Biasio” e, riguardando la vocale “i”, non lo si può considerare del tutto identico agli altri sbagli cui si è accennato fra parentesi, ma nemmeno ritenerlo casuale, perché richiama il sostantivo “luga” al posto di “liga” della minuta del 26 giugno: se nella lettera di Antonio da Trezzo vi è la consonante “n” invece della “i”, nella minuta si trova la vocale “u” sempre al posto di una “i” (di questo aspetto parleremo più oltre, perché pone problemi dal punto di vista cronologico). A questo punto, considerato che in una missiva del 5 luglio l’ambasciatore sforzesco a Napoli segnala di avere ricevuto “lettere de dì XVIII del passato”, riferendosi però evidentemente a una sola missiva (si consideri che al proposito a pagina 180 di Uno mundo de carta Francesco Senatore scrive: “Gli ambasciatori citavano le lettere ducali usando quasi sempre il femminile plurale”), e che la lettera nella quale Ottone del Carretto viene avvisato dal duca di Milano che “Sono già quatro dì che sono qui quatro ambaxatori del illustre segnore duca de Savoya, quali, per essere stato uno poco male uno di loro, non hano exposta la loro ambaxata più presto de hier sera” è datata 18 giugno, per buon senso non resta che verificare se di quest’ultima non si faccia menzione in un documento successivo della corrispondenza tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto. Si scopre così che nel terzo capoverso della minuta ducale datata 27 giugno con destinatario appunto l’ambasciatore a Roma è riferito: “Preterea haverette inteso como qui sono qnatro ambaxatori delo illustre signore duca de Sanoya per lo facto de miser Alnise Bolero, conti de Tenda et zentilhomini de Cochonato, nostri adherenti et recommandati, li quali ambaxatori monstra[n]o volere adaptare questi facti et renocare alcu[n]e obligatione che hanenano facto fare ad dicti nostri adherenti che non se son potnto fare de rasone. Et per qnesto uno d’essi ambaxatori è andato dal prefato signore duca, el quale è venuto de qna dali monti ad Hivrea per fargli ultima conclnsione” (si notino, oltre ai numerori errori, l’ormai consueto toponimo “Sanoya” al posto di “Savoya” e il nome “Alnise”; in modo un po’ forzato, si potrebbe obiettare che la “n” di “Alnise” sia in realtà una “u”, ma, se si considera la chiarissima “u” di “Aluise” della seconda riga del capoverso successivo, non può che trattarsi di una “n”, tanto più se si considera la “n” del numero “qnatro” scritto pressoché sopra ad “Alnise”).

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In sostanza, come si può osservare, è pressoché lo stesso testo del secondo capoverso della minuta del 26 giugno avente come destinatario Antonio da Trezzo. Continuando nel paragone fra i due documenti, il secondo capoverso della minuta per Ottone del Carretto corrisponde al primo della minuta con destinatario l’ambasciatore a Napoli escluse le prime sei righe. Anche in esso, infatti, si legge che “Deli facti de Ze[n]ona, dapoy vi scripsimo, è accaduto, secu[n]do havemo i[n]teso, che, partendose da Ze[n]ova l’arcivescovo fratello de miser Perrino, olim dnxe […] essendo in el pia[n]o de Buzalla, è stato assaltato” (il toponimo Genova è scritto prima “Ze[n]ona” e poi “Ze[n]ova”, quindi con la “n” tracciata come una “u” o una “v”). Il quarto e ultimo capoverso della minuta per Ottone del Carretto corrisponde invece al terzo della minuta per Antonio da Trezo, in quanto in esso si legge: “Dreto ad qnesti è vennto uno Honorato de Berra, ambassatore et consigliero dela maiestà del re Renato, pur per qnesto facto de miser Aluise Boleri et conte de Tenda, suoi subditi et vassalli” (l’ultima parola della quart’ultima riga è senza ombra di dubbio il sostantivo “conte” al singolare, come conferma il paragone con la vocale “e” della parola “nome” alla fine della terz’ultima riga [si veda al proposito la foto subito qui sopra], mentre, come detto, nello stesso punto della minuta per l’ambasciatore a Napoli si legge la parola “conti” al plurale, preceduta dalla preposizione articolata “deli”, al contrario di quanto scritto nelle missive del 18 giugno di Francesco Sforza per Ottone del Carretto e Antonio da Trezzo, nelle quali è scritto “conte de Tenda”). Della minuta per l’ambasciatore a Roma non resta che esaminare il primo capoverso, che in un primo momento è stato scritto così: “Havemo recevuto tutte le vostre lettere, per le quale restiamo avisati de le occorre[n]tie de là et de li processi fa el conte Iacomo. Tutto havemo be[n]e i[n]teso et [n]on accade dire altro al prese[n]te se [n]on che stiate atte[n]to et, se[n]te[n]do altro, i[n]dies [n]e avisati de og[n]i cosa” (come si può notare, nel testo abbondano le [n] fra parentesi quadre, ossia tracciate come “u” o “v”; la parola “presente” è inoltre scritta con le lettere “pute” con un segno abbreviativo curiosamente posto sopra le lettere “ute” e non sulla consonante “p”, la quale al contrario dovrebbe esserne interessata). Poi, sopra il testo della prima riga a partire da poco prima di “per le quale” sino a “occorre[n]tie”, sono state scritte le parole “l’ultime dele quale sono de dì 18 del prese[n]te” con un segno d’inserimento che si trova dopo “lettere”, in sostanza alla stessa altezza della parola (pure in questo caso il termine “prese[n]te” è abbreviato “pute” con una linea orizzontale posizionata in modo bizzarro sopra le ultime tre lettere e non sulla “p” iniziale). 

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Per il momento ci limitiamo a osservare che la missiva di Ottone del Carretto datata 18 giugno è stata reperita e che essa indirettamente conduce alla lettera di Francesco Sforza ad Antonio da Trezzo con la stessa data. Mantenendoci sulle generali, benché la missiva segnalata dell’ambasciatore a Roma costituisca l’ultima lettera “de dì 18 del presente”, in realtà con quest’ultima espressione si vuol far riflettere il lettore sulla data in sé, come sottolinea la parola “prese[n]te” con il segno abbreviativo significativamente spostato sulle ultime tre lettere, come rilevato fra parentesi, con il quale si vuole evidenziare che nel caso della prima occorrenza, poi ribadito dalla seconda, quello che conta, ma, come vedremo, non solo, è il numero “18” scritto poco prima, e alla quarta riga l’espressione “i[n]dies”, errata perché al posto della “[n]” vi è una “u” o una “v” e in quanto ovviamente dovrebbe essere “in dies” con le parole separate. Il suo significato, come suggerito dal Vocabolario della lingua latina di Castiglione Mariotti, è “di giorno in giorno”. Il motivo per cui si vuole attirare l’attenzione sul 18 giugno l’abbiamo già rilevato sopra di sfuggita a proposito della missiva di Ottone del Carretto con la stessa data, ossia il fatto che la lettera inviata da Francesco Sforza ad Antonio da Trezzo in cui il duca di Milano richiede “la ratificatione che il prefato ducha [de Savoya] fece a la maiestà del re in lo contracto de la ligha, il perché volemo che tu operi de haverne la copia et subito ne la mandaray” è datata proprio 18 giugno. Quindi, come sappiamo, in una missiva datata 5 luglio l’ambasciatore a Napoli segnala la ricezione scrivendo: “Veduto quanto la excellentia vostra me scrive per sue lettere de dì XVIII del passato”, utilizzando il plurale “lettere” benché si riferisca a una sola missiva. Poiché il terzo capoverso della minuta ducale del 27 giugno per Ottone del Carretto il cui incipit è “Preterea haverette inteso como qui sono qnatro ambaxatori delo illustre signore duca de Sanoya” corrisponde al secondo capoverso della minuta del 26 giugno per Antonio da Trezzo all’inizio del quale si afferma “Preterea tu haneray inteso che qui sono qnatro ambaxatori del duca de Sanoya” e poiché la lettera cui ci si riferisce nella minuta del 27 giugno è quella datata 18 giugno per Ottone del Carretto in cui si legge che “Sono già quatro dì che sono qui quatro ambaxatori del illustre segnore duca de Savoya”, ne consegue che prima della minuta del 26 giugno a lui diretta in realtà Antonio da Trezzo non è mai stato avvisato “che qui sono qnatro ambaxatori del duca de Sanoya”, perché quest’ultima informazione sarebbe stata riferita in una lettera datata 18 giugno, come appunto la missiva di Ottone del Carretto, mentre nell’unica lettera da lui inviata datata 18 giugno, per quanto riguarda Ludovico di Savoia, Francesco Sforza si limita a chiedere “la ratificatione che il prefato ducha fece a la maiestà del re in lo contracto de la ligha, il perché volemo che tu operi de haverne la copia”. A conferma di quanto sostenuto vi è il fatto che nella missiva del 18 giugno il duca di Milano, dopo avere scritto che “ne bixogneria la ratificatione che il prefato ducha fece a la maiestà del re in lo contracto de la ligha, il perché volemo che tu operi de haverne la copia et subito ne la mandaray”, precisa “remandandone questa lettera presente”, aggiungendo: “Item remanda per uno tuo famiglio tucte et singule scripture tu hay lì qui ad Milano”. Si noti che non certo per caso, a parte alcune parole, il testo da “remandandone” sino a “Milano” è scritto in un corpo lievemente maggiore, in modo da dargli risalto.

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Quindi alla fine del primo capoverso della sua lettera del 5 luglio Antonio da Trezzo scrive: “alla quale [signoria vostra] remando incluse le dicte sue che me ha scripto”. Tuttavia, come già rilevato prima fra parentesi, sopra il verbo “remando” è scritta la parola “insta[n]tia”, l’unica del primo capoverso con la “n” tracciata come una “u” o una “v”, a voler significare che riguardo all’invio a Milano da parte dell’ambasciatore a Napoli delle “dicte sue che me ha scripto” vi è qualche problema. Inoltre alla fine della pagina è scritto: “Presentatum die primo iulii”, parole evidentemente aggiunte dall’ambasciatore a Napoli al momento della ricezione della missiva di Francesco Sforza. A proposito di questo documento alle pagine 148-149 di Uno mundo de carta Francesco Senatore scrive: “Precedentemente [rispetto all’agosto del 1458] da Trezzo aveva ricevuto varie raccomandazioni a custodire con attenzione le carte in suo possesso. Nel gennaio 1457 una lettera del duca, insistendo sulla necessità di non dare ad altri copia di un documento riservato, ricordava di avere ‘advertencia […] che le scripture che tu hay appresso governarle bene’. Da Trezzo si trovava a Napoli da un anno e mezzo, e il suo archivio era ormai cresciuto di mole e di importanza. Nel luglio 1457 Cicco Simonetta gli scrisse, in un allegato da cifrare […]. È chiaro che, mentre si ordina la riconsegna alla cancelleria delle lettere genovesi a essa appartenenti […] per l’archivio vero e proprio dell’ambasciatore (originali ricevuti e minute) non c’è alcun obbligo formale di restituzione. Simonetta suggerisce anzi con una certa cautela una soluzione pratica, quella di spedire le carte non più necessarie agli affari correnti, insomma la registratura di deposito, nell’abitazione milanese di da Trezzo (‘qui ad casa vostra’). Un anno dopo si ritornò sull’argomento, ma in tono più perentorio, perché a da Trezzo non si ordinò soltanto di restituire a giro di posta la lettera speditagli, ma anche di rimandare ‘per un tuo famiglio tucte et singule scripture tu hay lì qui a Milano’[231]. Si deve intendere nella cancelleria ducale? È difficile dirlo, ma certo non esistevano ancora regole precise”. Alla fine lo studioso si pone la seguente domanda: “Si deve intendere nella cancelleria ducale?” e si risponde: “È difficile dirlo, ma certo non esistevano ancora regole precise”. Per la verità la missiva del 18 giugno è sicuramente tornata presso la cancelleria ducale. Piuttosto il problema è che Antonio da Trezzo ha inviato solo questa lettera, benché il 5 luglio precisi “remando incluse le dicte sue che me ha scripto”. Del resto, come si è visto, il verbo “remando” è scritto sotto il sostantivo “insta[n]tia” con la “n” alla rovescia, ossia tracciata come una “u” o una “v”, a voler significare che l’ambasciatore a Napoli non sta affatto spedendo a Milano tutte “le dicte sue”. D’altra parte è evidente che non è possibile che la missiva ducale del 18 giugno sia tornata in cancelleria e le altre non si sa bene dove. In realtà si vuole così far capire al lettore che prima del 26 giugno Antonio da Trezzo non ha ricevuto alcuna missiva che lo abbia informato che a Milano vi erano “qnatro ambaxatori del duca de Sanoya per lo facto de miser Alnise Boleri, li conti de Tenda et zentilhomini da Cochonato, nostri adherenti et recommandati”. Prendendo a modello la corrispondenza con Ottone del Carretto, nell’unica missiva datata 18 giugno diretta ad Antonio da Trezzo Francesco Sforza non parla in alcun modo dei “qnatro ambaxatori del duca de Sanoya”, ma nel primo capoverso, come abbiamo visto, di un fatto avvenuto “in l’anno MCCCC°LII, quando nuy eramo cum lo exercito nostro in Bressana” e “tu ne scrivesti havere havuto aviso da uno preyto tuo amico como alcuni citadini parmesani tunc temporis tractavano de dare quella nostra cità de Parma al illustre ducha de Modona”, mentre nel secondo che “ne bixogneria la ratificatione che il prefato ducha [de Savoya] fece a la maiestà del re in lo contracto de la ligha, il perché volemo che tu operi de haverne la copia et subito ne la mandaray”. A conferma del fatto che per la lettera di Francesco Sforza ad Antonio da Trezzo datata 18 giugno bisogna prendere a esempio l’epistolario con l’ambasciatore a Roma, nel quale la missiva del duca di Milano per Ottone del Carretto è anch’essa datata 18 giugno, vi è il fatto che, appunto per sottolineare l’importanza della precedente data identica del 18 giugno, per contrasto la minuta ducale per Antonio da Trezzo all’inizio del cui secondo capoverso si legge “Preterea tu haneray inteso che qui sono qnatro ambaxatori del duca de Sanoya per lo facto de miser Alnise Boleri, li conti de Tenda et zentilhomini da Cochonato, nostri adherenti et recommandati” è datata 26 giugno, mentre quella per Ottone del Carretto nell’incipit del cui terzo capoverso è scritto qualcosa di del tutto analogo è del 27 giugno, come del resto la minuta ducale per Nicodemo Tranchedini, di cui parleremo fra poco, all’inizio del cui terzo capoverso è scritto: “Preterea hanera[y] i[n]teso como qui sono qnatro ambaxatori delo illustre signore duca de Sanoya per lo facto de miser Alnise Boleri et li conti de Tenda et zentilhomini da Cochonato, nostri adherenti et recomandati” (come si può notare, di nuovo è scritto “Sanoya” al posto di “Savoya” e “Alnise” invece di “Aluise”). Passando proprio a quest’ultimo documento, il testo citato, che è piuttosto simile a quello della minuta per Antonio da Trezzo, prosegue in questo modo, sempre ricordando la minuta per l’ambasciatore a Napoli: “[…]  li qnali ambaxatori monstrano volere adaptare questi facti et renocare alcune obligatione che hanenano facto fare ad dicti nostri recomandati che non se sono potuto fare de iure” (per la verità nell’aggettivo “alcune” le lettere “un” non presentano quattro linee verticali, per così dire, ma solo tre, senza dubbio seguite dalla vocale “e”: non è pertanto affatto chiara la lettura della parola, anche se a senso l’abbiamo trascritta nel modo indicato).

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Come per Antonio da Trezzo, nemmeno in questo caso vi è una minuta ducale precedente in cui si avverta dell’arrivo degli inviati sabaudi. La conferma che essa non sia andata perduta viene da un esame della minuta stessa. All’inizio, infatti, in un primo momento è stato scritto: “Havemo recevuto più tue lettere, l’ultime dele quale sono de dì *** del prese[n]te, per le quale restiamo avisati de tutte quelle cose occorro[n]o dal ca[n]to de là, el che ne è stato caro i[n]te[n]dere. Al prese[n]te [n]on accade exte[n]der[n]e altramente ad rispondere, excepto che alla parte dove tu ne scrive che lì è facto nonella che nuy mandiamo cinquecento cavalli de quelli de Coregia in favore deli usciti de Ze[n]ona etc.” (si notino le numerose [n] fra parentesi quadre; vi è poi il toponimo Ze[n]ona reso con la consonante finale “n” al posto della “v”; inoltre, la  parola “prese[n]te” è di nuovo scritta “pute” con un segno abbreviativo posizionato sulle lettere finali “ute”, non interessando in alcun modo la consonante “p”, come invece dovrebbe essere). Poi sopra la prima riga è stato scritto “et demum queste” con due segni di inserimento tra “lettere” e “l’ultime”, quindi le parole da “dele quale” a “del prese[n]te”, caratterizzate da uno spazio bianco tra “dì” e “del prese[n]te”, sono state depennate. Nel prosieguo del primo capoverso si parla dell’invio di Lancillotto da Figino presso Manfredi da Correggio in relazione ai cavalli di cui sopra, perché, “havendo Bartholomeo de Reca[n]ate qua in [n]ome dela maiestà del re de Ragona rechiesto per lettere miser Manfredo de Coregia de certi cavalli con offrirli el soldo ad [n]ome d’essa maiestà per ma[n]dare ad questa impresa de Zenona, el dicto miser Manfredo ne scripse de questa rechiesta et rechiese de consiglio et apparere quello ch’el hanesse ad fare”, riferendo così in modo implicito la ricezione della missiva dell’ambasciatore datata 17 giugno, all’inizio del cui secondo capoverso si legge: “Qui è trapellato da tre dì in qua palesemente che vostra sublimità ha mandato Lancellotto da Figino ad condure in nome vostro et cum vostri denari el .. signore de Corezo cum Vc cavali et fanti contra Zenoa in favore del .. signore re prefato [“de Ragona”] et de li ussiti de Zenoa”. Come nel caso della minuta per Ottone del Carretto, le lettere “pute” per “prese[n]te” con il segno abbreviativo che non include la “p” si trovano alla fine dell’ultima riga, anche se poi sono state depennate. Inoltre fra “dì” e “del prese[n]te” vi è uno spazio. Le implicazioni di quanto appena scritto sono tre e per il momento accenneremo a una sola di esse, ossia riferirsi di nuovo al 18 giugno, perché quest’ultimo dovrebbe essere la data di una minuta, e quindi di una missiva, inviata da Francesco Sforza a Nicodemo Tranchedini. Nella prima riga del secondo capoverso si legge infatti: “Deli facti de Zenona, dapoy te scripsimo, [n]onamente è accaduto” e poi si racconta, come nelle altre minute, quanto avvenuto all’arcivescovo “fratello de miser Perri[n]o, olim duxe”. Per sapere in quali missive precedenti il 27 giugno Francesco Sforza parli “Deli facti de Zenona”, occorre rifarsi alla lettera dell’ambasciatore a Firenze datata 26 giugno, nel cui breve quarto e ultimo capoverso si legge: “Molto sono state accepte qui le vostre de 13 et 18 m’havete scripto cum le copie da Zenoa de 10 et 15”. Come si ricorderà, la minuta ducale del 13 giugno è stata reperita. Osserviamo come le parole della missiva dell’ambasciatore a Firenze confermino quanto si è scritto a proposito della minuta del 13 giugno che reca come primo destinatario Nicodemo Tranchedini e poi l’ambasciatore a Roma, ossia che “le ‘cose dellà’ di cui si parla nella ‘copia’ delle ‘littere da Zenoa non possono che precedere di un certo intervallo di tempo la minuta stessa”, anche se queste ultime sono state ricevute “de presenti”. Secondo la missiva del 26 giugno di Nicodemo Tranchedini, alla lettera ducale del 13 giugno, tratta dalla minuta con la stessa data, risultano infatti allegate “copie da Zenoa de 10”. La minuta di Francesco Sforza del 18 giugno non è invece stata reperita. Sappiamo che la data della minuta per Marchese da Varese del 18 giugno in cui si legge che “erano ve[n]uti qui quattro ambaxatori del duca de Savoya”, confermando quanto scritto nella precedente minuta del 13 giugno, corrisponde a quella della lettera di Francesco Sforza per Ottone del Carretto in cui invece per la prima volta si riferisce che “Sono già quatro dì che sono qui quattro ambaxatori del illustre segnore duca de Savoya”. Come si sarà notato, però, nella sua missiva del 26 giugno Nicodemo Tranchedini associa le lettere del 13 e del 18 giugno di Francesco Sforza a “copie da Zenoa” e, considerato il testo della minuta ducale del 13 giugno per gli ambasciatori a Firenze e Roma, si può affermare con certezza che quello della minuta del 18 giugno, anche se non trovata, non potesse che essere analogo. Pertanto, quando all’inizio del terzo capoverso della minuta del 27 giugno diretta a Nicodemo Tranchedini Francesco Sforza scrive: “Preterea havera[y] i[n]teso como qui sono qnatro ambaxatori delo illustre signore duca de Sanoya per lo facto de miser Alnise Boleri et li conti de Tenda et zentilhomini da Cochonato, nostri adherenti et recomandati”, si vuol far capire che in realtà ci si sta riferendo a una minuta mai esistita e quindi a una lettera in realtà mai inviata, al posto della quale può esservi stata una missiva in cui si parlava di Genova e quindi di tutt’altro argomento, ma in ogni caso quest’ultima ipotesi, pur non essendo in alcun modo né irragionevole né tantomeno impossibile, è comunque irrilevante ai fini del ragionamento che qui si sta esponendo, in quanto l’aspetto di primaria importanza è che in realtà in base ai documenti precedenti il 27 giugno Nicodemo Tranchedini, come del resto Antonio da Trezzo, non può in alcun modo avere “i[n]teso como qui sono qnatro ambaxatori delo illustre signore duca de Sanoya”. Quanto scritto sopra conferma che “a proposito degli ambasciatori sabaudi nelle corrispondenze con Antonio da Trezzo e Nicodemo Tranchedini, inviati rispettivamente a Napoli e Firenze, […] mancano i primi documenti ducali che li informerebbero dell’arrivo a Milano degli inviati dalla Savoia, con l’intento di confermare che all’opposto la copia della bolla di Callisto III è stata mostrata prima proprio ad Alfonso il Magnanimo e ai fiorentini”. Prima di dedicarci alle due copie della lettera per Ludovico di Savoia inviate dal papa a Francesco Sforza, che, come vedremo, allo stesso modo della copia della bolla per Alfonso il Magnanimo sono anch’esse problematiche rispetto al tema della convocazione degli ambasciatori degli Stati italiani, riteniamo interessante dedicarci a un altro argomento, iniziando il ragionamento proprio dalla minuta del 27 giugno per Nicodemo Tranchedini. Come sappiamo, inizialmente nella prima riga è stato scritto quanto segue: “Havemo recevuto più tue lettere, l’ultime dele quale sono de dì *** del prese[n]te”. Le missive cui si fa riferimento sono due, la prima datata 5 giugno, la seconda del 10 dello stesso mese, interessata dalle parole “l’ultime dele quale sono de dì *** del prese[n]te” senza tuttavia specificare il numero del giorno perché si vuole attirare l’attenzione su di esso e sulla lettera così datata dell’ambasciatore a Firenze. Poi, come sappiamo, le parole da “dele quale” a “del prese[n]te” sono state depennate e con due segni di inserimento tra “lettere” e “l’ultime” sopra la prima riga è stato scritto “et demum queste”, con riferimento alla citata missiva di Nicodemo Tranchedini del 17 giugno.

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La lettera verso cui si vuole soprattutto condurre il lettore è però quella datata 10 giugno, all’inizio del cui ottavo capoverso, che poi è il primo intero del verso della missiva, si legge: “Qui è aviso da Pigelloin Cosimo quanto ve siate portato prudentissimamente cum quello Daniele ve ha mandato el duca de Calabria in la risposta gli havete facta”.

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Il problema è che, come si ricorderà, nella minuta ducale del 13 giugno diretta a Marchese da Varese è scritto: “Et cossì ancora li gionse pur heri un altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa. Ali quali ambaxatori [ci si riferisce anche ai “quattro ambaxatori del duca de Savoya”] per ancora non havemo dato audientia per alcune occupatione ne sonno occorse”. A sottolineare un ulteriore problema fra le corrispondenze di Francesco Sforza con Nicodemo Tranchedini e Marchese da Varese vi è il fatto che nella minuta ducale del 13 giugno diretta al primo, che precede quella del 27 giugno, come sappiamo si legge: “havendo de presenti havuto certe littere da Zenoa continente de quelle cose dellà, te ne mandiamo qui inclusa la copia”, ma la parola “presenti” è correttamente abbreviata con le lettere “pnti”, interessate tutte e quattro da una linea tracciata sopra di esse e che quindi comprende la “p” e non la esclude come nel caso della minuta del 27 giugno.

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La differenza mira a sottolineare, ma non solo, che vi è un problema rispetto al termine “presenti” della minuta del 13 giugno, ossia che, come abbiamo già sottolineato, le “littere da Zenoa” di cui si segnala la ricezione in quest’ultima minuta ducale “non possono che essere arrivate nello stesso giorno”. Tuttavia […] nell’incipit della minuta con la stessa data diretta a Marchese da Varese si legge: ‘Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa et […] cossì come sonno, ne è parso mandartene copia, le quale seranno qui incluse, adcioché de esse, tale quale sonno, ne possi dare noticia a quella illustrissima signoria’”. A questo punto possiamo cercare di fare un po’ di ordine, prendendo però le mosse non dalla corrispondenza di Francesco Sforza con Nicodemo Tranchedini, ma, per facilitare il ragionamento, da quella con Marchese da Varese. Ci si scuserà se rispetto a entrambe ci ripeteremo. Volendo costituire una sorta di premessa della minuta ducale del 13 giugno, in quella precedente con la data “X iunii 1458” quest’ultima è ripetuta, “ma la seconda volta, a differenza della prima, il numero romano ‘X’ è preceduto dal sostantivo latino ‘die’, al fine significativo di dare risalto al numero stesso”. Inoltre, “rispetto alle condizioni di salute della ‘maiestà del re’ nel secondo capoverso ci si riferisce alla lettera di Antonio da Trezzo del 30 maggio esprimendo l’opposto di quanto si legge proprio nella missiva del 30 maggio dell’inviato a Napoli”. Passando alla minuta del 13 giugno, all’inizio di essa si legge subito quanto segue: “Heri et hoge havemo havuto doe lettere de adviso da Lanzalotto Bosso dele cose de Zenoa et […] cossì come sonno, ne è parso mandartene copia, le quale seranno qui incluse, adcioché de esse, tale quale sonno, ne possi dare noticia a quella illustrissima signoria”. Nella minuta del 13 giugno che reca come destinatario prima Nicodemo Tranchedini e poi Ottone del Carretto si trova però un’informazione diversa, ossia che “havendo de presenti havuto certe littere da Zenoa continente de quelle cose dellà, te ne mandiamo qui inclusa la copia”. Come si può notare, nella parte iniziale della minuta del 13 giugno con destinatario l’ambasciatore a Venezia Francesco Sforza non riferisce il vero e proprio esatto contrario di quanto si legge nella minuta del 13 giugno per Nicodemo Tranchedini e Ottone del Carretto, come nel caso della minuta per Marchese da Varese del 10 giugno rispetto alla lettera di Antonio da Trezzo del 30 maggio. Il motivo è che l’aspetto che interessa è un altro. L’ambasciatore a Firenze segnala la ricezione della lettera tratta dalla minuta del 13 giugno nella prima riga del quarto capoverso della sua missiva del 26 dello stesso mese scrivendo così: “Molto sono state accepte qui le vostre de 13 et 18 m’havete scripto cum le copie da Zenoa de 10 et 15”. Si noti che, per evidenziare le date menzionate nel capoverso, nella cui ultima riga è scritto “vostra celsitudine. Ex Florentia, 26 giugno 1458”, nel terzo, che è quello precedente, della lunghezza di tre righe, si legge: “Qui non habiamo ch’el conte Iacomo de poy l’havuta de Saxocorbaro habia fermo campo a verun altro loco, ma habian bene per chi viene de là che è male ad ordine de cavali. Iterum et sempre me recomando ad vostra sublimità”.

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Di norma quest’ultima formula di raccomandazione, che da sola occupa la terza riga, precede la data della missiva (a pagina 372 di Uno mundo de carta Francesco Senatore scrive infatti: “La parte finale della lettera contiene raccomandazione, data e titoli dell’ambasciatore”), che però si trova nella terza riga del capoverso seguente. Per sottolineare tale aspetto e le date menzionate nella prima riga appunto del quarto capoverso, nella prima riga del terzo è scritto in modo errato “de poy”. L’avverbio dovrebbe essere però “dapoy” tutto attaccato: è scritto separato nelle parti “de” e “poy” al fine di suggerire al lettore di notare che la formula di raccomandazione è separata dalla data, mentre le lettere “de” al posto di “da” si spiegano perché esse anticipano la prima riga del quarto capoverso nella quale si legge “de 13 et 18” e “de 10 et 15”, ma è scritto “da Zenoa”, volendo dare risalto alle date precedute dalla preposizione “de”, che non è casuale, come dimostra il fatto che nella seconda riga è scritto “de Zenoa” all’interno del seguente testo: “perhoché più dì fa et septimane non ce è trapellate altre novelle de Zenoa che quelle ha scripte”. Inoltre, la terza parola della seconda riga del terzo capoverso, quasi al centro rispetto alla formula di raccomandazione della terza riga, è lo scorretto verbo “habian” con la “n” finale al posto della “m”: che si tratti di sicuro di una “n” lo conferma il successivo termine “bene” abbreviato con le lettere “bn” con una sorta di semicerchio sopra la “n” che è identica alla stessa consonante conclusiva di “habian”. Quest’ultimo verbo, inoltre, è preceduto all’inizio della riga dal sostantivo “loco”,  volendo forse sottolineare che la sottostante formula di raccomandazione è in modo inconsueto separata dalla data della missiva. In ogni caso riteniamo non si debba dare un’eccessiva importanza al fatto che “le copie” siano “de 10”, anche se in effetti non si può escludere che l’abbia, ma che alle “vostre de 13 et 18” si accenni implicitamente nella prima riga del secondo capoverso della minuta ducale del 27 giugno diretta a Nicodemo Tranchedini, nella quale si legge: “Deli facti de Zenona, dapoy te scripsimo, [n]onamente è accaduto”. La ragione è che si vuole attirare l’attenzione sul fatto che nella prima riga della minuta in un primo momento è stato scritto: “Havemo recevuto più tue lettere, l’ultime dele quale sono de dì *** del prese[n]te” e che quest’ultima parola risulta abbreviata “pute” con una linea orizzontale tracciata sopra le ultime tre lettere e non sulla “p” iniziale, la quale al contrario dovrebbe esserne interessata, mentre nella minuta del 13 giugno per Nicodemo Tranchedini, che è la prima in ordine cronologico decrescente, la parola “presenti” è correttamente abbreviata con le lettere “pnti”, su tutte e quattro le quali si trova una linea che quindi comprende la “p”. È evidente che nel primo caso con la “p” non inclusa si vuole che il lettore capisca che essa sta per il sostantivo “prese”. La lettera l’ultima delle quali è “de dì *** del prese[n]te” è datata “X iunii 1458” e il numero del giorno non è specificato fra “dì” e “del”, lasciando uno spazio fra le due parole, perché si vuole attirare l’attenzione su di esso, in quanto, associato alle lettere “pute” abbreviate in modo particolare, costituisce un chiaro riferimento al fatto che “Primo. Le prese sono X […]”, come si legge nel primo capoverso della minuta ducale del 10 gennaio 1458 destinata all’ambasciatore in Savoia Corradino Giorgi intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, e sulla lettera così datata dell’ambasciatore a Firenze. Questa considerazione è confermata anche dalle parole scritte sopra la prima riga della minuta ducale del 27 giugno per Ottone del Carretto, ossia “l’ultime dele quale sono de dì 18 del presente”: sopra abbiamo rilevato fra parentesi che con la parola “prese[n]te” con il segno abbreviativo spostato sulle ultime tre lettere si vuole sottolineare anche, “ma non solo”, il numero “18” scritto poco prima. In realtà, come nella minuta per Nicodemo Tranchedini, si intende pure evidenziare il termine “prese”. A questo aspetto si allude non solo con la “p”, che appunto sta per il sostantivo “prese”, non interessata dalla linea sopra le lettere “pute”, ma anche con un particolare impiego delle preposizioni articolate e, per essere precisi, non solo di esse. Alle lettere sopra menzionate è infatti letteralmente attaccata la preposizione “del”, in modo da evidenziare che il segno abbreviativo subito successivo dovrebbe essere posto su tutte e quattro le lettere “pute” e invece non lo è, come conferma anche la di poco precedente preposizione “dele”, la cui vocale “e” finale risulta collegata al successivo termine “quale”. Si noti che, per contrasto, alla fine della prima riga, proprio sotto “del”, la preposizione “de le” che precede il sostantivo “occorre[n]tie” è scritta invece chiaramente separata in due parti, al fine di mettere in risalto che il segno abbreviativo sopra “pute”riguarda solo le tre lettere finali e non la “p” iniziale. A conferma di quanto scritto, all’inizio della seconda riga, subito dopo “de le occorre[n]tie”, è scritto “de là” e poi “de li” prima della parola “processi”. Si potrebbe obiettare che quest’ultima preposizione sia scritta legata, ma, se la si paragona alla parola “dele” scritta sopra la prima riga, chiaramente non lo è. Si noti inoltre che nel primo capoverso non vi sono altri casi simili a quelli menzionati, che quindi risultano presenti solo nella prima riga, nel testo sopra quest’ultima e nella seconda riga, se si esclude la preposizione articolata “al”, pressoché al centro della terza riga, che significativamente precede la seconda occorrenza delle lettere “pute”, dalle quali è ben staccata, con il loro particolare segno abbreviativo. A coronamento di quanto scritto sin qui, nella quarta riga si legge: “se[n]te[n]do altro, i[n]dies [n]e avisati de og[n]i cosa”, testo che richiama la prima riga e quanto riportato sopra di essa e in cui spicca la già segnalata sbagliata espressione “i[n]dies”, da collegare a “delp[n]te” sia perché scritta tutta attaccata sia per la “n” tracciata come una “u” o una “v”. A quest’ultimo proposito il fatto che la consonante “n” sia scritta come una “u” o una “v”, ossia al contrario, ha due implicazioni: una generale e una particolare, che conferma la prima e ha a che vedere con la missiva del 10 giugno di Nicodemo Tranchedini. Quella generale è che le dieci “prese” costituiscono una “storia alla rovescia”, quella particolare consiste nel fatto che all’inizio dell’ottavo capoverso della lettera datata 10 giugno dell’ambasciatore a Firenze si legge: “Qui è aviso da Pigello in Cosimo quanto ve siate portato prudentissimamente cum quello Daniele ve ha mandato el duca de Calabria in la risposta gli havete facta”. Nella minuta ducale del 13 giugno diretta a Marchese da Varese sappiamo però che è riferita un’informazione ben diversa: “Et cossì ancora li gionse [“qui”, a Milano] pur heri un altro ambaxatore del duca de Calavria, locotenente in Zenoa. Ali quali ambaxatori [ci si riferisce anche ai “quattro ambaxatori del duca de Savoya”] per ancora non havemo dato audientia per alcune occupatione ne sonno occorse, ma da domane in là vedremo de audirli et darli expeditione”, ossia il contrario di quanto scritto nella missiva del 10 giugno dell’ambasciatore a Firenze, confermando che le dieci “prese” costituiscono una “storia alla rovescia” (si noti peraltro che nella parte iniziale della lettera di Bartolomeo da Recanati diretta ad Alfonso il Magnanimo e datata 15 giugno, riportata alla pagina di un copiario che reca la numerazione moderna 189, si legge: “Daniele Arrigo, inbassiatore del ducha de Rene che stava ad Chiaravalle, intrò in Milano martedì che furono XIII del presente”. Oltre al problema costituito dalla data dell’arrivo di Daniele Arrighi, nel verbo “stava” la prima “a” non risulta chiusa, a differenza della “a” finale, al punto da sembrare per tale motivo una “u” o una “v”). En passant in merito alla minuta del 27 giugno per Nicodemo Tranchedini osserviamo che, dopo avere depennato le parole “dele quale sono de dì *** del prese[n]te”, con due segni di inserimento tra “lettere” e “l’ultime” sopra la prima riga è stato scritto “et demum queste”, con riferimento alla missiva dell’ambasciatore a Firenze datata 17 giugno. Per quanto forse non sarebbe nemmeno utile rilevarlo, si noti che l’avverbio latino “demum” (riguardo al cui significato il Vocabolario della lingua latina di Castiglioni Mariotti scrive “nel senso di denique ‘finalmente’”, ma, per trovare un significato più pertinente, “denique” può voler dire anche “e dopo, e poi, infine”) rimanda per assonanza al numero latino “decem”. Per quanto riguarda invece la minuta ducale del 13 giugno per Marchese da Varese, è interessante rilevare che in essa vi sono tre occorrenze del sostantivo “sonno” ed esse si trovano proprio nei passaggi del testo sopra menzionati, costituendo un chiaro riferimento al titolo della minuta del 10 gennaio 1458 intitolata, lo ripetiamo, “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”. Quanto scritto non deve stupire, perché in merito alla minuta ducale del 13 giugno diretta a Marchese da Varese si è già rilevato che con le due occorrenze del sostantivo “respecto” si intende rimandare alle “prese”, quindi con la preposizione “per” depennata e scritta per esteso (a differenza di quella di poco precedente consistente in una “p” tagliata) al numero romano “X” e con il successivo riferimento alle “lettere de dì II del presente” “da Napoli”, che esprimono “il contrario rispetto a quanto scritto da Antonio da Trezzo nella sua lettera del 5 giugno riguardo alla salute di Alfonso il Magnanimo”, alla “storia alla rovescia” delle dieci “prese”.

Esaminiamo ora il caso della minuta di Francesco Sforza del 28 maggio diretta a Ottone del Caretto. Il duca di Milano scrive: “Dapoy scritte le altre nostre de dì XVIIII° del presente havemo recevuto le vostre de dì 16, 17 e 19 de questo, alle quale accade pocha risposta, maxime ad la parte del .. duca de Savoya […] Expectiamo ch’el faci quello ch’el ce ha mandato ad dire et facto scrivere, cioè de reintegrare et desistere da le novità. Non sapemo quello farà, ma, bisognando altro, vi avisaremo. Ne piace bene che de novo ne habiati iustificato con nostro Signore del facto de quelli da Cochonato”. Innanzitutto bisogna notare che il participio passato “scritte” si trova sopra la prima riga all’incirca tra le parole “Dapoy” e “le” con un segno che indica di inserirlo fra queste ultime. Inoltre, sempre sopra la prima riga fra i termini “altre” e “de dì” con un segno che segnala di porle fra questi ultimi, si trovano le lettere “nre” con sopra un segno abbreviativo per l’aggettivo “nostre”, le quali però sono molto particolari: se infatti le ultime due lettere “re” si leggono bene, la prima presenta una sola linea verticale e quindi si configura come una “i”, a meno di non avanzare l’ipotesi del tutto improbabile che la seconda linea verticale sia fusa con la lettera “r”. Si può escludere che possa trattarsi di una “l”, perché troppo corta rispetto alle “l” vicine, e inoltre alla fine della prima riga vi sono le lettere “vre” con sopra un segno abbreviativo per l’aggettivo “vostre” seguite da “de dì”. Per parallelismo è chiaro che, se dopo si è scritto “vostre de dì”, prima, anche a prescindere dalla “l” troppo corta”, non si voleva scrivere “lettere de dì”, bensì “nostre de dì”, anche se la “n” dell’aggettivo possessivo è stata tracciata in modo curioso con una sola linea verticale e non con due. Il testo che pertanto risultava prima delle aggiunte sopra la prima riga è il seguente: “Dapoy le altre de dì XVIIII° del presente havemo recevuto le vostre de dì 16, 17 e 19 de questo”. Ora bisogna quindi rilevare che il numero 1 di “19” sembra un 2 se confrontato sia con i numeri 1 precedenti sia con il numero 2 del giorno del mese “28 maii” della data della minuta, la cui somiglianza con il numero 2 è comunque senza dubbio più evidente. In ogni caso, proprio prendendo a modello il 2 di “28 maii”, l’1 di “19” si presta a essere letto anche come un 2. A questo punto risulta piuttosto evidente che la particolare abbreviazione per l’aggettivo “nostre” nella quale la “n” pare una “i” serve per far notare che l’1 del numero “19”, che non a caso si trova proprio sotto nella seconda riga, può essere letto anche come un 2. D’altra parte il numero arabo “19” richiama il numero romano “XVIIII°” della prima riga, che è preceduto dalla particolare abbreviazione di “nostre”, con la quale lo si vuole collegare al “19” sottostante, facendo capire che a sua volta potrebbe anche essere letto “29” o, se si preferisce, “XXVIIII°”. [continua]

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Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Trezzo (e non solo) [da completare]

Come rilevato anche altrove, nella sua minuta del 19 maggio Francesco Sforza riferisce la ricezione della lettera di Antonio da Trezzo cui è allegata la missiva del re d’Aragona inerente quanto stava accadendo in Savoia. Il duca di Milano commette però un errore di datazione attribuendola al 17 aprile, mentre essa è datata 27 aprile. Vuole così far capire che in questo modo ha potuto inviare a Corradino Giorgi, suo ambasciatore in Savoia, la lettera del sovrano insieme alla “storia alla rovescia” delle “prese” all’inizio di maggio. Antonio da Trezzo segnala la ricezione della missiva ducale tratta dalla minuta del 19 maggio in una lettera al termine della quale si legge “Datum Neapolis, die VIIII° iunii 1458″. Il problema è che nella sua lettera del 30 maggio Antonio da Trezzo segnala di avere ricevuto lettere ducali datate 17 e 20 maggio. Poi nella lettera del 5 giugno ricorda la propria lettera del 30 maggio e la ricezione in quest’ultima della missiva ducale del 20 cui si scopre erano allegate copie di lettere di Giovanni del Carretto e Lancillotto Bossi. In sostanza Antonio da Trezzo segnala la ricezione della lettera ducale del 19 maggio il 9 giugno, ossia “dopo” che nella missiva del 30 maggio aveva riferito la ricezione della lettera di Francesco Sforza del 20 maggio, fatto poi ribadito nella missiva del 5 giugno, come a sottolineare di far bene attenzione a questo curioso aspetto cronologico. Scrivendo che Antonio da Trezzo ha ricevuto la lettera ducale del 19 “dopo” quella del 20, si vuol far intendere che all’opposto la lettera del re d’Aragona in apparenza allegata alla missiva di Antonio da Trezzo datata 27 aprile, di cui il duca segnala la ricezione appunto nella sua minuta del 19, è arrivata “prima” di quanto farebbe pensare la data 27 aprile della lettera di Antonio da Trezzo, ribadendo così che l’errore commesso dal duca nella sua minuta del 19 di attribuire la lettera del 27 aprile di Antonio da Trezzo al 17 non è causale, ma si tratta di un modo per rilevare l’esistenza di una “corrispondenza sommersa” di cui non abbiamo nulla. Benché la lettera del re sia datata 25 aprile (giorno sul quale occorre riflettere, perché è l’ultimo in cui può cadere la Pasqua e secondo lo stile francese l’anno comincia dal giorno di Pasqua, posticipando sul moderno, al quale corrisponde appunto da Pasqua al 31 dicembre), in realtà essa è stata inviata allegata a una lettera di Antonio da Trezzo del 17 aprile e, come detto, è così potuta giungere a Milano in tempo per essere mandata in Savoia all’inizio di maggio con le “prese”. Della lettera del 9 giugno di Antonio da Trezzo esiste quella che a pagina 643 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore definisce “Copia reformata dei primi due capoversi”, che però è curiosamente datata 10 giugno, come peraltro rilevato dallo stesso studioso, ossia “Datum Neapolis, die X iunii 1458”, all’inizio della quale non si è tralasciato di riportare la ricezione della lettera tratta della minuta ducale del 19 maggio. Per la verità Francesco Senatore ha intitolato un testo precedente al suddetto I volume, che è stato pubblicato nel 1997, Falsi e “lettere reformate” nella diplomazia sforzesca. Poi alle pagine 229-230 di quest’ultimo scrive: “Le lettere provenienti da Napoli o da altri stati potevano essere corrette e opportunamente adattate (‘reformate’) per venire poi spedite in visione in altri stati o mostrate ai relativi ambasciatori, sotto forma di copie o di estratti”. Premesso che rispetto al suddetto documento del 10 giugno, che presenta solo due capoversi rispetto ai cinque della lettera del 9 giugno, forse la denominazione più corretta sarebbe “estratto”, tuttavia, poiché esso reca l’intestazione “Copia ad illustrissimum dominum ducem Mediolani etc.”, di cui peraltro a pagina 643 Francesco Senatore non trascrive la lettera “d.” per “dominum”, in effetti, nonostante l’intestazione ma anche per via di quest’ultima, forse la definizione più corretta sarebbe “estratto nel quale la copia ha riguardato solo due capoversi”.

Lo studioso segnala anche che nel verso sarebbe scritto “di grafia coeva” “Copia litterarum domini Antonii de Tricio”. In realtà, a parte il fatto che la proposizione “de” non c’è, vi è scritto “Copia litterarum domini Antonio Tricio”. Sopra le lettere abbreviate “dni” vi è infatti un segno abbreviativo, consistente in una sorta di linea tendente dal basso verso sinistra all’alto verso destra, che inizia da circa metà della “n” con una specie di uncino rivolto verso il basso terminando con un cerchiolino che non può che riferirsi alla successiva lettera “A.”, anche se si trova all’inizio di essa. Questa osservazione è confermata dal fatto che la precedente parola “litterarum” è resa con le lettere “lra” sopra le quali è presente un segno abbreviativo e che esse sono seguite da un segno abbreviativo con significato proprio per le lettere “rum”. Il problema è che il primo segno comincia verso la fine della “r”, non al suo inizio, come dovrebbe essere secondo quanto si può osservare a pagina 206 del Dizionario di abbreviature latine ed italiane di Adriano Cappelli, e finisce con un uncino rivolto verso l’alto situato più avanti rispetto al segno abbreviativo con significato proprio, quasi sopra la “d” del sostantivo “domini” abbreviato, sempre in modo diverso rispetto a quanto riportato da Adriano Cappelli, secondo il quale la linea sopra le lettere “lra” non dovrebbe andare oltre la vocale “a”. In questo modo si vuole suggerire al lettore che il cerchiolino del successivo segno va riferito alla vocale “A.”, la quale non deve essere intesa come se si trattasse del caso genitivo “Antonii”, bensì del dativo “Antonio”. Un’ulteriore conferma di quanto appena scritto è data dal fatto che il segno abbreviativo sopra le lettere “dni” potrebbe essere interpretato come una consonante “d” tracciata in orizzontale, quasi a richiamare quella “d” della preposizione “de” riportata da Francesco Senatore, ma in realtà assente, il cui cerchiolino dovrebbe trovarsi dopo la “A.”, volendo così di nuovo suggerire che quest’ultima va intesa come “Antonio” e non “Antonii”.

En passant segnaliamo che alle pagine 230-231 del saggio sopra menzionato, riferendosi ad alcuni documenti di Antonio da Trezzo mostrati dal “maggio 1456” “agli ambasciatori genovesi a Milano” o recapitati a Genova al doge, lo studioso parla di “copia falsificata”, definizione che però pare un po’ ambigua, soprattutto se si considera quanto scritto subito dopo, ossia “come ad esempio risulta evidente se si legge un’annotazione sulla lettera di da Trezzo del 25 ottobre ‘ista reformata fuit et missa fuit copia domino Petri Cotte Ianue die XXII novembris 1456’”. Per la verità non sembra così “evidente” che una copia, soprattutto se si dichiara tale, possa essere considerata un falso, tanto è vero che nella nota 21 alle pagine 229-230 si legge: “Reformare era il termine usato abitualmente per indicare la correzione di bozze di accordi o trattati internazionali da parte di una delle parti […] Nei carteggi la falsificazione è definita con il verbo contraffare”. Fra l’altro all’inizio del terzo capoverso della lettera del 9 giugno si legge: “Heri circa le XXI hora visitai la maiestà sua et feceli certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello”, il quale aveva compiuto un viaggio andando prima dal re di Francia, poi in Borgogna presso Filippo il Buono e il delfino. Il riferimento ad Alessandro Sforza è assente nella “copia reformata” del 10 giugno. Il 10 giugno, data della “copia reformata”, Antonio da Trezzo scrive una lettera in cui in modo più ampio rispetto alla sua missiva del 9 giugno, da cui è stata appunto tratta la “copia reformata” ma datandola curiosamente in modo diverso, riporta l’ambasciata fatta al re per conto di Alessandro Sforza. Si noti che la missiva del 10 giugno non è pubblicata nel citato I volume dei Dispacci sforzeschi da Napoli, mentre in modo un po’ curioso lo è a pagina 648 il poscritto, del quale si dice: “poscritto a una lettera di pari data (ivi [ASM, SPE, Napoli], 198, 157)”, “157” che corrisponde alla numerazione moderna appunto della lettera del 10 giugno. Nel primo capoverso di essa si legge: “Lo illustre signor Alesandro, vostro fratello, me ha mandato una lettera de credenza in mia persona al signore re et un’altra ad mi directiva ad questa inclusa. Ho exposto alla maiestà del re l’ambassata che sua signoria me commette et in tal modo che credo havere satisfacto al prefato signore re et così alla signoria vostra per quello che già se disse qua, che vostra signoria havea mandato esso signor Alexandro per praticare etc. Nam essa maiestà me respose ch’el fosse el bene tornato et che lo ringratiava de lo aviso et le proferte ch’el gli faceva et se gli offeriva, potendo fare cosa che li piacia, et subiunxe ch’el non poria credere ch’el fosse andato per fare opera alcuna molesta alla maiestà sua, rendendose certo che vostra signoria non l’haveria consentito, come più largamente ad esso signor Alexandro ho scripto”. Come si può osservare, vi sono tre occorrenze del nome Alessandro, precedute dalla “s.” per “signor”: alla prima riga si trova “Alesandro”, alla quarta “Alexandro” e alla fine della settima “Alex” che sopra la “x” presenta un segno abbreviativo. Si noti che nell’ottava riga si legge solo “ho scripto”. Per sottolineare che l’obiettivo che ci si propone consiste nel mettere in risalto la lettera “x”, ci si potrebbe anche fermare qui. Per sicurezza preferiamo però esaminare anche il secondo capoverso, nel quale, se è vero che nella seconda riga in seconda posizione si trova “Alesandro”, prima di esso vi è però “meser”, che alla fine della prima riga è preceduto dall’abbreviazione “s.” con le lettere “re” poste in apice, quindi da “signore” e non “signor” abbreviato con la “s.” come nelle tre precedenti occorrenze. Si consideri, inoltre, che, allo scopo di sottolineare la differenza, al termine della nona riga “El s.” con le lettere “re” in apice si trova quasi in parallelo con “s. Alex” che sopra la “x” presenta un segno abbreviativo alla fine della settima riga. Inoltre al termine della quattordicesima riga sono scritte le parole “prefato signor Alesandro” con “signor” reso di nuovo con una “s.”, che si leggono anche al termine della quindicesima riga seguite dal participio “consideratis”, dopo il quale all’inizio della riga successiva vi è “considerandis”. Il problema è che quest’ultima parola è scritta per esteso, mentre “consideratis” presenta le lettere “con” rese con il segno abbreviativo “9”. Il “9” che sta per “con” e le lettere “con” scritte per esteso precedono la lettera “s”, volendo così evidenziare che il precedente nome Alessandro è scritto a volte con la “s” e altre con la “x”, con l’intento di porre l’accento su quest’ultima lettera e far capire che la missiva, datata 10 giugno, come la cosiddetta “copia reformata”, è anch’essa una copia, redatta dopo avere ricevuto una minuta da Milano. Questa considerazione è confermata dal poscritto. In esso si legge: “Post scripta. Tallam[.]anca in quest’hora me è venuto a trovare a casa et me ha dicto che heri circa le XX hore la febre assaltò gravemente el re”. Segue la descrizione dell’attacco di febbre che ha colpito il sovrano. Aprendo una breve parentesi su un tema che approfondiremo in seguito, occorre notare che nel nome Tallam[.]anca fra la “m” e la “a” è presente un segno, assente nel cifrario di Antonio da Trezzo pubblicato a pagina XIX del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli di Francesco Senatore, che consiste in un cerchiolino seguito da una croce. Quello che più gli si avvicina, pur essendo al contrario, è uno dei segni con i quali vengono rese le nulle (quest’ultimo è il termine presente nel cifrario; a pagina 400 di Uno mundo de carta Francesco Senatore accenna invece alle “nullae o litterae nihil significantes”, che nelle lettere in cifra sarebbero state distribuite “a caso nel testo” “per maggiore sicurezza”), che consiste in una croce seguita da un cerchiolino. In ogni caso, tornando al tema dal cui siamo partiti, la data riportata nel poscritto è la seguente: “Datum ut in litteris, die X iunii 1458”. Essa è davvero inconsueta, perché di norma in un poscritto si legge “Datum ut in litteris”, come per esempio nei due allegati alla missiva datata 9 giugno. Benché all’inizio di questi ultimi non sia scritto “Post scripta”, è piuttosto evidente che essi si configurano come due poscritti: alla fine del testo di entrambi si trova infatti “Datum ut in litteris”. Il motivo della curiosa formula “Datum ut in litteris, die X iunii 1458” del poscritto, in cui viene omesso il toponimo, che nella presentazione del documento da parte di Francesco Senatore a pagina 648 del I volume dei Dispacci sforzeschi da Napoli” è scritto “[Neapoli]”, fra parentesi quadre che non possono non lasciare perplessi, considerata la missiva datata “Neapolis, X iunii 1458” cui lo stesso poscritto viene collegato dal medesimo studioso, consiste proprio nel dare risalto al numero “X” della data. Con lo stesso obiettivo, mentre alla fine la datazione è priva del toponimo, all’inizio il testo presenta la vaga espressione “in quest’hora”, ora che però non è identificabile in alcun modo in base a esso. Si vuole così confermare che la lettera datata 10 giugno, come la cosiddetta “copia reformata”, è anch’essa una copia scritta sulla base di una traccia proveniente da Milano e analoga considerazione è possibile compiere a proposito del poscritto. Quanto appena affermato è confermato dalle parti in cifra che presenta la missiva del 9 giugno. Le loro decifrazioni si trovano in due fogli, indicati da Francesco Senatore a pagina 643 del citato I volume come “[B]”, mentre lo studioso identifica come “[A]” l’“Originale autografo”. Nel primo, che reca la numerazione moderna 155, ve ne sono cinque, nel secondo, numerato 156, tre, in quanto mancano le due dei documenti allegati.

Premesso che non è ben chiaro il motivo per il quale si sia fatto ricorso a una duplicazione dei fogli, per quanto sia parziale, anche se sarebbe possibile avanzare un’ipotesi, dato che le due decifrazioni in più del foglio 155 riguardano il “vescho de Modena” e nella seconda si legge che “Talamanca […] me dice che uno de li medici del re gli ha dicto ch’el fo scripto da Roma qua ch’el dicto veschovo era dimorato sei o otto giorni in Roma, nel quale tempo stette assai col papa”, la prima decifrazione è identica in entrambi di essi, mentre la seconda del foglio 155 è la seguente: “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se sonno ingegnati de fare intendere al duca ed de questo ne hanno facto venire littere da Roma”, che nel foglio 156 presenta un incipit differente: “Me è stato dicto che questi brazeschi se sonno ingegnati de fare intendere al duca et de questo ne hanno facto venire littere da Roma”. En passant notiamo che la decifrazione corretta sarebbe “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se son[o] ingiengnat[i] de fare intendere al duba et de questo ne hanno [f]acto venire letere da Roma ch’el”, che in sostanza è quella riportata a pagina 646 da Francesco Senatore, il quale però nella nota (a) si limita a segnalare “duca B; duba A, per scambio tra cifre simili” (è stato tracciato il segno “ga” al posto di “ge”), quindi, sbagliandosi, ha riportato “dito” al posto di “dicto”, non ha segnalato che le parole “sono”, “ingiengnati” e “letere” in B si leggono “sonno”, “ingegnati” e “littere” e infine non ha rilevato che in B la decifrazione termina con “Roma”, mentre in realtà prosegue con “ch’el”. Inoltre, per essere precisi, rileviamo quanto segue: in base al cifrario di Antonio da Trezzo il segno per la “o” finale di “son[o]” dovrebbe essere costituito da due brevi linee oblique tendenti verso l’alto a destra dalla seconda delle quali, circa verso la metà, si diparte una breve linea obliqua volta verso il basso, che però nel testo in cifra risulta essere orizzontale; la “i” finale di ingiengnat[i]” dovrebbe consistere in una sorta di linea tremolante con sopra, a sinistra, una specie di cerchiolino dal quale esce, per così dire, una linea obliqua tendente verso il basso che interseca la linea tremolante, ma nella parte in cifra la linea rivolta verso l’interlinea è assente; infine la “f” di “facto” dovrebbe essere rappresentata con una croce e un punto al centro di un immaginario quadrato presente in alto a sinistra, ma nel testo in cifra esso non si vede in alcun modo. In ogni caso, tralasciando queste considerazioni, la terza decifrazione è sostanzialmente identica nei due fogli, anche se nel 155 si legge “sono” e “convene” e nel 156 “sonno” e “conviene”. Trascurando il fatto che, come detto, il foglio 155 presenta cinque decifrazioni e il secondo solo tre, la differenza maggiore tra i due consiste dunque nell’incipit della seconda decifrazione, all’inizio della quale nel foglio 155 è menzionato “Talamanca me ha dicto”, il cui nome in cifra viene ripreso nel poscritto del 10 giugno anche se scritto Tallam[.]anca, si trova subito dopo “Post scripta” ed è decifrato “Tallamanca” vicino al bordo superiore del foglio, spostato verso sinistra, risultando quindi sopra, anche se a una certa distanza, rispetto allo stesso nome in cifra. In realtà, come si sarà capito in base a quanto sopra anticipato, la decifrazione fornita non è corretta per via del segno presente nel nome in cifra, sopra segnalato fra parentesi quadre, assente nel cifrario di Antonio da Trezzo. Lascia pertanto perplessi il fatto che a pagina 648 Francesco Senatore, il quale pare avere decifrato le parti in cifra, in questo caso scriva “Tallamanca”, fra l’altro prima precisando “Nome in cifra decifrato nell’interlinea”, quando invece la decifrazione si trova da tutt’altra parte. Cercando di riassumere, all’inizio del terzo capoverso della lettera datata 9 giugno Antonio da Trezzo scrive: “Heri circa le XXI hora visitai la maiestà sua et feceli certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello”. Quindi l’ambasciatore ha parlato con Alfonso il Magnanimo di Alessandro Sforza il giorno precedente, ossia l’8 giugno. Aprendo una rapida parentesi, notiamo che Antonio da Trezzo aggiunge: “Me parve che, da l’altra volta ch’io haveva veduto essa maiestà, quella fosse molto mancata et in modo che me pare più pres[.]o sia da d[ug]itare de la morte che sp[..]are de (v)ita, ma, mancando, me pare essere certo ch’el duca de Calabria succederà nel Stato”. La decifrazione presente nei fogli 155-156 è la seguente: “et in modo che me pare più presto sia da dubitare de la morte che sperare de la vita, ma, mancando”. A pagina 644 a una lettura superficiale Francesco Senatore parrebbe avere seguito quest’ultima, anche se la congiunzione iniziale “et” è in tondo e non in corsivo, tuttavia, poiché fra “de” e “vita” è assente l’articolo “la”, è corretto inferire che abbia provveduto a decifrare personalmente il testo. In nota non ha però segnalato quanto segue: nella parola “presto” la “t” è resa con il segno “a”, il quale in realtà non può stare in alcun modo per quella lettera né per la verità per nessun’altra, anche se al limite si potrebbe trovare una somiglianza con il segno per la sillaba “ep”, che nel cifrario consiste però in una “a” che a destra in basso presenta una breve linea orizzontale, che però è molto più pronunciata rispetto a quella visibile nel testo in cifra, la quale è solo accennata; nel verbo “dubitare” la sillaba “ub” non è resa con il corretto segno “ga”, ma con quello “gu”, che sta per “vg”, anche se in quest’ultimo le due lettere sono collegate in alto da una breve linea orizzontale che non dovrebbe esservi ed è invece presente nel segno “ga”; per quanto riguarda la successione di lettere “vg”, poiché nella lingua italiana di essa non vi possono che essere rarissime occorrenze, ammesso ve ne siano in alcune parole, è evidente che in realtà la “v”, benché nel cifrario sia indicata come tale, dovrebbe stare per la vocale “u”, come pare suggerire lo stesso cifrario, anche se in modo ambiguo: in esso, infatti, al segno “ga” corrispondono le lettere “ub”, a “ge” “uc”, quindi a “gi” “vd”, poi seguono nove segni caratterizzati dalla “g” che stanno per due lettere la prima delle quali è sempre una “v”, finché si arriva ai segni “g+” e “gg” corrispondenti rispettivamente alle sillabe “ve” e a “vu”; nel verbo “sperare” le lettere “er” sono rese con un segno in realtà assente nel cifrario, ossia una “a” che a destra a mezza altezza presenta una breve linea orizzontale, la quale tuttavia dovrebbe trovarsi in alto; nelle parole “de vita” la “e” e la “v” sono rese con il segno “a” sopra il quale vi è una “r”, corrispondente alle vocali “eu”, la cui seconda lettera, tuttavia, per analogia con quanto scritto sopra a proposito della consonante “v” da leggersi come una “u”, può essere intesa come una “v”. Per concludere con un’inezia, segnaliamo che dopo la parola “vita”, lo studioso ha posto un punto e virgola, rispetto al quale sarebbe stato preferibile una virgola, considerato che segue la congiunzione avversativa “ma”. Riprendendo il discorso in merito all’ambasciata fatta da Antonio da Trezzo per conto di Alessandro Sforza, il problema, che affronteremo più avanti, è che verso la metà della seconda riga del capoverso precedente, che quindi è il secondo della lettera e composto da quattro righe, si legge: “Heri matina li medici gli [alla “prefata maiestà”] dedero certe pilule, le quali, perché non operavano, l’aiutarono con uno clistero, in modo che fin ad quest’hora, che è le XVIII, sua maiestà è stata assay bene. De quello seguirà avisarò la excellentia vostra”. Per ora ci limitiamo a rilevare che il secondo e il terzo capoverso sono in evidente contraddizione. È vero che non si specifica l’ora in cui il re è stato aiutato “con uno clistero”, ma si può escludere che essa sia successiva a “circa le XXI hora” in cui Antonio da Trezzo ha visitato Alfonso il Magninimo per fargli l’ambasciata per conto di Alessandro Sforza, notando che “essa maiestà […] fosse molto mancata”, addirittura al punto che gli era parso “più pres[.]o sia da d[ug]itare de la morte che sp[..]are de (v)ita”, perché poco prima si dice che “li medici” hanno iniziato a occuparsi di lui sin dalla “matina” e si può quindi inferire con ragionevole certezza che il salutare “clistero” sia stato fatto prima di “circa le XXI hora”. Chiudendo la parentesi e cercando di nuovo di riassumere, “circa le XXI hora” dell’8 giugno Antonio da Trezzo si reca presso il re inviato da Alessandro Sforza, l’informazione viene riferita in modo succinto nel terzo capoverso della lettera datata 9 giugno, che il capoverso precedente ci permette di capire essere stato redatta “ad quest’hora che è le XVIII”, anche se quest’ultima informazione di carattere temporale insieme all’altra citata risulta problematica rispetto a quali siano le esatte condizioni di salute del sovrano. La missiva del 9 giugno è accompagnato da due fogli, di cui è impossibile identificare il momento della stesura, con le decifrazioni delle parti in cifra del testo della lettera stessa. Fra i due fogli balza agli occhi in quello con la numerazione moderna 155 la seconda decifrazione, che inizia con “Talamanca me ha dicto”, mentre nel foglio 156 la stessa decifrazione comincia con le parole “Me è stato dicto”. Della missiva del 9 giugno vi è poi una cosiddetta “copia reformata”, che però è datata 10 giugno, giorno che costituisce la data di due documenti che recano la numerazione moderna 157 e 158 e la firma di Antonio da Trezzo: nel primo capoverso del documento 157, che è composto da due capoversi, si riferisce dell’ambasciata effettuata due giorni prima presso Alfonso il Magnanimo per conto del fratello di Francesco Sforza; il documento 158 è invece un poscritto costituito da due capoversi nel primo dei quali si racconta del nuovo grave attacco di febbre del re: quest’ultimo inizia con il nome “Tallam[.]anca” seguito dall’espressione “in quest’hora”, la quale non è però possibile identificare in base al testo, e si conclude con la curiosa datazione “Datum ut in litteris, die X iunii 1458” in cui manca il toponimo. Cercando per il momento di circoscrivere il discorso, rileviamo come con la seconda decifrazione del foglio 155 il cui incipit è “Talamanca me ha dicto”, diverso da quella presente sul foglio 156, si prepari il lettore al poscritto, nel quale subito dopo “Post scripta” è scritto il nome “Tallam[.]anca” decifrato però “Tallamanca”. L’eventuale obiezione che il collegamento fra la seconda decifrazione del foglio 155 e il poscritto sia arbitrario perché nel primo la quinta decifrazione comincia anch’essa con il nome “Talamanca” non può essere accolta, perché quello che importa è la differenza rilevata fra gli inizi della seconda decifrazione presente nei fogli 155 e 156: poiché le parole “Me è stato” di quest’ultimo sono del tutto inventate, è evidente che si vuole dare rilievo all’incipit “Talamanca me ha” del foglio 155, che costituisce la decifrazione corretta, e soprattutto al nome “Talamanca“. Ribadendo che per ora ci limitiamo nelle osservazioni, il fatto che, rispetto alla seconda decifrazione del foglio 155, il nome in cifra sia caratterizzato da una “l” in più e all’opposto da un segno non presente nel cifrario di Antonio da Trezzo, la cui assenza è sottolineata dal fatto che si trova inserito all’interno della terza persona singolare del verbo “mancare” che costuisce parte dello stesso nome, mira a sottolineare la vaghezza dell’espressione immediatamente successiva “in quest’hora”, che, come abbiamo già rilevato, va posta in relazione alla curiosa datazione finale priva del toponimo per dare risalto al numero “X” della data. Poiché quest’ultimo è lo stesso della cosiddetta “copia reformata”, si vuole ribadire che il poscritto e inevitabilmente anche il documento cui esso va associato sono copie redatte sulla base di una minuta giunta dalla cancelliera sforzesca. Volendo limitarsi nelle considerazioni, ci si potrebbe fermare qui, ma in realtà riteniamo non sarebbe corretto. Iniziamo quindi il ragionamento dal secondo capoverso del poscritto, che costituisce la settima riga e l’ottava del documento, nel quale si legge quanto segue: “Lo iudeo, che dice intende molte cose future, dice ch’el vuole gli sia tagliata la testa s’el re more de questo male”. In questa fase non ci pare necessario cercare di identificare con certezza a chi ci si possa riferire con il sostantivo “iudeo”. Magari potrebbe essere Gesù, cui si alluderebbe per via indiretta con un accenno a Giovanni Battista, di cui alle pagine 204-205 del Dizionario dei soggetti e dei simboli dell’arte di James Hall si dice: “Precursore o nunzio di Cristo, costituisce la connessione fra l’Antico e il Nuovo Testamento, essendo considerato l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento e il primo santo del Nuovo […]”. Si aggiunge inoltre che battezzò Cristo e “Venne fatto imprigionare da Erode Antipa, figlio di Erode il Grande”, “che aveva sposato Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, e il Battista disapprovava ciò”; per questo motivo “fu fatto imprigionare dal re su istigazione della regina” e “poi fu decapitato a causa di una promessa fatta impulsivamente dal tetrarca alla figliastra Salomè”: “Durante un banchetto fatto allestire dal re”, infatti, “la figliastra Salomè danzò davanti a lui. L’entusiasmo di Erode fu tale che impulsivamente promise alla giovane che le avrebbe accordato qualunque favore avesse chiesto. Allora Erodiade, per vendicarsi del Battista, fece chiedere alla figlia la testa di Giovanni sopra un piatto. Erode, benché contrariato, tenne fede alla promessa”. Alle pagine 175-176 del Lessico di iconografia cristiana di Gerd Heinz-Mohr, Giovanni Battista viene inoltre definito “annunciatore del prossimo inizio del regno del Messia” e si precisa che “L’antica teologia cristiana gli diede, come ultimo profeta, il rango particolare di ‘precursore’ di Cristo”. In ogni caso, tralasciando quanto appena scritto, al momento ci pare più interessante sottolineare la ripetizione del verbo “dice”, la cui seconda occorrenza si trova non certo a caso sopra il numero romano “X” della particolare data del documento. Si vuole così far capire che il verbo può essere inteso anche come “dece”, ossia come un riferimento al numero 10. A questo punto si può passare a prendere in considerazione l’iniziale nome “Tallam[.]anca”, il quale da un lato rimanda all’ultimo capoverso della lettera datata 9 giugno, composto da otto righe, in cui tra la seconda e la quarta si legge che “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se son[o] ingiengnat[i] de fare intendere al duba et de questo ne hanno [f]acto venire letere da Roma ch’el”, mentre nella seconda decifrazione del foglio 155 è scritto “Talamanca me ha dicto che questi braceschi se sonno ingegnati de fare intendere al duca ed de questo ne hanno facto venire littere da Roma”, dall’altro con il suo segno mancante nel cifrario di Antonio da Trezzo al fatto che subito dopo il nome è riportata, come già sottolineato, la vaga espressione “in quest’hora” seguita da una descrizione della forte febbre che ha colpito il re: essa a sua volta richiama il secondo capoverso della lettera del 9 giugno nel quale si legge “che fin ad quest’hora, che è le XVIII, sua maiestà è stata assay bene”, che tuttavia è essa stessa vaga, in quanto problematica rispetto a quella menzionata nel capoverso successivo, nel quale, dopo avere scritto di avere fatto “certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello”, l’ambasciatore sforzesco si esprime in modo molto preoccupato rispetto alle condizioni di salute di Alfonso il Magnanimo. Precisiamo che il fatto che il segno assente nel cifrario sia al contrario rispetto a uno di quelli che sta per le nulle non significa che esso debba avere un’applicazione, per così dire, specifica dal punto di vista temporale, nel senso che non vi è alcun indizio che permetta di affermare con certezza che si voglia far capire che il poscritto sia stato scritto prima del documento al quale è associato, nel cui primo capoverso si racconta dell’ambasciata effettuata per conto di Alessandro Sforza, né che le informazioni contenute nel secondo e nel terzo capoverso della lettera del 9 giugno vadano intese in una qualche particolare sequenza, perché in realtà esse sono così contraddittorie che non è possibile ordinarle in alcun modo. Analoga considerazione si può fare riguardo al senso: rispetto sia ai due capoversi della missiva del 9 giugno, nei quali in sostanza si parla della salute di Alfonso d’Aragona e non si capisce quale mai potrebbe essere un’eventuale “storia alla rovescia” cui si volesse accennare, sia al primo capoverso del documento datato 10 giugno, cui rimanda il poscritto, nel quale fra la quarta e la settima riga si legge: “Nam essa maestà […] subiunxe ch’el [Alessandro Sforza] non poria credere ch’el fosse andato per fare opera alcuna molesta alla maiestà sua, rendendose certo che vostra signoria non l’haveria consentito”. A proposito di quest’ultimo aspetto, nella lettera del fratello di Francesco Sforza datata 26 maggio e inviata ad Antonio da Trezzo si legge: “per farvi intendere la casone de questa mia ambassata […], ve aviso che […] el fo per havere trovato de qua certa fama ch’io era homo et capitaneo del re di Francia, el quale io visitai, sì como feci ancora el duca de Borgogna et el dalphino, per non commettere una negligentia grande, la quale me pareva incorrere passando per loro terrenno senza visitare la maiestà et signorie predicte, ad effecto che vui possate porgere el facto mio in modo che la maiestà del re intenda la fama non solo non essere vera, ma essere stata omninamente fora del mio proposito […]. Vagheza de vedere paesi, costumi, signorie et altre cose notabile fora del mondo nostro me hanno tracto per tutto dove son andato”.

Nelle parole di Alessandro Sforza non si può ravvisare una “storia alla rovescia”, ma solo una breve esposizione non molto approfondita del suo viaggio, senza fornire particolari dettagli, e analoga considerazione si può fare rispetto alla “certa fama” secondo cui “era homo et capitaneo del re di Francia”, che non si può intendere come se al contrario egli fosse divenuto un uomo del delfino, che si trovava presso Filippo il Buono, in quanto in realtà nel tempo che fra l’inizio del 1458 e circa la metà di marzo trascorse in Borgogna egli per conto del fratello contribuì in modo determinante alla formazione della Lega di Borgogna, posta sotto l’ala protettrice del delfino, di cui parla Antonio da Cardano all’inizio di una sua lettera dell’8 giugno e diretta a Francesco Sforza, nella quale si legge che “lo .. duca de Bergog[n]a, lo re de Inglitera, la maiestà del re de Aragona e lo .. dnca de Sanoya hano fato liga insema et che adesso l’ambasaria del .. dnca de Sanoya va Milano per fare liga cum l’illustrissimo signore duca de Milano a destructio[n]e del re de Franza”.

Per aprire una parentesi, può essere il caso di notare che alla fine del secondo capoverso di una lettera del 29 maggio di Giacomo Antonio Della Torre e Antonio da Trezzo si legge: “La prefata maiestà del re pur se extese in dirne quanto el senteva de li apparechi se fanno contra la maiestà del re de Franza sì da inglesi come dal dalfino, inferendo che sua maiestà haverà tanto da fare a casa sua che poco potrà attendere ad le cose de Zenoa”. Riferendosi alle suddette parole, nella nota 3 a pagina 638 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive: “Nella prima metà del 1458 il timore di un attacco inglese, che spinse il re di Francia a intensificare i preparativi difensivi, fu accresciuto dalle notizie di contatti del partito yorkista con il duca di Borgogna, presso il quale si trovava il delfino di Francia”, citando poi “[Beaucourt 260]”, ossia il VI tomo dell’Histoire de Charles VII di Gaston du Fresne de Beaucourt. In realtà, però, se si verificano le fonti menzionate da Beaucourt nella nota 5, non possono non sorgere fortissime perplessità riguardo al fatto che fosse coinvolto il solo “partito yorkista” inglese e non invece anche il re Enrico VI, come d’altra parte fa pensare la parola “inglesi” impiegata nella stessa missiva del 29 maggio. A pagina 260 lo storico francese scrive: “Au mois de juin, des conférenceces furent tenues à Calais entre le comte de Warwick et des ambassadeurs du duc de Bourgogne [5], qui ne tarda pas à envoyer une ambassade en Angleterre [6]. Il est fort probable que, dès ce moment, une convention secrète fut passée par le duc avec le parti Yorkiste”. Alla nota 5 si legge: “Le 14 mai, Henri VI donnait des pouvoirs au comte de Warwick et à d’autres ambassadeurs (Carte, Rolles Gascons, t. II, p. 442 [qui vi è un refuso, perché la pagina è in realtà la 342]) et un sauf-conduit aux ambassadeurs du duc (Rymer, t. V. part. II, p. 80). Ceux-ci furent employés à cette négociation du 27 mai ai 1er juillet (Archives du Nord, B 2030, f. 235 v° et 245). Le 3 juin ils étaient à Calais (Paston Letters, t. I,.p. 428), où, sous prétexte du renouvellement des trèves, ils agitèrent des questions politiques (Chastellain, t. III, p. 427-28)”. Poi alla nota 6 è scritto: “Sauf-conduits de Henry VI en date du 12 juillet 1458. 48th Report of the Deputy Keeper, p. 428 et 429”. Se si può ritenere certo che a Calais “ils agitèrent des questions politiques”, è invece del tutto impossibile inferire che “dès ce moment, une convention secrète fut passée par le duc avec le parti Yorkiste”. È da notare che, come si legge nei Rolles Gascon, il 14 maggio Enrico VI manda “Ricardo Comiti Warwic”, ossia Richard Neville, conte di Warwick, insieme ad altri “ad tractandum cum Commissariis Ducis Burgundiae”. Nello stesso giorno una sezione del Rymer reca il titolo “De Salvo Conductu pro Commissariis Burgundie”, fra i quali vi è “Iohannem de Burgundia, comitem d’Estampes”. Nello stesso Rymer si legge quanto segue: “Cum per aliquos, pro Parte nostra ad hoc Commissos & Deputatos, teneri & celebrari debeat certa Dieta Conventionis, cum Commissariis pro parte carissimi Consanguinei nostri Ducis Burgundie deputatis, in Villa nostra Calesii, aut alibi in Territoriis circumvicinis, super Materiis Bonum publicum & Utilitatem Patriarum, Dominiorum, & Subditorum tàm unius Partis quàm alterius concernentibus”. Il testo è in parte confermato nei Rolles Gascon, in una cui sezione si legge: “Salvus conductus pro […] Nuntiis Ducis Burgundiae apud Calesiam veniendis, ubi dieta conventionis cum Commissaris Regis celebratur”, mentre a pagina 428 dei Deputy Keeper viene riassunto in modo piuttosto esplicito, ossia come segue: “Safe-conduct for John of Burgundy and other commissioners of the duke of Burgundy, coming to Calais to treat of matters touching the interests of England and Burgundy”. Considerato quanto appena letto, è inverosimile pensare che Enrico VI non sospettasse che vi potesse essere il rischio che nel corso della “Dieta” a sua insaputa si trattasse di “une convention secrète […] par le duc avec le parti Yorkiste”. È in sostanza impensabile che, non rendendosi conto del pericolo cui stava esponendo se stesso e Carlo VII, qualora a quest’ultimo fosse legato, il re d’Inghilterra abbia inviato suoi avversari interni, come in teoria era Richard Neville, conte di Warwick, a trattare con il duca di Borgogna Filippo il Buono, al momento presunto nemico esterno. Si ammetterà che nel quadro descritto vi è qualcosa che non torna. In realtà, come spiegheremo più avanti, dopo la “giornata d’amore” del 25 marzo 1458, il cui vero senso è quello spiegato all’inizio della lettera di Corradino Giorgi datata 28 aprile, nella quale si legge che i “baroni e signori de Inglitera, quali havevano una grosa et grandisima diferencia fra loro, hano facto bono acordio e pace insema”, il re d’Inghilterra in modo perfettamente consapevole manda il conte di Warwick a limare gli ultimi aspetti dell’alleanza anti-Carlo VII per la cui stipulazione, come si è scritto sopra, erano stati determinanti i primi mesi dell’anno grazie anche al contributo di Alessandro Sforza. Si potrebbe obiettare che Enrico VI avesse problemi di salute mentale, ma alle pagine 504 e 505 del VII volume della Storia del mondo medievale si legge che gli ultimi risalivano ormai alla fine del 1455. Rispetto a quanto scritto sopra rileviamo che nel primo capoverso di una lettera di Bartolomeo da Recanati appartenente a un copiario datata 29 maggio, quindi come la missiva di Antonio da Trezzo sopra citata, diretta ad Alfonso il Magnanimo e la cui prima pagina reca la numerazione moderna “172”, si legge: “Al signor Guglelmo, el quale è qui, vene una lectera del marchese de Monferra per la quale gle scrive havere nova de Franza come englesi et scoti hanno facto triegua per dui anni et che le differentie de englesi sonno concordate in modo che setene per certo che debiano fare preparatorio de invadere la Franza, perché era divulgata fama che re de Franza era in extremo de morte. De tale novella qui non è notitia da altra parte”. Come si può notare, benché si precisi che “De tale novella qui non è notitia da altra parte”, si dice che “le differentie de englesi sonno concordate”, informazione che va nella direzione della missiva dell’8 giugno di Antonio da Cardano, nella quale fra coloro che “hano fato liga insema” si menziona “lo re de Inglitera”, e delle fonti citate da Beaucourt se lette nel modo che pare più logico, senza dire che subito all’inizio della già citata missiva di Corradino Giorgi del 28 aprile spedita da Ginevra si legge che, “Adciò vostra signoria scia advisata dele XXX novele se dicheno in queste parte, sce dice gli baroni e signori de Inglitera, quali havevano una grosa et grandisima diferencia fra loro, hano facto bono acordio e pace insema, presente et consenciente la maiestà del re d’Ingliterra, et per consolacione e alegreza de ciò el dì dela Anunciata de nostra Dona prxime pasata feceno una notable e bela procesione, che mai non fo veduta la più bela né la più solemne”. Ci si riferisce al giorno dell’Annunciazione del 25 marzo precedente e a quella che a pagina 505 del menzionato VII volume della Storia del mondo medievale viene definita “giornata d’amore”, anche se di essa si dice qualcosa che, considerata la successiva adesione del re d’Inghilterra alla Lega di Borgogna, lascia non poco perplessi, ossia che “fu inscenata a Londra, nella cattedrale di St Paul, una pacificazione fittizia […] che peraltro non interruppe i preparativi di entrambe le parti per la guerra civile”. Si noti poi en passant che in una “Copia litterarum dominorum rectorum Verone” diretta al doge di Venezia e datata “Verone, XXV aprilis 1458” si legge: “Serenissime princeps et excellentissime domine. Nui habiamo ogi inteso da uno Zovene da Pesaro che habita in questa terra che gobia fu octo zorni ch’el zonse in questa terra alcuni engelesi i qual li disseno esser venuti cum el signor Alexandro, fradel del illustre duca de Milam, fino ad Olmo et haverlo lassato lì zà era zorni XI et che mon sapeva dove fusse el suo viago” (si veda al proposito Marchese da Varese, tre lettere non autentiche, il viaggio di Alessandro Sforza e La simulazione delle aggressioni militari sabaude nell’aprile del 1458). Inoltre, un’altra lettera di Bartolomeo da Recanati datata 30 maggio, sempre diretta ad Alfonso d’Aragona e presente nella pagina numerata “177” del copiario, sembra confermare la “nova de Franza”, ma in realtà bisogna fare attenzione a quanto in essa è riportato, che è quanto segue: “Credo che habiate sentito la nova lega et treuga che fra inglesi et scoti è facta per dui anni contra francesi, per la quale spero che haveranno altro che gractare chi li brichi de la vostra revera”. Bartolomeo da Recanati aveva però parlato di una tregua di due anni fra inglesi e scozzesi e non di una lega né che le due fossero “contra francesi”. In realtà, scrivendo “treuga” invece di “tregua”, ossia invertendo la giusta successione delle lettere “gu”, si vuol far capire che quanto riferito va inteso correttamente, ossia che la tregua di due anni riguarda, come detto, inglesi e scozzesi, mentre è la “lega” che è “contra francesi” (si consideri che a pagina 298 del XXI volume del Grande dizionario della lingua italiana.della voce “Trégua” si fornisce la variante linguistica antica “triégua”, mentre la variante “treuga” è assente). Il problema è che in precedenza non si è accennato ad alcuna “lega”, ma solo al fatto che gli inglesi, accordatisi con gli scozzesi e fra di loro, si ritrovavano in sostanza nelle condizioni di poter infastidire i francesi. La “lega” “contra francesi” non può quindi che essere quella di cui parla Antono da Cardano nella sua missiva dell’8 giugno, nella quale non a caso si accenna anche alla “destructio[n]e del re de Franza”. Si noti en passant che nella nota 226 a pagina 148 di “Uno mundo de carta”, libro pubblicato nel 1998, quindi un anno dopo il I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli, Francesco Senatore scrive: “I copiari di Bartolomeo da Recanati sono ivi [ASM, SPE, Napoli], 198” e come primo copiario menziona quello le cui carte sono “170-197”. Si presume quindi che lo studioso abbia visto il copiario da cui provengono le due missive menzionate del 29 e del 30 maggio. Naturalmente non possiamo sapere se abbia letto tutte le lettere: in quest’ultimo caso, infatti, si sarebbe quantomeno accorto del passaggio della prima missiva, in cui si dice che “le differentie de englesi sonno concordate in modo che setene per certo che debiano fare preparatorio de invadere la Franza” e quindi sarebbe stato molto più cauto e prudente nel prendere spunto da Beaucourt, le cui fonti menzionate nella nota 5 a pagina 260 sono già di per sé problematiche, scrivendo quanto riportato sopra, ossia che “il timore di un attacco inglese […] fu accresciuto dalle notizie di contatti del partito yorkista con il duca di Borgogna”. Prima di chiudere il discorso relativo alla “lega” “contra francesi”, può essere il caso di esaminare la differenza esistente fra le lettere di Ludovico di Savoia datate 24 maggio e mandate da Thonon-les-Bains a Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti relative all’invio di ambasciatori a Milano, tralasciando il fatto che nel testo a un certo punto è presente il segno “#”, che viene richiamato alla fine della lettera e seguito dalla specificazione “et Andream Maleti”. Al duca di Milano Ludovico di Savoia scrive: “Nunc ad vos duximus destinandos reverendos in Christo patres dominos Ludovicum, ex marchionibus Romagniani, episcopum thaurinensem, et Henricum, abbatem Filliaci, necnon magnifficum militem dominum Guioctinum de Nores, cambellanum #, compatresque et consiliarios nostros sincere dilectos”.

Nella missiva a Bianca Maria Visconti si legge invece quanto segue: “Impresenciarum ad vos duximus destinandos reverendos in Christo patres dominos Ludovicum, ex marchionibus Romagniani, episcopum thaurinensem, et Henricum, abbatem Filliaci, necnon magnifficum militem dominum Guioctinum de Nores #, compatres nostros sincere dilectos”.

Come si può notare, gli ambasciatori inviati sono tre: Ludovico di Romagnano, vescovo di Torino, Henri d’Alibertis, abate dell’abbazia di Filly, che era situata nell’attuale comune di Sciez non molto lontana dalla riva del lago di Ginevra, e il cipriota Guiotino de Nores, cui poi si aggiunge Andrea Maletti. Il punto da sottolineare che pare più importante riguarda l’errore contenuto nella lettera al duca di Milano nella quale il sostantivo “cambellanum”, assente nella missiva a Bianca Maria Visconti, non è coordinato in modo corretto con quanto segue per via della congiunzione copulativa enclitica “que” legata a “compatres”, che a senso non dovrebbe esservi e infatti essa manca nella lettera alla moglie di Francesco Sforza. Che si tratti di un errore significativo è confermato dal fatto che le due missive in francese inviate da Anna di Cipro al duca e alla duchessa di Milano, caratterizzate dalla medesima data topica e cronica rispetto alle epistole di Ludovico di Savoia dirette agli stessi destinatari, hanno invece la medesima struttura dal punto di vista dell’analisi logica e grammaticale. In esse si legge infatti in sostanza quanto segue: “Mon tres redoubte seigneur envoye presentement […] reverends peres en Dieu nos tres cheres et bien ames comperes l’evesque de Thurin, l’abbe de Filly et mes seigneur Guiotin de Nores #, es quelx avons commis vous dire aucunes choses de part nous” (nella lettera a Bianca Maria Visconti è scritto “Guioctin” al posto di “Guiotin”). La ragione dipende dal fatto che si vuole attirare l’attenzione sulla lettera del duca sabaudo alla moglie di Francesco Sforza. Priva del sostantivo “cambellanum”, il nome “Nores” si trova subito seguito dalla parola “compatres”, giustamente priva della congiunzione enclitica, con la ripetizione delle ultime tre lettere “res” da intendere come “rex” e da riferire a “Henricum” in quanto re d’Inghilterra. Precisiamo che le inferenze riportate sopra sono rese possibili dal paragone del testo delle due epistole: quello della missiva per Francesco Sforza si caratterizza per alcune peculiarità la cui assenza nella lettera a Bianca Maria Visconti non può lasciare indifferenti. L’importanza delle due epistole, che, come si sarà capito, sono da comparare, consiste nel fatto che in esse Ludovico di Savoia annuncia l’invio dei suoi ambasciatori a Milano, apparentemente per risolvere i problemi legati alla liberazione di Ludovico Bolleri, rispetto alla quale in una lettera datata 1 giugno e inviata da Torino Antonio da Cardano scrive che “domino Giotino disse non se cercha più ultra, facesse quelo è da fare e vadasse pur dricto ad exequire quanto è concluso e ch’el non dubita che ala venuta sua lì ha Milano, una cum .. monsegnore lo vescovo de questa terra e l’abbate de Figlie, che vostra signoria restarà molto contenta”, in realtà “per fare liga cum l’illustrissimo signor duca de Milano a destructio[n]e del re de Franza”, alleanza da inserire nel più ampio contesto della Lega di Borgogna, di cui fa parte “lo re de Inglitera”, da intendersi come Enrico VI e non come Riccardo, duca di York.

Per tornare al segno assente nel cifrario di Antonio da Trezzo tracciato al contrario rispetto a uno di quelli che sta per le nulle, esso non può avere alcuna forma di applicazione nemmeno per l’ultimo capoverso della lettera di Antonio da Trezzo del 9 giugno, che riguarda il “conte Jacomo”, benché in esso di lui si dica, per essere al momento concisi, che “come servitore del duca de Calabria se moveria contra el Stato de la Chiesa”, mentre nella nota 11 a pagina 4 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive che “per conquistare il regno, il pontefice vagheggiava di assoldare la compagnia del condottiero Giacomo Piccinino”, citando come primo documento una lettera di Ottone del Carretto e Giacomo Antonio Della Torre datata 16 giugno 1458, e poi alla fine aggiunge che “La notizia delle intenzioni di Callisto III giunse subito anche a Napoli”, menzionando come fonte una lettera sempre di Ottone del Carretto e Giacomo Antonio Della Torre datata 8 giugno 1458. Il capoverso menzionato, che esamineremo più avanti, non solo non si presta a inversioni temporali di nessun tipo, ma nemmeno a particolari letture “alla rovescia”, perché, benché si accenni al papa, manca un chiaro collegamento ipertestuale, per così dire, alla corrispondenza di Francesco Sforza con Ottone del Carretto. In realtà, come vedremo, il segno mancante nel cifrario di Antonio da Trezzo con la sua particolare caratteristica si riferisce a un’altra corrispondenza, che però si riflette anche nell’epistolario del duca di Milano con il suo ambasciatore a Napoli, almeno per i documenti rispetto ai quali possiamo affermarlo con certezza, che tuttavia autorizzano a porsi domande anche riguardo ad altri, considerata la concatenazione che li caratterizza. A questo punto, per proseguire nel ragionamento, che ha avuto inizio rilevando la ripetizione del verbo “dice” nel secondo capoverso del poscritto, la cui seconda occorrenza è scritta sopra il numero “X” della particolare data del documento, volendo così suggerire che il verbo può essere inteso anche come fosse il numero arabo 10, riteniamo opportuno esaminare il terzo capoverso della lettera del 9 giugno. In esso si legge quanto segue: “Heri circa le XXI hora visitai la maiestà sua et feceli certa ambassata per parte de lo illustre signor Alesandro, vostro fratello. Me parve che, da l’altra volta ch’io haveva veduto essa maiestà, quella fosse molto mancata et in modo che me pare più pres[.]o sia da d[ug]itare de la morte che sp[..]are de (v)ita, ma, mancando, me pare essere certo ch’el duca de Calabria succederà nel Stato, perché talle provisione ha facte et fa ogni hora che indubitamente remarrà signore et patrone de Castelnovo et de quanto gli è dentro”. Prima di prendere di nuovo in considerazione la decifrazione presente nei fogli 155 e 156, per chiarezza è il caso di ricordare gli aspetti della parte in cifra sopra decifrata: nella parola “presto” la “t” è resa con il segno “a”, il quale è assente nel cifrario di Antonio da Trezzo, anche se si potrebbe trovare una somiglianza con il segno per la sillaba “ep”, che nel cifrario consiste in una “a” che a destra in basso presenta una breve linea orizzontale, che però è molto più pronunciata rispetto a quella nel testo in cifra, la quale è appena visibile; nel verbo “dubitare” la sillaba “ub” non è resa con il corretto segno “ga”, ma con quello “gu”, che sta per “vg” e che si può intendere pure come “ug”, anche se nel secondo segno le due lettere sono collegate in alto da una breve linea orizzontale che non dovrebbe esservi, presente invece nel segno “ga”; nel verbo “sperare” le lettere “er” sono rese con un segno assente nel cifrario, ossia una “a” che a destra a mezza altezza è caratterizzata da una breve linea orizzontale, la quale tuttavia dovrebbe trovarsi in alto; nelle parole “de vita” la “e” e la “v” sono rese con il segno “a” sopra il quale vi è una “r”, corrispondente alle vocali “eu”, la cui seconda lettera, tuttavia, può essere intesa anche come una “v”. Passiamo ora alla decifrazione che si trova nei fogli 155 e 156, la quale è la seguente: “et in modo che me pare più presto sia da dubitare de la morte che sperare de la vita, ma, mancando”. Benchè nei due fogli sia identica nel risultato finale, vi sono alcune differenze nel modo in cui si giunge a esso. Nel foglio 155 l’avverbio “presto” consiste in una chiarissima “p” con sopra un segno abbreviativo seguita dalle lettere “sto”; nel foglio 156, invece, la “p” presenta a destra in alto un cerchiolino che non si chiude, mentre a sinistra uno completamente chiuso, che interseca la linea verticale della lettera e poi prosegue fino appunto a formare a destra l’altro cerchiolino. Ne consegue che, per quanto a senso risulti naturale leggere “presto”, perché le lettere che seguono sono le solite “sto”, in realtà un’altra lettura possibile, che peraltro dal punto di vista grafico parrebbe più corretta, è “questo”, parola che però non si adatta al contesto; nel foglio 155, inoltre, il verbo “dubitare” è scritto per esteso, mentre nel 156 si legge “dubitar” con un segno abbreviativo sopra la “r”; nel primo foglio l’infinito “sperare” è di nuovo scritto per esteso, mentre nel secondo vi sono le lettere “spare” con la “p” tagliata da una linea orizzontale, che peraltro interseca anche la “s”; infine, nel foglio 156 il sostantivo “vita” risulta scritto sotto “modo”, mentre le lettere della congiunzione “ma”, unite nel foglio 155, risultano piuttosto distanti, anche se collegate da una linea quasi impercettibile, al punto che la “m” si trova sotto la “m” di “me” e la “a” sotto lo spazio presente nella riga sopra tra “pare” e “più”. [continua]

Curiosamente Francesco Senatore non ha pubblicato la lettera di Antonio da Trezzo del 10 giugno, poi, pubblicando la missiva dell’ambasciatore del 14 giugno, trascrive così: “Per mie de VIIII° et 10 del presente avisai la excellentia vostra”, ma in realtà nella lettera non è scritto “10” in numero arabo, ma “X” in numero romano.

In una minuta datata 24 giugno, replicando ad Antonio da Trezzo, Francesco Sforza esordisce così: “Respondendo a doe toe lettere de octo et X del presente”, quindi depenna “doe”, anche se in effetti il numero non è chiarissimo, inserendo sopra “tre”, e depenna anche “octo et X”, scrivendo sopra “di 9, 10 et XIIII”. In generale le correzioni presenti nella minuta hanno un corpo diverso rispetto al resto del testo, simile a quello della data indicata in alto a sinistra, ossia “1458, Mediolani, XXIIII iunii”, ma quelle segnalate presenti all’inizio, trovandosi sopra la prima riga, spiccano di più, quasi fossero collegate fra loro e con la stessa data della minuta. Il fatto che il “X” in numero romano sia depennato e riscritto con il numero arabo “10” pare alquanto sibillino, considerato ache che il numero romano “XIIII” aggiunto dista dieci giorni dalla data della minuta. [da sviluppare]

All’inizio della minuta di Francesco Sforza ad Antonio da Trezzo datata 12 luglio 1458 si legge: “Per replicate littere te havemo scritto et per Iohanne Caymo et Orpheo havemo mandato ad dire ad quello serenissimo signore novo re quanto ne è occorso per stabilimento et manutentione de sua maiestà in quello reame”. La “C” di “Caymo” è scritta sopra una “I”, come se si stesse scrivendo di nuovo “Iohanne”, al fine di evidenziare il nome successivo, ossia “Orpheo”, che non a caso non è seguito dal cognome, appunto al fine di dargli risalto. La correzione è inoltre effettuata sopra l’aggettivo “novo” della seconda riga riferita a “re”, la cui “r” è sfiorata nella parte superiore dalla linea obliqua che scende nell’interlinea della “y” di “Caymo”.

Questo modo in cui è tracciata la “y” non è casuale, ma voluto. Per comprenderlo, riteniamo opportuno prendere le mosse dal nome “Orpheo” che viene subito dopo, il quale richiama l’omonimo personaggio della mitologia greca e per assonanza il nome Morfeo. Per affrontare il tema risolvibile nel modo più rapido, chiariamo subito che Morteo rimanda al “Figlio del sonno e [al] dio dei sogni”, come si legge a pagina 479 del Dizionario di mitologia greca e latina di Anna Ferrari. A pagina 651 è poi scritto che “Sonno […]. Chiamato Ipnos (Hypnos) dai Greci, era il dio che personificava il sonno”. Le suddette informazioni sono confermate dall’Encyclopaedia Britannica online, nella quale si legge che “Morpheus” era “in Greco-Roman mythology, one of the sons of Hypnos (Somnus), the god of sleep. Morpheus sends human shapes (Greek morphai) of all kinds to the dreamer”. Quindi il nome Morfeo, cui è possibile associare quello di Orfeo per assonanza, rimanda da una parte ai sogni, dall’altra soprattutto al sonno, poiché nella mitologia greca e romana suo padre era proprio il dio del sonno. Tuttavia, come abbiamo detto, il nome “Orpheo” richiama anche l’omonimo personaggio della mitologia greca, che a sua volta si può collegare a Cristo. Come si legge alle pagine 309-310 del Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte di James Hall, Orfeo era un “Leggendario poeta della Tracia, abilissimo nel suonare la lira. Sposò Euridice, una ninfa dei boschi, e alla morte di lei scese nel mondo sotterraneo per riportarla sulla terra, ma non poté raggiungere lo scopo. […] Tanto abile era Orfeo nel suonare la lira che con essa incantava non soltanto gli animali selvatici, ma anche gli alberi e le rocce, che all’udirlo si mettevano al suo seguito. Orfeo siede sotto un albero, intento a suonare la lira […] Molte specie di animali, selvatici e domestici, gli stanno intorno pacificamente, gli uccelli appollaiati sugli alberi. Questo soggetto […] nell’arte primitiva cristiana venne adottato per rappresentare il Messia […]. Le antiche raffigurazioni di Cristo in veste di pastore, […] seduto in mezzo al suo gregge con in mano una lira, derivano dall’iconografia di Orfeo […] Orfeo scese nell’Ade e con il potere della sua musica persuase Plutone a lasciare che Euridice lo seguisse sulla terra, a condizione che non si voltasse a guardarla finché non fossero giunti nel mondo dei vivi. Ma all’ultimo momento egli venne meno alla sua promessa ed Euridice scomparve per sempre nell’ombra. […] Il tema della discesa nelle regioni sotterranee per riportare i defunti in terra […] è presente anche nella dottrina cristiana”. A questo punto vi è un rimando alla voce “Discesa al Limbo”, alla quale alle pagine 141-142 si legge: “(Discesa agli Inferi). La discesa di Cristo al Limbo dopo la morte non è citata in modo esplicito dalle Scritture; tuttavia, tale concetto esercitò un notevole fascino sulla Chiesa primitiva e venne introdotto come articolo di fede nel IV secolo. La figura del dio o dell’eroe che scende nelle regioni sotterranee per riportare i morti sulla terra era ben nota nella mitologia degli antichi”, e si citano Ercole e appunto Orfeo, “e forse fu questa l’origine della successiva idea cristiana. Già nel II secolo si era costituito un corpo di scritti contenenti la descrizione della discesa di Gesù agli Inferi, della sua vittoria su Satana e della conseguente liberazione delle anime sante dell’Antico Testamento. Si pensava che, essendo vissuti e morti in un’epoca nella quale non esistevano ancora i benefici dei sacramenti, questi uomini giusti erano stati relegati in un luogo inferiore in attesa della redenzione di Cristo e del loro riscatto. L’episodio compare per la prima volta in tono narrativo nel Vangelo apocrifo di Nicodemo, redatto forse nel V secolo […] I primi Padri della Chiesa, meditando sulla questione, conclusero che il luogo esatto non fosse l’inferno vero e proprio bensì una regione posta ai suoi margini, cioè il Limbo […]. L’episodio godette di grande popolarità nelle sacre rappresentazioni e nella letteratura del Medioevo. Fu ripreso dalla Legenda aurea […]. Nell’iconografia medievale il soggetto della Discesa al Limbo faceva parte dei cicli sulla Passione di Cristo; esso continuò a essere rappresentato per tutto il Rinascimento, ma divenne raro dopo il XVI secolo. Vi si scorge Cristo che varca una soglia reggendo il vessillo della Resurrezione […] la porta è stata scardinata e abbattuta […] Una folla di figure si fa innanzi uscendo da una caverna: la più vicina è quella di Adamo: un vecchio dalla barba grigia che si protende verso la mano di Cristo”. Di nuovo a proposito di Orfeo alle pagine 255-256 del Lessico di iconografia cristiana di Gerd Heinz-Mohr si legge: “Il più celebre tra i mitici cantori e i suonatori greci di strumenti a corda, che aveva fama di saper domare con la sua arte gli animali più selvaggi e di commuovere alberi e pietre […] trovò […] rapida accoglienza e diffusione nell’arte figurativa cristiana delle origini. [Numerose testimonianze] mostrano il cantore seduto […] la lira sul ginocchio sinistro, circondato da pecore […] o da altri animali, più tardi specialmente da animali feroci, riuniti qui per la prima volta, come in paradiso. Come motivazione di questa assunzione dell’antico mito si è pensato alla rappresentazione della immortalità dell’anima, che si trovò già raffigurata presso i pagani […] Alla base c’è la convinzione teologica del “compimento” = conclusione ed elevazione in Cristo delle domande e degli aneliti religiosi del mondo classico pagano: Cristo sostituisce definitivamente e positivamente O., come portatore di armonia divina e ordinatore del cosmo. […] Con le Sibille, [Orfeo] è ritenuto una specie di profeta pagano e di annunciatore di Cristo. Eusebio di Cesarea intende O. come simbolo di Cristo: ‘Il salvatore degli uomini, con lo strumento del suo corpo umano che volle unire con la sua divinità, si è mostrato salutare e benefico verso tutti, come Orfeo il greco che, con l’arte del suono della lira, domava e calmava gli animali feroci […]’. In ogni caso il fatto che l’arte protocristiana abbia assunto dall’arte pagana solo due motivi mitologici, Eros e Psiche da un lato, O. dall’altro, e che si tratti in entrambi i casi di arte sepolcrale, indica che i due motivi erano ritenuti simbolo e sostegno della fede nell’immortalità dell’anima. Inoltre si deve accennare alla rilevante somiglianza che esiste tra il motivo figurativo di O. che strappa Euridice all’Ade e quello di Cristo che libera Adamo dal Limbo, così come nella narrazione che è alla base della ‘Discesa nel regno dei morti’ del Vangelo apocrifo di Nicodemo si condensano senza dubbio i ricordi dei miti egizi e greci”. Come esempio figurativo si rimanda al “rilievo V sec. a.C., ‘Orfeo, Euridice, Hermes’, Museo Nazionale, Napoli”. Alla voce “Limbo” dello stesso libro, presente alle pagine 203-204, si legge: “L’osservazione esposta non dettagliatamente nella I Lettera di Pietro (3,19 s.) che Cristo ha predicato agli ‘spiriti in prigione’ è sviluppata nel Vangelo apocrifo di Nicodemo in una scena ampiamente narrata, spesso raffigurata nell’arte ed erroneamente indicata come ‘discesa all’inferno di Cristo’, corrispondente alla frase del Credo apostolico; ‘disceso agli inferi’. Effettivamente qui non è mai stato inteso l’inferno […], come il luogo della dannazione eterna e della lontananza da Dio, ma piuttosto sempre il regno dei morti (l., preinferno […]), il luogo della ‘condizione di attesa’ dei defunti prima della venuta di Cristo e, particolarmente, dei credenti dell’antica alleanza, da Adamo in poi, nelle redenzione finale”. Alla fine della voce si ribadisce che “Nella narrazione del Vangelo apocrifo di Nicodemo si rispecchia chiaramente il ricordo dei miti egiziani e greci antichi. Non si può non contestare anche la somiglianza del tipo figurativo tra Cristo che libera Adamo dal l. e Orfeo che strappa Euridice dall’Ade”. [da completare]

Nella nota 2 a pagina 30 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive: “La bolla Ad futuram rei memoriam (12 luglio, ma pubblicata il 14)”. Della bolla vi sono due copie nella cartella Roma, 47, datate “quarto idus iulii”, quindi 12 luglio. Nella lettera di Ottone del Carretto del 14 luglio, che Senatore riporta avere la numerazione moderna “36-37, dec. 39”, mentre essa è 37-38, si legge però quanto segue: “Per la copia inclusa intenderà vostra excellentia la bolla decreta questa matina in consistoro et poy publicata”. Inoltre, dopo la firma dell’ambasciatore è scritto con una grafia un po’ diversa: “La copia inclusa s’è havuta in presia, il perché non è così ben ordenata”. La precisazione “La copia inclusa […] non è così ben ordenata” farebbe pensare al documento all’inizio del quale è proprio scritto “copia” e che reca la numerazione moderna 43-44; Senatore invece indica come “copia della bolla” “inviata a Milano da O. del Carretto” il documento con la numerazione moderna 40-42, che però non solo non presenta la scritta “copia” ed è più ordinato, ma anche il testo pare più completo.

Alla lettera datata 31 luglio 1458 che reca le firme “Iohannes de Caymis, Orpheus de Ricavo et Antonius de Tricio”, che si trova alla pagina 107 del Codice 1588 dell’Archivio Sforzesco che si trova presso la Biblioteca nazionale di Francia, è allegato un documento contenente copie di missive inviate da re Ferrante a papa Callisto III e al Collegio cardinalizio. Nella lettera si accenna proprio al fatto che il sovrano avrebbe scritto al pontefice e al Collegio dei cardinali. Si legge infatti: ”Mandiamone incluse le copie de le risposte che fa questo signore al papa per lo breve che essa sanctità gli ha scripto, del quale etiam vi mandiamo la copia, ed così de quello si scrive al Collegio de cardinali”. La copia del “breve” di Callisto III dovrebbe essere il documento datato 16 luglio 1458 presente nella cartella Roma, 47, con la numerazione moderna 51. Si noti inoltre che la parola “sanctità” è abbreviata con una “s” la quale in apice presenta le lettere “ta” e che risulta scritta sopra una “m”. Pertanto in un primo momento era stato scritto “maiestà” e non “sanctità”. Le precedenti parole della missiva sono seguite dalla precisazione: “Ha tardato essa maiestà ad mandare dicti ambassatori [se ne parla nel capoverso precedente] a Roma fin alla venuta de mi, Zohanne, dove giunse sabbato passato, per volere prima intendere l’opera ch’io havea facta, al qualle ho referito quanto ho facto et molto più largamente che non scripse da Roma alla signoria vostra”. Quanto riportato da Francesco Senatore nella n. 8 a pagina 65 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli non è correttissimo. La nota è la seguente: “Per sostenere la legittimità della sua successione, Ferrante aveva scritto sia al papa che al Collegio cardinalizio: a Callisto III, Capua 24.VII.1458, sottoscrittore Panormita (copie della cancelleria napoletana in ASM SPE, Roma, 74 e 75, con due diversi incipit: “Ego Dei gracia patris beneficio”, corrispondente a BAV […] e “Licteras seu breve sanctitatis tue nuper accepi, quibus pro tempore breviter respondeo. Ego ….”); al Collegio, pari data (copia in ASM SPE, Roma, 47, 74 e 75, inc.: “Particulam litterarum sanctissimi domini nostri pape”, corrispondente BAV […] e a Messer […] ma la data del 31.VII e la sottoscrizione di Girifalco)”. Per essere precisi, nel recto della “copia” il primo testo, diretto “Ad summum pontificicem” e in cui la parola “beneficio” è in realtà scritta con due “ff” e non una sola, non è indicato come sottoscrittore Panormita; il secondo, diretto “Ad Collegium cardinalium”, è identico a quello che occupa la seconda posizione nel verso del documento e che presenta la sottoscrizione “Antonius Panhormita”, assente invece nel recto. Inoltre a un’osservazione superficiale colpisce che in quest’ultimo nella data non sia indicato l’anno, al contrario presente nel recto; all’inizio del verso è infine presente l’altro testo segnalato da Francesco Senatore per Callisto III, in cui è vero che è indicato come sottoscrittore “Antonius Panhormita”, assente invece nel primo testo del recto diretto “Ad summum pontificicem”, ma anche in questo caso la data risulta priva dell’indicazione dell’anno. Cercando di riassumere, nel recto le due copie di missive, dirette l’una “Ad summum pontificicem” e l’altra “Ad Collegium cardinalium”, presentano la data scritta correttamente ma non la sottoscrizione di Panormita, nel verso le due copie di lettere, la prima diretta a Callisto III e la seconda al Collegio dei cardinali ma prive delle intestazioni presenti nel recto, non hanno l’indicazione dell’anno nella data e sono sottoscritte da Panormita; inoltre, rispetto alle lettere nel recto, mentre il testo della missiva per il papa è diverso, il testo della lettera per il Collegio dei cardinali è identico.

In una lettera di Nicodemo Tranchedini datata 29 luglio appartenente al Codice 1588 dell’Archivio Sforzesco e che reca la numerazione moderna 103 si legge: “Comendarono Cosimo et miser Angelo et piacque loro grandemente quel videro ve scrivono el prefato re et Antonio da Trezo”. Come cercheremo di spiegare più avanti, non è chiaro quale sia la missiva di re Ferrante inviata a Francesco Sforza. Nella lettera poi si accenna a “Castiglione de la Pescara”, riferendosi alla missiva di Antonio da Trezzo al duca di Milano del 13 luglio, a “Diomedes Caraffa” e a “Gambacurta”, dei quali si parla nella lettera dell’ambasciatore a Napoli del 15 luglio, quindi al fatto di “cazzare franzesi cum rimettere miser Perino” e all’invio di “Sforza Maria”, argomenti che si trovano di nuovo nella missiva di Antonio da Trezzo datata 13 luglio. Poi l’ambasciatore a Firenze scrive: “El re Ferdinando ha scripto qui ala .. Signoria de novo et a Cosimo et meser Angelo che vole essere loro a bon seno per l’amicicia hano cum vostra celsitudine. Fa poy una breve coda in la lettera de la .. Signoria, cioè havere intesa la bolla producta per lo papa contra luy et che de duobus alterum: o mandino al papa a removerlo de questa opinione o per via d’arme gli propulsino questa iniuria da dosso”. Come la lettera spedita dal sovrano al duca di Milano cui si è accennato sopra, anche l’identificazione della missiva inviata “ala .. Signoria de novo et a Cosimo et meser Angelo Ferrante” non è affatto scontata e avremo modo di appurarlo più avanti. Nel verso della pagina 95, secondo la numerazione moderna, sempre del Codice 1588 è inoltre presente un foglietto con il seguente testo: “Post datum. Rimando cum questa a vostra illustre signoria la lettera del re, quelle tre de Antonio da Trezo et la listarela. Vole Bocacino ch’io scriva a vostra illustrissima signoria per soa parte ch’el non crede cosa scriva don Ferrando né Antonio da Trezo né may se acorderà ad quella amicicia se non vi rende tute le terre tenesti già in lo reame et non ve ne dà de l’altre. Ut in litteris. Idem Nicodemus”. Il foglietto pare vada allegato proprio alla lettera di Nicodemo Tranchedini del 29 luglio, ma, come si è visto, le lettere di Antonio da Trezzo sembrano essere due e non tre: una del 13 luglio e l’altra del 15 dello stesso mese (fra l’altro nella prima è segnalata la ricezione di lettere “de dì XXX del passato cum III copie incluse de Lanzaloto Bosso” la cui minuta si trova nella cartella Firenze, 269, tuttavia nella nota 1 a pagina 21 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Senatore scrive che “La lettera del duca non ci è pervenuta”); la “listarela” dovrebbe essere quella con l’elenco dei baroni che hanno giurato obbedienza a re Ferrante pubblicato alle pagine 28-30 del citato II volume di Francesco Senatore. Come anticipato, quale sia la missiva del sovrano inviata al duca di Milano non è chiaro, anche se il foglietto è posizionato subito dopo la copia del documento di re Ferrante avente come destinatario il duca di Milano e “Datum in castro Lapidum civitatis Capue, die XX mensis iulii, VI indictione, MCCCCLVIII”, definito da Senatore “circolare” nella nota 8 a pagina 38 del menzionato II volume. Non si capisce, infatti, perché avrebbe dovuto trattarsi di questa epistola, essendo appunto una lettera “circolare”, pertanto inviata anche a Firenze. Ricordiamo poi che nella missiva del 29 luglio di Nicodemo Tranchedini si legge: “Comendarono Cosimo et miser Angelo et piacque loro grandemente quel videro ve scrivono el prefato re et Antonio da Trezo”, parole che paiono implicare che “Cosimo et miser Angelo” “videro” qualcosa di nuovo e inedito scritto da parte del “prefato re”. In realtà in questo modo si vuole mettere in rilievo che, quando più avanti nel testo della stessa lettera del 29 luglio Nicodemo Tranchedini accenna al fatto che a Firenze si è ricevuta una lettera del sovrano, non si è in realtà in grado di identificare quest’ultima con la copia della missiva dello stesso re Ferrante datata 20 luglio e inviata “Prioribus Artium et Vexillifero Iustitie populi excelse vitatis Florentie”.(nell’indicazione del destinatario è proprio scritto “vitatis” con sopra un segno abbreviativo) presente nella cartella Firenze, 269, e che si può ritenere sia stata allegata alla lettera datata 2 agosto inviata dai “Priores Artium et Vexillifer Iustitie populi et Comunis Florentie” al duca di Milano. Essa è piuttosto simile, anche se non identica, alla copia della missiva “circolare” mandata a Francesco Sforza cui si è accennato sopra. Si noti che nella citata nota 8 a pagina 38 Francesco Senatore non menziona questa copia molto presumibilmente inviata dai “Priores Artium et Vexillifer Iustitie populi et Comunis Florentie”, che pare non potersi accostare alla lettera di Nicodemo Tranchedini cui si è accennato sopra nella quale egli segnala la ricezione a Firenze di una missiva di re Ferrante. In essa si legge: “El re Ferdinando ha scripto qui ala .. Signoria de novo et a Cosimo et meser Angelo che vole essere loro a bon seno per l’amicicia hano cum vostra celsitudine. Fa poy una breve coda in la lettera de la .. Signoria, cioè havere intesa la bolla producta per lo papa contra luy et che de duobus alterum: o mandino al papa a removerlo de questa opinione o per via d’arme gli propulsino questa iniuria da dosso”. Considerando le date, parrebbe logico che in questa missiva del 29 luglio Nicodemo Tranchedini si riferisca alla lettera del sovrano del 20 luglio precedente. Tuttavia l’ambasciatore scrive che nella sua missiva re Ferrante accennerebbe all’“l’amicicia hano cum vostra celsitudine”, tema in realtà assente nella copia della lettera del sovrano inviata a Francesco Sforza. Non resta quindi che considerare una missiva di Nicodemo Tranchedini datata 11 luglio, anch’essa appartenente al Codice 1588 dell’Archivio Sforzesco e che reca la numerazione moderna 93, riguardo alla quale poi in una sua lettera del 24 dello stesso mese l’ambasciatore scrive a Cicco Simonetta di dubitare che “la mia lettera precedente ad questa fosse errata nel dì, che, como dovia dire ali 18 del presente, dicesse ali XI. Si sic est, preghovi la corregiate”. Nel secondo capoverso di essa, che in totale ne presenta tre, infatti si legge: “Hogi et non prima ce sono lettere del re Ferrando ala .. Signoria significative de la morte del patre et che delibera tenere cum loro bona amicicia, perché cossì gli recordò la felice memoria del patre dum versaretur in extremis et per rispecto ala liga etc.”. Anche se pare evidente che a questa missiva per errore datata 11 luglio, mentre in realtà è del 18 dello stesso mese, non può essere stata allegata una copia di una lettera di re Ferrante di due giorni dopo, ossia del 20 luglio, per puro scrupolo verifichiamo se per qualche motivo di non immediata comprensione questo fatto può essere avvenuto. Per estrema chiarezza riportiamo quanto è scritto nella missiva e che si può leggere poco sopra: “Hogi et non prima ce sono lettere del re Ferrando ala .. Signoria significative de la morte del patre et che delibera tenere cum loro bona amicicia, perché cossì gli recordò la felice memoria del patre dum versaretur in extremis et per rispecto ala liga etc.”. Tralasciando la precisazione “Hogi et non prima”, la quale, considerato il contesto complessivo, pare alquanto sibillina, se il riferimento al fatto che “la felice memoria del patre” ricordò qualcosa al figlio “dum versaretur in extremis” pare pertinente, non lo è il resto: nella copia della missiva del sovrano, infatti, non si accenna in modo esplicito alla “morte del patre”, ma si dice “moriens”, e inoltre non è scritto che il re “delibera tenere cum loro bona amicicia”. Non è pertanto possibile individuare la lettera del sovrano inviata a Firenze cui si riferisce Nicodemo Tranchedini, non solo nella sua missiva del 29 luglio, ma nemmeno in quella datata per errore 11 luglio. Per comprendere la ragione per cui non è possibile identificare né la lettera inviata dal sovrano a Francesco Sforza né quella mandata dallo stesso re a Firenze, bisogna considerare la missiva dell’ambasciatore erroneamente datata 11 luglio, all’inizio dela quale si legge: “Per l’ultima mia dissi ad vostra celsitudine che me inzegnarei intendere dal magnifico Cosimo se luy era in altra opinione de l’andata de Zohanne Caymo et Orfeo che quella havia dicta in presentia de meser Angelo et dicto Zohanne. Non ce duray fatica alcuna, perhò che, como esso Cosimo hebe lecta la copia de quello ve scrive el re de Franza quale m’havete mandata cum la vostra de 12, disse: ‘Or echoci fra francesi et ragonesi’”. [continua]

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Da una prova esterna a due errori di datazione: lettere da esibire e il tema della non lontana ascesa al trono del delfino [testo molto lungo in fase di aggiornamento e completamento]

La lettera di Corradino Giorgi datata 30 aprile e quella datata 3 maggio sono molto simili fra loro. La lunga parte in cifra della prima è infatti inserita nella seconda, anche se si simula che la copiatura sia avvenuta in modo per così dire meccanico: riferendosi alla liberazione di Ludovico Bolleri, nella missiva del 3 maggio l’ambasciatore commette infatti l’errore di datazione di scrivere che il duca di Savoia “a vintiocto del presente l’à liberato”, quando invece è evidente che dovrebbe essere “vintiocto del passato“. Lo sbaglio è estremamente significativo, ma per ora preferiamo rimandarne la trattazione a un momento successivo. In realtà fra le due missive menzionate vi sono anche differenze importanti ed è su una di esse che ora vogliamo rivolgere l’attenzione. Nella lettera del 3 maggio Corradino Giorgi inserisce la seguente nuova informazione: “Item, quelo frate Georgio del quale ho scripto ala signoria vostra deveva esere mandato a levare le ofese et metere campo a Centalo anchora non è partito, ma domane se parte he vene a quele parte per adinpire tuto quelo ho scripto ala signoria vostra questi dì passati“. Intanto rileviamo che il 3 maggio era la festa dell’Invenzione della Croce e che colui che doveva partire il 4 maggio, che si chiamava Giorgio Piossasco, era un cavaliere gerosolimitano, ossia un membro dell’ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme. Alla missiva appena citata Francesco Sforza fa riferimento in una minuta del 10 maggio diretta a Marchese da Varese, suo ambasciatore a Venezia, nella quale lo informa che “per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito”.

Ci si riferisce appunto a Giorgio Piossasco, che doveva andare a Centallo. In questo modo il duca di Milano crea una prova esterna nella corrispondenza con Venezia rispetto all’epistolario tra lui stesso e il suo ambasciatore in Savoia (per essere precisi, si tratta della seconda prova esterna: la prima risale al febbraio precedente, ma non è nostra intenzione occuparcene ora). Il problema è che, poiché nella missiva del 3 maggio Corradino Giorgi scrive che il cavaliere gerosolimitano “anchora non è partito, ma domane se parte“, la lamentela ducale risulta quantomeno affrettata. Infatti nella lettera del 5 maggio dell’ambasciatore sforzesco si legge: “Ha potuto intendere vostra signoria per quanto scrisse per lo cavalaro como questo illustrissimo signore era contento, a contemplatione de vostra signoria he a supplicatione de domino Aloysse et de soy parenti, reduerlo ala bona gratia soa et restituirli le cosse soe et che le novitate facte contra le altre terre de dicto domino Aloysse et del conte de Tenda eranno facte et ocorsse contra et preter voluntatem suam et che cusì fosse mandava frate Zorzo da Piozascho per levare le offese etc., como per quele più largamente haverà intexo vostra signoria. Ha potuto anchora intendere vostra signoria la liberatione de dicto domino Aloysse per altre mie. Ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui per andare ad exquire tuto quelo ho scripto a vostra signoria circha ali facti de domino Aloysse, il perché cognoscerà vostra signoria ly predicti facti del predicto domino Aloysse esser in bony termini”. In effetti in quest’ultima missiva la partenza di Giorgio Piossasco è segnalata in modo curioso, perché, come abbiamo visto, nella sua missiva del 3 maggio l’ambasciatore non scrive propriamente della “partita de fra Zorzo”, ma che il cavaliere gerosolimitano “anchora non è partito, ma domane se parte“, ossia che si sarebbe recato a Centallo il giorno successivo il 3 maggio, che è diverso. La ragione dipende dal fatto che la parziale ambiguità della lettera del 3 maggio di Corradino Giorgi consente a Francesco Sforza di evidenziare la propria fretta. Il duca di Milano, infatti, simulando di essere spazientito, non aspetta un giorno in più e il 10 maggio informa Marchese da Varese, come si è visto, che Giorgio Piossasco non è ancora partito, creando così una prova esterna. A questo punto, per giustificarsi con Venezia, nel caso fosse necessario, nella sua minuta del 12 maggio diretta all’ambasciatore in Savoia, pur sapendo perfettamente che in realtà il cavaliere gerosolimitano è partito, il duca di Milano segnala di avere ricevuto missive datate 30 aprile, 2 e 3 maggio (scrive infatti “respondendo a tre toe lettere date al’ultimo del passato et II et III del presente”), assegnando al 2 maggio la lettera del 5 dello stesso mese, con il risultato che in base alla missiva del 2 maggio Giorgio Piossasco risulta partito, mentre secondo quella del 3 che partirà il giorno dopo.

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L’impazienza di Francesco Sforza nell’inviare a Venezia un’informazione non del tutto corretta viene così a trovare un’apparente giustificazione, la quale tuttavia ha un sapore beffardo. Nella lettera erroneamente attribuita al 2 maggio Corradino Giorgi scrive infatti: “Ha potuto anchora intendere vostra signoria la liberatione de dicto domino Aloysse per altre mie”, riferendosi alla sua precedente lettera del 30 aprile, la quale si noti che si simula sia stata portata a Milano nientemeno che da “Gulyermo Fauchere, scudere e servitore de copa del prenominato monsignor dalfino et prescente portadore”, scritto in chiaro a differenza del resto della missiva, che è in cifra, perché naturalmente nella “storia alla rovescia” si finge che si tratti di un’informazione di secondaria importanza. Quindi l’ambasciatore aggiunge: “Ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui”, ma in realtà non vi è alcuna missiva precedente da cui Francesco Sforza possa avere inteso la partenza del cavaliere gerosolimitano. Poi nella lettera del 3 maggio di Corradino Giorgi si legge che Giorgio Piossasco “anchora non è partito, ma domane se parte“, ma che il duca di Milano sia consapevole dell’avvenuta partenza è confermato dal fatto che nella sua minuta del 12 maggio non accenna minimamente alla mancata partenza di Giorgio Piossasco, proprio perché, avendo in realtà ricevuto la missiva del 5 maggio del suo ambasciatore, da lui poi attribuita al 2 maggio, sa che il cavaliere gerosolimitano si è recato a Centallo. Il beffardo sbaglio di datazione del duca di Milano non può quindi essere considerato casuale, anche se apparentemente dovuto al fatto che il “5” secondo la numerazione araba pare un “II” secondo la numerazione romana (in realtà poi è identico al “5” di “1458” subito dopo). Da quanto scritto sopra si potrebbe giungere alla conclusione che la minuta di Francesco Sforza del 12 maggio e le tre missive dell’inviato ducale cui in essa ci si riferisce potessero essere esibite nel caso fosse necessario giustificarsi con Venezia, ma che questa considerazione non sia corretta lo dimostra la lettera datata 11 maggio di Corradino Giorgi in cui egli segnala di avere in precedenza spedito missive datate 30 aprile, 2 e 5 maggio (scrive infatti “como per altre mie date alo ultimo de aprili et al scecundo et quinto del prescente”; si veda al proposito la quarta immagine). Anche l’ambasciatore ducale, dunque, commette un errore di datazione, che ha varie implicazioni. Una è che davanti all’opzione rappresentata da una lettera datata 2 maggio Corradino Giorgi scarta senza esitazione la possibilità che essa possa essere scambiata con una del 5 maggio, dato che proprio di una missiva con quest’ultima data riferisce l’invio. L’ambasciatore ducale ha dunque per sbaglio assegnato la lettera del 3 maggio al 2 maggio ed è pertanto evidente quale sia il suo punto di vista riguardo a un’eventuale missiva datata 2 maggio: non ha inviato alcuna lettera con questa data, tantomeno quindi una missiva precedente da cui Francesco Sforza possa avere inteso la partenza del cavaliere gerosolimitano, e dunque sempre con spirito beffardo il suo errore svela, qualora ce ne fosse bisogno, che il duca di Milano si sbaglia quando nella minuta del 12 maggio segnala di avere ricevuto una lettera datata 2 maggio. In ogni caso l’errore di Corradino Giorgi non implica che la sua missiva dell’11 maggio non andasse all’uopo mostrata, ma al contrario serve per far capire che essa andava esibita insieme all’intera corrispondenza, di cui era necessario ricostruire la serie delle lettere concatenate fra loro, fino ad arrivare alla minuta del 10 gennaio intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” nel cui primo capoverso si accenna alle dieci “prese” da intendersi come ricezioni (si veda al proposito qui), la quale giustifica l’utilizzo dell’aggettivo “beffardo” impiegato più volte in questo testo, in quanto in essa si legge in modo chiaramente sibillino: “quisti ali quali se ha ad fare questa beffa”. Ricostruendo la serie, si arriva così alla lettera del 18 aprile di Corradino Giorgi cui egli accenna nelle sue missive datate 3 e 5 maggio, nella quale si legge: “per la executione dela revocatione dela gente he dele insolentie facte soa signoria manda el spectabile cavalero de Santo Iohanne, domino frate Georgio da Piozascho, comandatore e gubernatore de Vercelle, parente strecto de dicto domino Aloysse, lo quale anchora debe ponere campo intorno a Centallo a nome de dicto domino Aloysse e fare ogni cura e solicitudine de havere Arcimbaldo in le mane, aciò possa esser retribuito scecundo ly soy meriti”. Di questa lettera Francesco Sforza segnala la ricezione in una sua minuta datata 1 maggio, nella quale tuttavia, del resto come in quella del 12 maggio, non accenna in alcun modo a Giorgio Piossasco, constatazione dalla quale emerge il carattere pretestuoso della sua minuta del 10 maggio diretta a Marchese da Varese nella quale esprime la lamentela che “per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito”. Sempre a proposito del tema della partenza di Giorgio Piossasco, che in realtà nella sua minuta datata 12 maggio il duca di Milano sia perfettamente consapevole del fatto che il cavaliere gerosolimitano si è recato a Centallo e che quindi l’errore di datazione in essa contenuto non sia casuale, bensì voluto, è confermato anche dalla minuta di Cicco Simonetta diretta a Corradino Giorgi e datata 13 maggio di cui proponiamo qui di seguito il testo con alcune note: “Egregie tanquam frater honorande. Vedereti quanto ve scrive el nostro illustrissimo signore et, benché io creda che per le littere de soa signoria intendereti quanto haveti ad exequire, tamen ad mia satisfatione, perché io voria che havesti honore de questa impresa, ve recordarò succinte le expeditione che haveti ad solicitare, le quale son queste: che le persone del magnifico miser Aluyse Bolero, dela donna et figlioli siano libere et franche et in sua libertade et in pristino stato de tucti suoi luochi et bieni, che con effecto gli sia restituito la terra et rocha de Demonte et dato modo et forma expediente ch’el habia etiandio Centale, item che gli siano restituite tutte le robbe tolte a luy et ali soi homini, item che quello illustre signore restituisca liberamente la terra de Coconate ali zentilhomini da Coconate. Possa, si sarà da fare altro in iure, se responderà, altramente siati certo ch’el nostro illustrissimo signore è necessitato provedere ala conservacione dele sue raxone. Sì perché pare siati stato delezato lì, però che cosa ve sia stata promessa et dicta lì et che voi habiati scripto qua non è mandata ad executione, la excellentia sua provederà ali indemnitate deli suoy, la quale cosa farà con consentimento et parere de le potentie de la liga italica, che saria mo stato facto, se non fosse stato questo ultimo vostro scrivere,[a] se non fosse stato questo vostro,[b] como quello signore ha mandato a levare levare [c] le offese et restituire etc., ma lo nostro illustrissimo signore [d] ha facto soprasedere le gente che non procedano più ultra, per videre se seguirano dicte restitutione et, quando non seguissero, como ho dicto de sopra, et presto, dicte gente procedarano ultra, avisandovi che sono bene da circa doa milia cavalli et più che sono cavalcati ale frontere per questa casone. Siché solicitate le expeditione, como ho dicto se sopra, perché questo illustrissimo nostro signore gli pare havere supportato tante cose cum gravezza et carico delo honore suo che non poria più supportare senza grande sua vergogna et mancamento de fede et obligacione ha cum questi suoi adherenti et tucto ha facto a bon fine, como quello ama quello signore duca como honorevele fratello et parente et voria vivere fraternalmente cum la excellentia sua, como degono fare li boni parenti et fratelli inseme, ma fino al presente dal canto dela signoria sua sonno facte tucte le cosa contrarie et questo illustrissimo signore nostro, como è dicto, tucto ha supportato per vivere bene. Siché quello signore voglia torre via tucte le cose dal canto suo che siano sinistre e fare et derizare le cose ala forma del ben vivere, como è dicto”.

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Ecco le note: [a] da “che saria” a “vostro scrivere” è scritto nell’interlinea sopra testo depennato; [b] dopo “vostro” seguono le parole depennate “ultimo scrivere che haveti facto qua, zoè”; [c] la ripetizione di “levare” è nel testo. La minuta sopra riportata presenta numerose parole depennate che probabilmente andrebbero esaminate con cura. Pare tuttavia sufficiente limitare l’osservazione ad alcuni aspetti. Innanzitutto all’inizio si accenna a “quanto ve scrive el nostro illustrissimo signore”, ossia alla lettera di Francesco Sforza datata 12 maggio, di cui, come detto, abbiamo la minuta. Poi più avanti si leggono le parole “se non fosse stato questo ultimo vostro scrivere” riportate nell’interlinea e riprese poco più avanti ma in modo incompleto ed errato senza che siano state corrette: si tratta di “se non fosse stato questo vostro”. In effetti a cosa di preciso si alluda con le parole “questo ultimo vostro scrivere” non è ben chiaro, perché, come detto, all’inizio Cicco Simonetta si riferisce a “quanto ve scrive el nostro illustrissimo signore” il 12 maggio e nella minuta ducale con questa data l'”ultimo vostro scrivere” si riferisce a una lettera datata 3 maggio, aspetto poi sottolineato dalla vaghezza dei termini che seguono “questo vostro”. Subito dopo, però, vi sono le seguenti parole: “como quello signore ha mandato a levare levare le offese et restituire”. Certamente ci si riferisce senza menzionarla in modo esplicito alla partenza di Giorgio Piossasco, segnalata, come detto, in modo curioso da Corradino Giorgi nella sua lettera del 5 maggio. L’errata ripetizione del verbo “levare” vuole alludere allo sbaglio commesso da Francesco Sforza nella sua minuta del 12 maggio, consistente nell’assegnare la missiva del 5 maggio del suo ambasciatore al 2 maggio, sottolineando appunto che il beffardo errore non è casuale, ma voluto e da interpretare proprio in relazione alla partenza del cavaliere gerosolimitano, e il suo scopo apparente consista nel creare una giustificazione con Venezia per l’informazione affrettata inviata a Marchese da Varese in merito al tema di Giorgio Piossasco. Che quanto appena scritto sia corretto è confermato dal fatto che le parole riportate nell’interlinea poco prima della ripetizione di “levare” sono “ultimo vostro scrivere” (si veda la nota [a]), mentre subito dopo vi sono i termini “questo vostro”, seguiti dalle parole depennate “ultimo scrivere che haveti facto qua, zoè” (si veda la nota [b]), con in sostanza i termini “vostro ultimo” (di cui il secondo depennato), invertiti rispetto a quanto si trova poco prima. Senza dubbio con la prima occorrenza della parola “ultimo” ci si riferisce alla lettera del 5 maggio di Corradino Giorgi, ma con l’inversione espressa dai termini “ultimo vostro/vostro ultimo” si vuole alludere all’inversione compiuta da Francesco Sforza assegnando la lettera del 5 maggio al 2 dello stesso mese. A sottolineare che l’errore è voluto, si noti che la seconda occorrenza di “ultimo”, che, come detto, è depennata, lascia incompiuto il senso di quanto precede, ossia “se non fosse stato questo vostro”. In questo modo si vuole anche indurre il lettore a riflettere su quello che in seguito all’inversione è divenuto l'”ultimo scrivere”, ossia la missiva del 3 maggio dell’ambasciatore in Savoia, di cui, come abbiamo visto sopra, il duca di Milano segnala la ricezione a Marchese da Varese nella minuta datata 10 maggio e che poi, come accennato, nella minuta ducale del 12 maggio che reca come destinatario Corradino Giorgi diviene appunto “ultimo scrivere” per via dell’inversione compiuta assegnando la lettera del 5 maggio al 2 dello stesso mese. Torniamo ora al 4 maggio, giorno della partenza di Giorgio Piossasco. Le considerazioni che seguiranno permetteranno di comprendere come lo scopo del beffardo errore commesso da Francesco Sforza nella sua minuta del 12 maggio solo apparentemente consista nel creare una giustificazione con Venezia per l’informazione affrettata inviata a Marchese da Varese in merito a Giorgio Piossasco. L’obiettivo reale dello sbaglio è in realtà un altro. Perché dunque il 4 maggio è tanto importante? Perché nel Registro delle Missive 44 il duca di Milano riporta una lettera proprio con questa data diretta “Domino Renato regi Andegavie Renato” con “Andegavie” depennato in cui si legge: “Ex Antonello Pagano, sacre maiestatis vestre secretario, intelleximus ea que sub eiusdem serenitatis vestre litteris credentialibus nobis reseravit”? Si noti che non si dice che l’ambasciata di Antonello Pagano sia avvenuta il 4 maggio: è il duca che sceglie di rispondere il 4 maggio, così datando la missiva e scrivendo il destinatario in quel modo, ossia con “Renato” ripetuto due volte, Andegavie” depennato e “regi” riferito a nulla, simulando che dopo “regi” sia stato aggiunto per sbaglio “Andegavie”, di cui Renato d’Angiò non era re, bensì duca, che poi è stato depennato senza però apportare alcuna correzione. Di questi elementi considerati insieme si è già parlato nel testo intitolato L’identificazione Cristo/delfino. In tale sede preme rilevare che con la ripetizione di “Renato” si vuole alludere da un lato a chi è “re nato” in quanto figlio primogenito di Carlo VII, ossia al delfino, dall’altro a Cristo, da identificare con il precedente “re nato”, vale a dire appunto il delfino. Perché dunque si insiste sul 4 maggio? Perché questo giorno cade una settimana esatta prima dell’11 maggio, ossia il giorno dell’Ascensione di Gesù, da identificarsi, come detto, con il delfino Luigi: si entra quindi nella dimensione dell’attesa, confermata dal fatto che l’Ascensione avvenne quaranta giorni dopo la Resurrezione, ai quali rimanda il 4 della data 4 maggio. Quest’ultimo giorno ha dunque potenzialità notevoli dal punto vista simbolico in relazione al delfino e si colloca in un preciso contesto cronologico. Innanzitutto bisogna considerare che nella lettera datata 5 maggio assegnata da Francesco Sforza per sbaglio al 2 maggio inizialmente Corradino Giorgi scrive “aprilis”, mese che poi depenna e sopra al quale inserisce “madii”. La ragione per la quale l’ambasciatore sforzesco scrive prima “aprilis” consiste nel fatto che si simula che, a sottolinearne l’importanza, egli avesse ancora in mente la missiva del 5 aprile nel cui esordio è scritto in modo sibillino quanto segue: “A dy octo del prescente debe retrovarsse da questo signor XXX uno ambasciatore del duca de Borgogna, lo quale sce apella lo conte de Stampes, et sce dice che vene per intendere la voluntà he opinione de questo signore, sc’el vole essere franzoso ho borgognono“. A sua volta, come detto, Francesco Sforza attribuisce la missiva al 2 maggio, fingendo di scambiare il “5” secondo la numerazione araba per un “II” secondo la numerazione romana, creando così le condizioni perché il lettore cerchi la prova esterna nella corrispondenza con Marchese da Varese. L’errore ha tuttavia un senso ancora più profondo. Nel momento in cui il duca di Milano assegna la lettera al 2 maggio, infatti, è come se “aprilis” fosse ancora attivo e per questa via si allude al 2 aprile, ossia al giorno di Pasqua del 1458 e quindi alla Resurrezione. D’altra parte, poiché si simula che nella mente di Corradino Giorgi vi sia un’evidente connessione fra la missiva del 5 maggio e quella del 5 aprile, è come se si volesse dire che anche quest’ultima con il suo esordio sibillino, a sottolinearne l’importanza, deve essere associata al 2 aprile.

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Il 3 maggio, poi, è la festa dell’Invenzione della Croce. Il 4 maggio, come detto, richiama i quaranta giorni di attesa dell’Ascensione dalla Resurrezione, cui si allude nel modo indicato sopra; è inoltre piuttosto vicino alla stessa Ascensione, dalla quale dista solo sette giorni e non si può escludere che il numero sette voglia alludere a Carlo VII, l’anziano re dall’anno prima piuttosto malato, perché, come scrive Michel-André Lévy a pagina 183 de L’étonnante histoire de la numérotation des rois de France, “Charles V a figé la numérotation des Charles, ses successeurs et homonymes seront naturellement Charles VI et Charles VII”. Il motivo per cui dunque in modo curioso il 3 maggio l’ambasciatore sforzesco in Savoia scrive che Giorgio Piossasco “domane se parte” e poi il 5 dello stesso mese “Ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui” è per sottolineare il tema dell’attesa, ma non solo del giorno della partenza di Giorgio Piossasco (riguardo al quale rileviamo en passant che i due duchi si erano accordati in precedenza, ma di questo tratteremo in un altro momento, limitandoci a osservare ora che quanto si legge nelle lettere è pura finzione), ma anche dell’ascesa al trono del delfino, che da un lato nel frattempo con la sua Resurrezione, ovviamente simbolica, ha liberato Ludovico di Savoia dalla condizione di “subiectione” rispetto a Carlo VII, grazie anche all’appoggio del duca di Milano, dall’altro si è alleato con lo stesso Francesco Sforza (al proposito si veda il testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino verso la fine del testo). A questo proposito riteniamo importante fare alcune osservazioni in merito alla prova esterna creata nella corrispondenza con Venezia. Innanzitutto bisogna considerare che nella “storia alla rovescia” nella sua minuta datata 12 maggio Francesco Sforza scrive: “Postremo te mandiamo queste lettere quale scrive la sanctità de nostro Signore et altre che scrive la maiestà del signore re de Ragona ad quello illustre signore duca”. In realtà, come spieghiamo altrove, la bolla di Callisto III e la lettera di Alfonso d’Aragona, i quali in apparenza sembrano appoggiare Francesco Sforza contro Ludovico di Savoia, sono arrivate a Milano prima, ossia all’inizio di maggio, in tempo per essere inviate con la “storia alla rovescia” delle dieci “prese”. A questo punto nella simulazione generale Francesco Sforza aspetta il 19 maggio per segnalare la ricezione della bolla del papa e della missiva di Alfonso d’Aragona in una minuta al suo ambasciatore a Roma, Ottone del Carretto, e in un’altra al suo inviato a Napoli, Antonio da Trezzo. Rispetto alla lettera del sovrano è necessario fare un’ulteriore osservazione. Vi è una minuta datata 8 maggio recante cinque destinatari seguiti dalle città in cui si trovano. Subito all’inizio è scritto: “Fiat Marchesio de Varisio Venetiis” ed è tutto depennato a parte “Fiat”. Dopo il breve testo è invece precisato: “In simili forma Fiat Boccacino et Nicodemo Florentie, Fiat domino Othoni Carreto Rome, Fiat Antonio de Tritio Neapoli” con “Othoni Carreto” e “Antonio de Tritio” depennati. Il testo della minuta è il seguente: “Continuando in avisare quella illustrissima signoria deli processi delo illustre signore duca de Savoya contro quelli nostri adherenti et recomandati, te mandiamo inclusa la copia de lettere quale novamente ce scriveno li nobili da Cochonato”.

In base a quanto spiegato qui, riteniamo che con questa minuta si simuli che Francesco Sforza abbia ricevuto la missiva del re proprio l’8 maggio e la bolla del papa poco dopo, essendo stata inviata il 3 maggio e calcolando un tempo di sette, otto giorni per la consegna a Milano. Quindi riassumiamo: l’8 maggio il duca di Milano finge di ricevere la lettera del sovrano (in realtà, lo ribadiamo, ricevuta giorni prima), entro il 12 maggio simula di ricevere la bolla del papa (anch’essa arrivata prima), poi finge di aspettare il 19 maggio per segnalare agli ambasciatori a Napoli e Roma di avere ricevuto i due documenti. Perché simula di attendere tutto questo tempo, mentre il 10 maggio finge di scrivere a Venezia in modo precipitoso che “per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito”, quando nella missiva “de dì tre del presente” di Corradino Giorgi è scritto chiaramente che Giorgio Piossasco “domane se parte“, ritrovandosi così nella minuta del 12 maggio con destinatario Corradino Giorgi costretto, per giustificare, nel caso si riveli necessario, la fretta della lettera di due giorni prima per Venezia, ad assegnare, per quanto in modo beffardo, la lettera del 5 maggio del suo ambasciatore al 2 dello stesso mese? Riteniamo che il contraddittorio comportamento ducale si spieghi appunto in base al tema dell’attesa: si vuole fare capire ai filo-Carlo VII, francesi o meno, e a Venezia di agire diversamente da come lo stesso Francesco Sforza si è comportato in questa occasione specifica, ossia senza precipitazione, con cautela e ponderando bene le mosse presenti in relazione al futuro, che sarà sotto il segno del delfino Luigi e non del padre. A questo proposito bisogna infatti rilevare che, benché Paul-Michel Perret scriva a pagina 314 del primo volume dell’Histoire des relations de la France avec Venise che all’inizio del 1459 si rianimano “les relations un peu languissantes de la France avec Venise”, in una lettera del duca di Milano datata 25 ottobre 1457 e diretta al Consiglio segreto presente alle cc. 182v-183r del Registro delle Missive 38 si legge che al re di Francia “è stato referito che lo illustrissimo signor delphino et altri cerchavano con el mezo d’esso domino Aluyse [Bolleri] de habere pratiche et intelligentia cum nuy etc., del che, standovi suspecta la maiestà sua, intendiamo ha ordinato de mandare soy ambassatori ala signoria de Venetia per obviare a questa materia et tentare altre materie etc.”. A conferma di quanto appena riportato, in una lettera datata 14 marzo Corradino Giorgi scrive: “hame dicto dito maistro Iacobo [medico di Ludovico di Savoia], et sub iuramento de non palezare se no la signoria vostra, esser trovato in locho, da poi questi ambaxadori sono qui, unde l’à intexo che lo re de Franza fa praticha cum vniciani molto streta de farli rompere guerra cum la signoria vostra da uno canto e lo predicto re debe rompere dal’altro et che per questa casone el predicto re ha deliberato mandare ambaxadori ala signoria de Venecia per concludere e, secondo esso intende, questi medesimi ambaxadori sono qui debeno esser queli gli debeno andare. Item sonto advisato che Iohane da Mansin, prima che gli dicti ambaxadori vadano a Venecia, venerà dala signoria vostra e poi andarà a Venecia e lui è quelo che conduce la barcha e tuto quelo dirà ala signoria vostra el fingerà“. Anche se poi nell’immediato Jean d’Amancier non si è recato a Venezia, la validità delle considerazioni fatte in merito al tema dell’attesa del delfino è confermata dalla minuta datata 8 maggio citata sopra nella quale “Venetiis” è non certo per caso l’unico toponimo depennato, diremmo quasi minacciosamente, a sottolineare per contrasto la comunione di intenti esistente tra Firenze, Roma e Napoli, che solo in apparenza intervengono in favore di Francesco Sforza contro Ludovico di Savoia, essendo perfettamente consapevoli che i due duchi stanno simulando di essere in contrasto appunto con il beneplacito del delfino. Al proposito ci pare il caso di sottolineare come sia è evidente che la consonanza fra Callisto III e Alfonso d’Aragona a questa altezza cronologica e l’ingannevole bolla del primo rendano alquanto sospetta la bolla del successivo 12 luglio contro Ferrante, figlio di Alfonso, venuto a mancare il precedente 27 giugno, ma non può essere questa la sede per approfondire l’argomento, anche se è il caso di menzionare quanto scrive Nicodemo Tranchedini in una lettera datata 4 aprile 1458, ossia che secondo Cosimo de’ Medici “il papa e il re siano unum et idem, posto che faciano tale viste del contrario, quale luy extimava fossero fictione, per mantenere credito al papa cum l’altre potentie italiche et extere, ma che forse ancora tale viste procedono perché il re non extima el papa como quello ch’el cognosce da poco et sa non gli pò scapare dele mane, sì per la contiguità deli stati et sì perché el papa è in governo et possanza deli homini del re, che l’hanno ad condure sempre ad tute le voglie de soa mayestà”: “in base all’assioma che un messaggio è tanto più informativo quanto meno prevedibile”, come sostiene Cesare Segre a pagina 74 de Avviamento all’analisi del testo letterario, riteniamo che nel profluvio di informazioni siano proprio le parole sopra riportate a corrispondere al vero. Alla missiva di Nicodemo Tranchedini accenna anche Vincent Ilardi, che a pagina 146 de The Italian League, Francesco Sforza, and Charles VII (1454-1461) scrive: “So strange did this conflict between two men [Callisto III e Alfonso d’Aragona] with so many past ties of friendship seem to contemporaries that Cosimo de’ Medici believed this rivalry to be a camouflage”, poi però aggiunge: “for a Catalan conspiracy to dominate the entire peninsula”, non comprendendo che il testo che segue nella lettera, da noi non riportato, è pura finzione, verrebbe da dire dal carattere semplicemente riempitivo; lo stesso studioso, peraltro, alla nota 36 a pagina 428 de France and Milan: the uneasy alliance, 1452-1466 dimostra di non capire del tutto il contesto politico accennando alle “divergent views of Cosimo and Sforza on the threat posed by the French occupation of Genoa and the expected invasion of Naples”, per le quali rimanda alle missive di Nicodemo Tranchedini datate 5 e 9 aprile e 24 maggio 1458; alla stessa pagina 428 nel testo che si riferisce alla nota 36 conferma il totale fraintendimento scrivendo: “Cosimo de’ Medici, believing that Ferrante’s cause was already lost, advised Sforza to become the guide of the French in Italy rather than their servant by contracting a marriage alliance with the King”; in realtà Cosimo de’ Medici e Francesco Sforza non hanno “divergent views”: la sostanza è che molto semplicemente di comune accordo hanno deciso di puntare, per così dire, sul delfino Luigi. Prima di chudere questa digressione, prendendo spunto dalla sospetta bolla del 12 luglio 1458 di Callisto III contro Ferrante d’Aragona e senza entrare nel merito della dinamica degli eventi che portò alla morte dello stesso papa il 6 agosto successivo, giorno della prima ricorrenza della festa della Trasfigurazione (episodio descritto nei vangeli sinottici sulla cui importanza rispetto al delfino si veda qui), istituita il 6 agosto 1457 con la bolla Inter divinae dispositionis in segno di ringraziamento per la vittoria ottenuta a Belgrado nel luglio del 1456 dall’ungherese Giovanni Hunyadi sui turchi di Maometto II, vorremmo fare alcune considerazioni in merito al nome scelto dal nuovo pontefice, ossia Pio II. Nel saggio “Ritratto di Enea Silvio Piccolomini” contenuto in Ritratti di umanisti Eugenio Garin scrive: “a Virgilio e al suo eroe, e non al santo pontefice Pio I, per concorde opinione Enea Silvio Piccolomini avrebbe pensato il 19 agosto 1458, allorché, dopo una serie di incontri drammatici e di intrighi vergognosi, i voti dei cardinali vennero convergendo su di lui e, compiuta la scelta, gli venne chiesto quale nome intendesse prendere come pontefice”. Innanzitutto rileviamo che come modo verbale lo studioso utilizza il condizionale “avrebbe pensato”. Questa constatazione implica che l’”opinione”, per quanto “concorde”, non è proprio sicura. In ogni caso, a parte questa considerazione, la lettura della documentazione permette di integrare quanto affermato da Eugenio Garin. Il 19 agosto 1458, “hora XIIII”, infatti, da Roma Ottone del Carretto scrive: “Questa solum è per avisare vostra excellentia come in quest’hora per la gratia de Dio è gre creato summo pontifice il reverendissimo cardinale de Sena”. In una riga un po’ staccata sotto la data, come per darle risalto, aggiunge però sibillino: “Dimandasi Pius. Non so quale: o III o IIII. Per primum avisarò”.

Già il fatto che l’ambasciatore non menzioni in alcun modo il corretto “II” sarebbe in sé un indizio sufficiente per inferire che, per motivi che spiegheremo, il papa che in numero precedette Pio II abbia una certa importanza. Passiamo tuttavia a considerare la risposta di Francesco Sforza, che si trova in una minuta del 23 agosto. Essa è la seguente: “In quest’hora havemo recevuto le vostre lettere de dì 19 XVIIII° del presente, le quale ne hano annunciata la felice novella de la creatione del novo summo pontifice, olim reverendissimo monsignore miser Enea, cardinale de Sena et mo Pius secundus. Miser Otho, non poresti credere quanto piacere et consolatione ne havemo havuto”.

Come si può notare, riferendosi alla missiva ricevuta, il duca di Milano scrive il numero arabo “19”, poi lo depenna sostituendolo con il numero romano “XVIIII°”. Si vuole così attirare l’attenzione sugli errati numeri “III o IIII” che Ottone del Carretto ipotizzava avrebbero accompagnato il nome “Pius”, volendo in realtà alludere a Pio I, come conferma il fatto che, nonostante l’imprecisione dell’ambasciatore ducale, Francesco Sforza scrive di sua sponte correttamente “mo Pius secundus”, intendendo suggerire che con il nome Pio prima vi è stato solo un papa. Il motivo per cui interessa tanto alludere a Pio I è che egli fu il decimo pontefice della Chiesa cattolica, volendo in questo modo riferirsi alle dieci “prese” della minuta intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”. Pio I viene inoltre attribuita la data della celebrazione della Pasqua la prima domenica successiva al plenilunio di marzo, anche se su questo aspetto le informazioni sono discordanti. Il punto centrale è comunque che egli fu il decimo papa della Chiesa cattolica. A questo punto riteniamo piuttosto fondato affermare che con il nome Pio II, se è consentita l’espressione, si siano voluti prendere due piccioni con una fava: da un lato alludere a Enea, ma quanto in realtà premeva di più era riferirsi a Pio I, come detto decimo papa della Chiesa cattolica, con un’allusione quindi alle dieci “prese” di “polvere”. In questa direzione va anche il fatto che subito dopo “mo Pius secundus” Francesco Sforza scrive “Miser Otho” e 2 + 8 dà come risultato 10. Per concludere la digressione, non resta che precisare come ovviamente l’implicito riferimento alle dieci “prese” di “polvere” non costituisca un gioco fine a se stesso, bensì rappresenti un preciso avvertimento politico. Torniamo però ora al tema dell’attesa. Si consideri che in un’altra minuta datata 10 maggio diretta a Marchese da Varese si legge: “Expectando nuy che tu ne respondesti circa quanto ordinassemo che te fusse scripto circ’al mandare che havemo facto del reverendo monsignore vescovo de Modena a la maiestà del re de Aragona, havemo trovato che la littera che veniva a ti per dicta casone per errore è stata mandata verso Frenza, del che ne havemo preso despiacere”.

Dopo “verso” sembrano esservi depennate le parole “Roma Cosimo”. In ogni caso subito dopo vi è un toponimo piuttosto ambiguo, che riteniamo vada trascritto “Frenza”, una sorta di composto tra “Firenza” e “Franza”, il quale pare piuttosto significativo e sibillino se considerato in riferimento alla minuta per Marchese da Varese del 10 maggio in cui il duca di Milano segnala la ricezione della lettera di Corradino Giorgi del 3 maggio lamentandosi precipitosamente della non ancora avvenuta partenza di Giorgio Piossasco. Anche il riferimento a un “errore” pare da considerarsi in relazione alla minuta per Marchese da Varese del 10 maggio di cui sopra e alla solita missiva dell’ambasciatore sforzesco in Savoia datata 3 maggio in essa menzionata, con un indiretto riferimento quindi allo sbaglio di datazione compiuto dal duca di Milano nella sua minuta del 12 maggio diretta a Corradino Giorgi. Si consideri infine che l’11 maggio, festa dell’Ascensione, è la data della minuta in cui il duca di Milano scrive a Marchese da Varese in merito al fatto che suo fratello Alessandro non torni a Milano, ma vada a Pesaro, simulando di essere adirato con lui per il viaggio che ha compiuto prima presso il re di Francia, meta paravento, per così dire, e poi presso il duca di Borgogna, reale obiettivo della missione per la presenza del delfino, con il quale Alessandro si è alleato per conto del fratello (al proposito si veda il testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino verso la fine del testo). Come già espresso, il duca di Milano cerca di far capire in ogni modo quanto scritto sopra sia ai filo-Carlo VII, francesi o meno, sia a Venezia, in modo da dissuaderla dal trescare, se è concesso il termine, con il re di Francia. A essa si rivolge anche nel Registro delle Missive 38, che per così dire guarda più verso Est. Per fornire qualche rapido indizio, si consideri che, al fine di dare rilievo al tema dell’attesa, da intendersi come necessità di ponderare adeguatamente le mosse presenti in relazione al futuro, in questo Registro la numerazione delle carte passa dalla 372 alla 273, poi dalla 276 alla 278 senza che all’apparenza vi sia alcun segno di una pagina strappata, poi dalla 281 alla corretta 382, quindi dalla 399 alla 300 e poi dall’errata 307 alla giusta 408, che fra le carte 441 e 442 ne è presente una priva di numerazione, che la numerazione delle carte passa da 443 a 445, ma alla fine del verso della carta 443 e all’inizio del recto della 445 si trova la stessa missiva, fatto da cui consegue che la carta 444 non è stata strappata, bensì è stata saltata, che nella carta 446 i numeri 44 sono ricalcati, soprattutto il secondo 4, al punto da risultare di non facile lettura, e nel recto e nel verso essa contiene cinque lettere di cui tre datate 5 maggio 1459 in cui il “5”, a evidenziarne l’importanza, è sempre scritto diversamente, ossia “V”, “quinto” e “Vto”, che la carta 447 contiene nel recto solo una missiva la quale reca di nuovo la data 5 maggio 1459, la cui rilevanza è sottolineata dal fatto che essa copre meno della metà del recto stesso, mentre nel verso non è scritto nulla, che vi sono due carte 450 e che nel verso della carta 453 non è scritto nulla salvo che al centro “Error”. Ritenere casuali le suddette anomalie non pare corretto. Approfondiamo alcuni casi. Nel recto della carta con l’errata numerazione 273 il destinatario della seconda missiva datata 10 novembre 1458 è “Spectabiles domini Collatrales”, erroneamente indicato al nominativo invece che al dativo e con “Collatrales” al posto di “Collaterales”, parole che si differenziano per le lettere “tr” e “ter”, a sottolineare che la sbagliata numerazione della carta è voluta; a scanso di equivoci, per far intendere al lettore a quanto ci si riferisce, il testo della lettera è il seguente: “Sanctis de Cotignola, quondam Bisi, olim castri Novarie castellani, huc accessit, vocatus ab illustrissimo domino nostro dominacionis sue litteris sub data XV maii 1458. Ibique stetit per mensem unum, adventu, mora et reditu computatis, quare vult dominatio sua quod eidem Sancti nullam pro dicto mense quo absens stetit a custodia dicti castri fieri faciatis aut permitatis stipendii retentionem”, quindi beffardamente in chiusura della missiva prima della data è aggiunto: “Et sic de mente dominationis sue vobis scribo”, e in calce si legge: “Vester Cichus manu propria”. Nel recto della carta 382, quando la numerazione torna giusta, la prima missiva datata 22 novembre 1458 è diretta correttamente “Collateralibus banci stipendiariorum” e il testo è il seguente: “Siando nuy contenti de usare clementia cum Nicolino da Somo e Bertolino di Lupi, nostri citadini cremonesi sustenuti in questa nostra cità de commissione nostra, volimo e ve cometimo che debiate tolire da li predicti idonea e sufficiente segurtate, videlicet da Nicolino per mille fiorini e da Bertolino per sexcento fiorini a ragione de soldi XXXII per fiorino che non se partirano de questa nostra cità senza nostra spetiale licentia et che semel in die se presentarano semel in personalmente a voi et officio vostro. Et, tolta che haveriti tale segurtade, ne dariti aviso a Paulo dala Padela, apreso de cui sono sustenuti, a ciò ch’el gli liberi del carcere”. Prima di tutto bisogna notare che il corretto numero di carta 382 inizialmente è stato scritto 282, quindi il primo 2 è stato modificato in 3: si tratta di un modo per ricordare la scorretta segnalazione della ricezione da parte di Francesco Sforza delle lettere del suo ambasciatore in Savoia, dal duca attribuite al 2 e al 3 maggio, come confermano anche le parole “a ragione de soldi XXXII per fiorino”. A esso fa da pendant la correzione del “te” prima di “cometimo” in “ve”, con la quale si vuole invece alludere alla giusta sequenza delle missive di cui sopra: “te” rimanda infatti a “ter”, mentre la lettera “v” al numero arabo 5. Non a caso, quindi, nella missiva è presente il tema del partire o, più precisamente, del non partire. Bisogna poi fare un’ulteriore osservazione in merito al numero della carta. Come abbiamo scritto sopra, la lettera erroneamente attribuita al 2 maggio dal duca di Milano allude al 2 aprile, ossia al giorno di Pasqua del 1458 e quindi alla resurrezione simbolica del delfino, che ha liberato Ludovico di Savoia dalla condizione di “subiectione” verso Carlo VII. Questo fatto spiega come mai la numerazione torni corretta alla carta con il numero 382, che però in un primo momento viene scritto 282, cifra nella quale, a sottolinearne l’importanza, il numero 28 può essere letto sia per dritto sia per rovescio. La ragione dipende dal fatto che proprio in una lettera datata 28 marzo 1458 Corradino Giorgi aveva scritto a Francesco Sforza “che la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato“, grazie appunto all’intervento del delfino. Quanto scritto sopra è confermato dal fatto che il recto della carta 280, che rimanda al numero 28, dello stesso Registro 38 è lasciato interamente in bianco. Nel recto della carta 279 sono registrati tre documenti: senza entrare nello specifico del contenuto, si tratta di una lettera datata 28 aprile 1458, di una nota redazionale, per così dire, del 5 maggio e di una missiva del 6 maggio. Nel verso, però, vi è una missiva diretta “Illustri domino duci Alberto, archiduci Austrie etc.” curiosamente datata 21 luglio 1458. Quindi vi è il recto in bianco della carta 280, cui nel verso seguono una lettera del 5 maggio diretta “Comiti Henrico de Saco” e un’altra con la stessa data che indirettamente riguarda lo stesso Enrico de Sacco. Poi nel recto della carta 281 vi sono altre due missive datate 5 maggio che di nuovo concernono Enrico de Sacco. Come si può notare, la lettera nel verso della carta 279 reca come data il 21 luglio, la quale implica che le missive successive siano state registrate non solo in un giorno successivo, benché datate 5 maggio, ma anche con l’intenzione di inviare un messaggio al lettore, constatazione che pare piuttosto scontata. A questo punto può essere interessante esaminare il testo della lettera nel verso della carta 279. All’inizio si legge: “Intellectis que nobis quam humaniter et clementer scrbit vestra excellentia et que nobis suo nomine rettullit venerabilis et egregius iuris utriusque doctor et cubicularius sanctissimi domini nostri dominus Georgius Escler in re nostra sane, non possumus vehementer non regratiari dominationi vestre et eidem nos obnoxios perpetuo reddere”. Considerati il recto in bianco della carta 280 e le missive successive datate 5 maggio, il riferimento a una persona il cui nome è “Georgius” pare piuttosto sospetto, trascurando anche il fatto che erroneamente si legge “scrbit” e non “scribit”. Poi si legge: “Ea enim caritate et clementia predicta esse nobi[s] videtur vestra excellentia qua eam semper existmavimus. No[s] enim sumus eius mentis et dispositionis, de quibus idem dominus Georgius, cum quo longum habuimus sermonem, per litteras suas dominationem vestram certiorem faciet”. Come si può notare, “Georgius” viene ora citato solo per nome, ma vi è un altro aspetto da osservare. Riferendosi alla “caritate et clementia” dell’arciduca d’Austria Alberto, si utilizza il pronome relativo “qua” al singolare. Che non si tratti di un errore casuale lo conferma il fatto che poco dopo riguardo alle “mentis et dispositionis” di Francesco Sforza, che sono in relazione anche a “idem dominus Georgius”, è impiegato il pronome relativo “quibus” al plurale. In questo modo riteniamo si voglia alludere al senso plurimo di “Georgius”, con il quale si intende alludere in modo velato a Corradino Giorgi. Il contrasto fra singolare e plurale cui si è accennato lo si ritrova anche alla fine della lettera, dove si legge quanto segue: “Rogamus itaque vestram excellentiam ut eius litteris et rellatibus fidei atque credentie plenitudinem adhibeat et no[s] commendatos sucipiant”. Come si può notare, il duca di Milano si riferisce a se stesso con il verbo al plurale “Rogamus”, poi in relazione a “vestram excellentiam” scrive prima “adhibeat” al singolare, quindi “sucipiant” erroneamente al plurale, sbaglio che pare quasi sottolineato dal fatto che la forma più corretta del verbo dovrebbe essere “suscipiant” con la “s”. Lo sbagliato “sucipiant” si trova inoltre subito prima di “Datum Mediolani, XXI iulii 1458”, a sottolineare il carattere sibillino della data, della pagina bianca che segue e delle lettere datate 5 maggio successive. Si potrebbe poi fare un’ulteriore considerazione. In calce alla missiva è scritto: “In simili forma domino archiepiscopo Magontino etc. mutandis mutatis die suprascripto”. Innanzitutto rileviamo che la parola “archiepiscopo” è scritta sopra il termine “episcopo” depennato, poi che pare proprio leggersi “mutandis mutatis”, ossia alla rovescia rispetto all’espressione corretta “mutatis mutandis”. Riteniamo che si voglia così attirare l’attenzione sui differenti modi in cui può essere utilizzato il prefisso “archi”: dopo la fine della lettera impiegato prima di “episcopo”, ma all’inizio, nell’indicazione del destinatario, associato a “duci”. Alla stessa maniera deve essere considerato “Georgius”, avendo però l’avvertenza di considerare il “mutandis mutatis” al contrario, con il quale si vuole far capire la doppia identificazione che permette di compiere il “Georgius” citato nella missiva: una palese, come nome associato a “Escler”, e una celata come cognome di Corradino Giorgi. Benché rispetto al punto dal quale siamo partiti non sarebbero necessarie molte considerazioni relative al fatto che la missiva sopra citata è seguita dal recto in bianco della carta 280, che rimanda al numero 28, e che le lettere successive siano datate 5 maggio 1458, ribadiamo alcuni aspetti: nella lettera datata 5 maggio dell’ambasciatore sforzesco in Savoia, che nella sua minuta del 12 dello stesso mese Francesco Sforza assegna per sbaglio al 2 maggio, “inizialmente Corradino Giorgi scrive ‘aprilis’, che poi depenna e sopra al quale quindi inserisce ‘madii’, ma, poiché il duca di Milano attribuisce la missiva al 2 maggio, il senso è come se ‘aprilis’ fosse ancora attivo, per cui per questa via si allude al 2 aprile, ossia al giorno di Pasqua del 1458 e quindi alla Resurrezione”, non tanto però quella di Gesù, quanto quella simbolica del delfino, che pochi giorni prima aveva liberato “Ludovico di Savoia dalla condizione di ‘subiectione’ rispetto a Carlo VII, grazie anche all’appoggio del duca di Milano”. In una lettera del 28 marzo 1458, nella cui data il numero del giorno del mese rimanda evidentemente al numero 28 della carta 280 il cui recto è in bianco, l’ambasciatore sforzesco aveva infatti scritto “che la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato”. Può essere tuttavia interessante un’ultima osservazione relativa al fatto che le missive nel verso della carta 280 e nel recto della carta 281 datate 5 maggio riguardino il conte Enrico de Sacco. Riteniamo che con il cognome del conte si voglia alludere al “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” di cui si parla qui. Queste ultime sono state consegnate a Francesco Sforza alla fine di aprile del 1458. Le missive che concernono il conte Enrico de Sacco seguono però una lettera del 21 luglio: quello che si vuol far capire è che come le missive del sacco le dieci “prese” della minuta intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” che si trova all’inizio della corrispondenza fra il duca di Milano e il suo ambasciatore in Savoia, cui si accenna appunto con le lettere datate 5 maggio, sono state inviate in un unico momento dopo appunto il 5 maggio. In ogni caso, a parte queste ultime considerazioni, alla luce delle osservazioni fatte il riferimento al termine della missiva sopra riportata datata 22 novembre 1458 e diretta “Collateralibus banci stipendiariorum” ai temi della prigionia e della liberazione (si legge infatti: “tolta che haveriti tale segurtade, ne dariti aviso a Paulo dala Padela, apreso de cui sono sustenuti, a ciò ch’el gli liberi del carcere”) assume tutt’altro significato. Bisogna poi sottolineare le parole depennate “semel in” che precedono il termine “pntarano” con il segno abbreviativo sulle prime lettere: in questo modo si intende sottolineare la parola “prese”, con rimando alla già citata minuta con il titolo “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, che prosegue dicendo: “Primo. Le prese sono X per persone X”. Questa osservazione è confermata dalla “S” di “Somo”, piuttosto vistosa, anche perché ricalcata nella parte superiore, e che presenta uno svolazzo che raggiunge la parte iniziale della lettera “m” il quale intende sottolineare l’assonanza con la parola “sonno”, con un evidente riferimento al titolo della minuta sopra menzionata, e dal cognome “Lupi”, che costituisce una neanche troppo velata minaccia. Riteniamo tuttavia che le parole depennate “semel in” abbiano anche un’altra implicazione, in quanto i termini corretti precedenti cui si riferiscono sono “semel in die se presentarano”. Quello che si vuole far capire è che, così come “Nicolino da Somo e Bertolino di Lupi” dovranno presentarsi “semel in die”, allo stesso modo le lettere datate 2 e 3 maggio di cui il duca di Milano segnala la ricezione nella sua minuta diretta a Corradino Giorgi datata 12 maggio vanno considerate un’unica ricezione, ossia la nona, e quindi la decima va ricercata altrove, perché il primo capoverso della minuta del 10 gennaio menzionata sopra, secondo cui “Le prese sono X per persone X”, prosegue dicendo “tutte seperate et tanto l’una quanto l’altra”: si vuole dire che le ricezioni avvengono in giorni “separati”, ossia non consecutivi. Con la lettera erroneamente attribuita al 2 maggio e quella del 3 dello stesso mese si simula pertanto che esse siano state ricevute insieme, costituendo una sola “presa”, perché non arrivate a Milano in giorni “separati”, ossia, come detto, non consecutivi. Esaminiamo ora come il ritorno alla corretta numerazione della carta 382 sia per così dire preparato sin dalla carta 280, il cui numero giusto sarebbe 380. La prima missiva nel verso della carta 280, datata 19 novembre 1458, è diretta “Collatralibus nostris generalibus”. In essa si legge: “Siamo contenti et volemo che voy debiati tore ideonea et suficiente securitate ad nome de Carlo da Terzago de fiorini quatromillia a soldi trentaduy per fiorino che da poy el sarà relaxato de prexone infra dì duy immediate che sequiranno l’andarà a Como et lì ogni dì una volta se presentarà denanti al nostro referendario et non se partirà senza nostra special licencia da quella nostra cità de Como”. Essa pare del tutto innocua, tuttavia lo diventa meno se la si considera insieme alla prima lettera nel recto della carta 281, il cui numero corretto sarebbe 381 e che precede la carta 382 con la quale la numerazione torna giusta. La missiva, datata 21 novembre 1458, reca come destinatario “Collacterales nostri generales”. Come si può notare, quest’ultimo non è indicato con il dativo, ma con il nominativo. Inoltre esso non è come al solito allineato centrato e staccato dal testo, ma a sinistra e subito seguito dal testo, che è il seguente: “Non obstante quod fideiussionem habueritis a Carolo de Terzago de se couferendo Cumas per totam diem crastinam, contentamur et volumus etiam terminum ipsum prorogari per totam diem veneris proximam futuram, infra quem inclusive Cumas se conferre habeat et inde parere prout fideiussit”. L’obiezione che si tratti di una sorta di nota redazionale, che peraltro per essere tale è troppo lunga rispetto al solito, non può essere accolta, perché, come abbiamo visto, la prima lettera nel verso della carta con lo sbagliato numero 280, nella quale si parla di “Carlo da Terzago”, presenta il destinatario “Collatralibus nostris generalibus” correttamente allineato centrato. In realtà, sin da quest’ultima si vuole preparare il lettore appunto al ritorno alla corretta numerazione della carta 382. Prima, infatti, vi è il destinatario “Collatralibus” centrato accompagnato nel testo dal cognome “Terzago”, poi nella prima missiva del recto della carta 281 si ha “Collacterales”, erroneamente al nominativo e allineato a sinistra, al fine di sottolineare le lettere “ter” all’interno della parola, perché esse si differenziano dalle lettere “tra” del precedente “Collatralibus”. In questo modo si vuole lasciare intendere l’importanza delle lettere iniziali “ter” all’interno del cognome “Terzago”, che rimandano al numero 3, benché letteralmente esse corrispondano all’avverbio latino che significa “tre volte”. Vi è poi un altro aspetto da considerare. Come abbiamo visto, nella prima missiva nel verso della carta 280 è scritto: “Siamo contenti et volemo che voy debiati tore ideonea et suficiente securitate ad nome de Carlo da Terzago de fiorini quatromillia a soldi trentaduy”. Il numero “trentaduy” inizialmente è stato scritto “trentadui”, poi accanto alla “i” finale è stata aggiunta una linea più lunga obliqua appena accennata che la trasforma in una “y”. In questo modo si vuole alludere alla “scorretta segnalazione della ricezione da parte di Francesco Sforza delle lettere del suo ambasciatore in Savoia, attribuite al 2 e al 3 maggio”, di cui si è parlato sopra in merito al fatto “che il corretto numero di carta 382 inizialmente è stato scritto 282, quindi il primo 2 è stato modificato in 3”. Bisogna poi rilevare come la sigla per “Antonius” del cancelliere “Iohannes Antonius” non sia scritta con le lettere “Ant” seguite da uno svolazzo che parte dalla “t” e prosegue verso destra come nella missiva seguente, ma solo con le lettere “An” che sopra presentano un segno abbreviativo. Dopo queste ultime vi è una “p” fra due punti. Riteniamo che a un primo livello, per così dire, quest’ultima vada messa in relazione con il termine “pressa” scritto proprio sopra la sigla del cancelliere “Antonius” che si trova nella lettera successiva, diretta “Capitaneo iustitie” e datata 29 novembre 1458, il cui testo è il seguente: “Siamo contenti et volimo che, recevuta questa, faciate relaxare de presone et mettere in sua libertate Carlo de Terzago, destenuto pressa voy”. Nel Grande dizionario della lingua italiana il termine “pressa” non è segnalato come una variante della preposizione “presso”, bensì a pagina 251 del XIV volume del sostantivo “presa”. Considerato dunque che quest’ultimo viene poco dopo il cognome “Terzago”, che, come sappiamo, rimanda al numero 3, e che la “p” fra due punti della missiva precedente si trova dopo la sigla “An” per “Antonius”, composta da 2 lettere, riteniamo che in questo modo si voglia fare intendere che, quando Francesco Sforza segnala la ricezione di una lettera di Corradino Giorgi erroneamente attribuita al 2 maggio e di un’altra datata 3 maggio, si tratti di un’unica “presa”, anticipando quindi quanto viene comunicato nella prima lettera del recto della carta correttamente numerata 382 con le parole depennate “semel in”, che seguono i termini “semel in die se presentarano”, ossia che, come si è detto, “così come ‘Nicolino da Somo e Bertolino di Lupi’ dovranno presentarsi ‘semel in die’, allo stesso modo le lettere datate 2 e 3 maggio di cui il duca di Milano segnala la ricezione nella sua minuta diretta a Corradino Giorgi datata 12 maggio vanno considerate un’unica ricezione, ossia la nona”. Per tornare all’importanza del numero 3, bisogna poi considerare che la terza missiva nel recto della carta 281, datata 22 novembre 1458, è diretta “Marcolo de Marliano – Trezo”. In modo piuttosto insolito il toponimo “Trezo” non è preceduto da una preposizione, ma da un trattino: il fine, che tuttavia non è l’unico, consiste nel porre in evidenza le lettere “tre” in esso presenti, aspetto poi per così dire ribadito nella prima lettera del verso della stessa carta 281, diretta “Iohanni de Sancto Ambrosio, ingeniario nostro” e sempre datata 22 novembre, nella quale all’inizio si legge: “Volemo che, havuta questa, tu vadi con l’alligate ad Trezo da Marcolo da Marliano”. A questo punto sempre a partire dalla carta erroneamente numerata 280 possiamo compiere alcune osservazioni di tipo politico. Nel recto la prima lettera è diretta “Capitaneo novariensi” e datata 20 novembre 1458. In essa si legge: “Vincislao da Blassono, olim podestà de Romagnano, ne ha dicto restare havere dal loco de Gragnasco, de la iurisdicione del dicto loco de Romagnano, lire cinquantaquatro, cioè luy per casone del suo salario, per lo quale debito ha obligato quatro homini de Gragnasco et duy da Ara, et, licet più volte habia facto instantia de havergli et che per questo sia stato scripto a loro e ad ti per luy et per li nostri Maestri de l’intrate, non ha may posuto conseguire el dovere suo. Però volimo et te commandiamo che, trovando essere cossì, debii astringere quelli gli sono obligati ad pagargli dicte libre LIIII° infra sey o octo dì al più tardo, avisandote che, se per tuo mancamento restarà ad havere el debito suo, te sarano retenuto tanto de le toe paghe che se pagarà”. La missiva sembra per così dire assolutamente innocua. Tuttavia, considerata alla luce della successiva, pare esserlo molto meno. Diciamo quindi subito che in essa riteniamo centrale il nome iniziale “Vincislao”, scritto interamente nel margine sinistro, come del resto il verbo “Asserit” della lettera seguente, rispetto al quale è però molto più vistoso e con le lettere “islao” visibilmente ricalcate. Riteniamo che il nome sia posto in evidenza per indurre il lettore a metterlo in relazione con la Boemia, non solo perché alcuni duchi e re boemi si chiamarono proprio Venceslao, ma soprattutto per via di Venceslao I, duca di Boemia nella prima metà del X secolo e santo. Con le lettere “islao” ricalcate ci si vuole invece riferire a Ladislao il Postumo (figlio dell’imperatore non incoronato Alberto II d’Asburgo), che fu re di Boemia in carica dal 1453 e morì nel novembre del 1457 mentre si stava recando a Praga per sposare Maddalena, figlia del re di Francia Carlo VII. Che il nome “Vincislao” con le sue lettere ricalcate sia importante è confermato dal fatto che subito dopo la data “die XX novembris 1458” il nome del cancelliere è “Marchus” scritto per esteso. Facendo un rapido sondaggio nel Registro delle Missive 38, risulta che in linea di massima questo nome viene abbreviato “Marc” o “March” seguito da una linea che si prolunga verso destra. Senza dubbio vi sono eccezioni, come per esempio i casi in cui si trova “Marcus”, ma, a parte il fatto che andrebbero esaminati a uno a uno, il nome così scritto non pare nemmeno trovarsi subito dopo la data. Pertanto, ribadito che si tratta di un rapido sondaggio, riteniamo di poter affermare che il nome “Marchus” scritto con le lettere “ch” subito dopo “die XX novembris 1458” sia piuttosto insolito, se non proprio un unicum, e che esso miri a evidenziare l’iniziale “Vincislao” con il suo indiretto riferimento a Ladislao il Postumo e quindi al re di Francia. Quanto affermato riteniamo sia confermato dalla missiva successiva, diretta “Magistris intratarum extraordinariarum” e datata 18 novembre 1458. In essa si legge: “Asserit egregius miles aulicus noster dilectissimus dominus Federicus Palavicinus per potestatem Calistani fuisse condemnatos consules mistrales et homines vile casule curie Ravarani, episcopatus Parme, in ducatis vigintiquinque auri Camere nostre applicandis, ex eo, quod inobedientes fuerunt ipsi potestati quando precepit eis quod dare et numerare deberent in scriptis ipsi potestati omne quod annuatim solvere tenentur ex intratis Ravarani, supplicavitque nobis ut sibi condemnationem huiusmodi elargiri dignemur, attenta potissime ipsorum hominum suorum paupertate, ac committere et mandare quatenus de libris, filzis et scripturis quibuscunque ubi condemnatio ipsa descripta reperiatur penitus cancelletur et annulletur. Itaque, volentes prefato militi complacere, committimus vobis et volumus, si res ita se habet, ut premitatur quatenus condemnationem predictam de quibicunque libris, filzis et scripturis cassari et penitus aboleri faciatis, prout et nos presentium tenore cassamus et abolemus et ita ut nullo futuro tempore valeant dicti homines dicta occaxione molestari”. Il nome e il cognome “Federicus Palavicinus” si trovano al termine della prima riga. In questo modo vengono messi in relazione con “Vincislao da Blassono”, che all’opposto si trova all’inizio della prima riga della lettera precedente. Si vuole così collegare il nome “Vincislao” a “Federicus”, alludendo all’imperatore Federico III d’Asburgo, incoronato nel 1452, che fino allo stesso 1452 aveva avuto la tutela di Ladislao il Postumo, a conferma appunto di quanto scritto in precedenza. Riteniamo tuttavia che le osservazioni da compiere non finiscano qui. Alla fine della seconda riga dopo “consules” è infatti scritto “mistrales”, che in sostanza è l’ultimo termine della riga prima di “et”. La parola pare però priva di senso. Considerati i “Magistris” all’inizio dell’indicazione del destinatario, riteniamo che essa vada intesa come “magistrales”. Tuttavia, poiché non è presente alcun segno abbreviativo, la si può ritenere un errore. A questo punto non resta che notare come essa si trovi sotto “Palavicinus” e sopra “Parme”, penultimo termine della terza riga, a sottolineare l’importanza del cognome e del toponimo. A proposito di “Palavicinus” bisogna notare che nel recto della carta 399, seguita dalla carta erroneamente numerata 300, la seconda missiva, datata 9 gennaio 1459, presenta come destinatario “Antonio Palavicino”, ma esso non è allineato centrato, bensì spostato verso sinistra, come a voler sottolineare il carattere sibillino del cognome “Palavicino”, con il quale si vuole alludere a una prossima morte. Anche se tratteremo il contesto delle suddette carte in cui la lettera è inserita più avanti, qui possiamo anticipare che la non lontana dipartita cui in esse ci si riferisce è quella di Carlo VII. Riteniamo pertanto che anche il cognome “Palavicinus” posizionato sopra lo scorretto termine “mistrales” e presente alla fine della riga della seconda missiva nel recto della carta 280, il cui numero corretto sarebbe 380 e che quindi non è molto distante dalle successive carte 399/300, vada inteso come riferito a Carlo VII e alle sue non buone condizioni di salute, che inducono a ritenere prossima la sua morte. Quanto scritto è confermato per contrasto dal toponimo “Parme”, posto sotto “mistrales” e preceduto in modo significativo da “episcopatus”, in quanto il vescovo di Parma era Delfino Della Pergola, la cui figura, come vedremo quando esamineremo le lettere della carta 382, quindi piuttosto vicina alla scorrettamente numerata 280, serve senza alcun dubbio per alludere al delfino Luigi e alla sua Resurrezione. Da una parte, quindi, mediante il cognome “Palavicinus” ci si riferisce all’anziano e malato Carlo VII, dall’altra con “episcopatus Parme” si allude al giovane delfino. A questo punto possiamo notare come all’inizio della quarta riga, in pratica subito dopo “episcopatus Parme”, vi sia la parola “ducatis”, la cui penultima lettera risulta da una vistosa cancellatura: inizialmente pare infatti vi fosse una “a”, di cui è rimasta leggermente visibile solo la linea a destra con sopra uno svolazzo, come se appunto si volesse lasciare una “i” da mettere in relazione con “applicandis”. Scopo della correzione è porre in rilievo il successivo numero “vigintiquinque”, che rimanda ai numeri 2 e 5 e quindi all’errore di datazione commesso da Francesco Sforza nella sua minuta del 12 maggio diretta a Corradino Giorgi, nella quale, lo ricordiamo, il duca di Milano assegna al 2 maggio una lettera in realtà del 5 dello stesso mese. Che quest’ultima interpretazione sia corretta è confermato dalla scorretta parola “quibicunque” presente alla quart’ultima riga prima di “libris, filzis et scripturis”, mentre quattro righe sopra è scritta correttamente “quibuscunque” ma dopo “libris, filzis et scripturis”. Poiché con le lettere iniziali e finali del termine, sia nella forma giusta sia in quella sbagliata, è possibile comporre l’aggettivo latino “quinque”, ossia in italiano “cinque”, riteniamo che con lo spostamento del termine, prima corretto e poi errato, da una posizione successiva alle parole citate a una che le precede, si voglia alludere al fatto che, come già accennato sopra, nella sua minuta del 12 maggio 1458 Francesco Sforza assegna la lettera del 5 maggio al 2 dello stesso mese, come se all’arretramento grafico, per così dire, corrispondesse quello cronologico. In questa direzione va anche il fatto che nell’errata parola “quibicunque” non solo vi è una “i” al posto di una “u”, ma manca la lettera “s”, volendosi alludere all’avverbio latino “bis”, che, pur significando letteralmente “due volte”, è evidente che rimandi al numero 2. Per quanto riguarda inoltre la lettera dell’ambasciatore datata 5 maggio, come si ricorderà “inizialmente Corradino Giorgi scrive ‘aprilis’, che poi depenna e sopra al quale quindi inserisce ‘madii’, ma, poiché il duca di Milano attribuisce la missiva al 2 maggio, il senso è che è come se ‘aprilis’ fosse ancora attivo, per cui per questa via si allude al 2 aprile, ossia al giorno di Pasqua del 1458 e quindi alla Resurrezione”. D’altra parte, la vicinanza dei termini “episcopatus Parme” e “ducatis vigintiquinque” rende evidente che la Resurrezione cui si allude è quella del delfino, come poi confermano le lettere della carta 382, sempre per contrasto con il re di Francia, destinato a ben altra sorte. Inoltre non casualmente a essa si allude nel recto della carta erroneamente numerata 280, che contiene un riferimento al numero 28. Come già scritto, “la ragione dipende dal fatto che proprio in una lettera datata 28 marzo 1458 Corradino Giorgi aveva scritto a Francesco Sforza ‘che la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato’, grazie appunto all’intervento del delfino”. D’altra parte, come abbiamo visto, già nelle carte correttamente numerate 280 e 281 sono presenti tali aspetti. A questo punto è possibile prendere in considerazione la strana parola “mistrales”, che, come detto, pensiamo vada intesa come “magistrales” e nella quale pertanto mancano le lettere “ag” dopo l’iniziale “m”. Riteniamo che con essa si voglia alludere al termine “magi”, da intendersi più precisamente al singolare, costituendo una premessa di quanto poi si trova nel verso della carta 383 e nel recto della 384, nella carta 399, come detto seguita da una numerata 300, e nella carta 453, tutte carte di cui si tratta più avanti. Qui possiamo anticipare quanto si scrive oltre più ampiamente a proposito della carta 453, nella quale si chiarisce che il mago cui ci si riferisce è il Bagatto, il quale è uno dei 22 trionfi più celebri “appartenente al mazzo di carte Visconti-Sforza, eseguito per Francesco Sforza nei primi anni del suo regno”, che si presenta mentre con la mano sinistra “tiene una bacchetta, lo strumento magico della sua professione”, il quale, scrive Cecilia Gatto Trocchi in un articolo dal titolo Il Bagatto comparso a pagina 30 nel n. 3 del 1986 della rivista “Abstracta”, “deriva dalla verga d’oro di Hermes e ha la funzione di addormentare e di risvegliare”. L’attivita di questo mago non si esplicita però solo nelle missive presenti nel recto della carta erroneamente numerata 280, ma anche in quelle successive. Come sappiamo, la prima lettera nel verso della stessa carta 280, datata 19 novembre 1458, è diretta “Collatralibus nostris generalibus” e in essa si legge: “Siamo contenti et volemo che voy debiati tore ideonea et suficiente securitate ad nome de Carlo da Terzago de fiorini quatromillia a soldi trentaduy per fiorino che da poy el sarà relaxato de prexone infra dì duy immediate che sequiranno l’andarà a Como et lì ogni dì una volta se presentarà denanti al nostro referendario et non se partirà senza nostra special licencia da quella nostra cità de Como”. Si è già detto che con il numero “trentaduy” si vuole accennare alla “scorretta segnalazione della ricezione da parte di Francesco Sforza delle lettere del suo ambasciatore in Savoia, attribuite al 2 e al 3 maggio”, di cui si è parlato sopra in merito al fatto “che il corretto numero di carta 382 inizialmente è stato scritto 282, quindi il primo 2 è stato modificato in 3”. Esso assume ancora più rilevanza alla luce delle considerazioni che si sono fatte in merito al numero “vigintiquinque” della missiva precedente scritto poco dopo “episcopatus Parme”, da porre in relazione con il delfino, mentre “Palavicinus” per contrasto deve essere associato con Carlo VII, cui indirettamente allude il nome “Vincislao” della prima lettera nel recto della carta erroneamente numerata 280. Ne consegue che il nome “Carlo” di “Carlo da Terzago” nella prima missiva nel verso della stessa carta 280 si riferisce al re di Francia. Si noti che in questa lettera si parla della scarcerazione di “Carlo da Terzago”, concetto poi ribadito nella missiva successiva diretta “Capitaneo iustitie” e datata 29 novembre 1458, il cui testo è il seguente: “Siamo contenti et volimo che, recevuta questa, faciate relaxare de presone et mettere in sua libertate Carlo de Terzago, destenuto pressa voy”. Pare evidente che per contrasto si voglia alludere a una situazione di difficoltà di Carlo VII, che si chiarisce o per meglio dire si ribadisce nella terza e ultima lettera del verso, cui abbiamo già accennato, diretta “Depitatis fabrice hospitalis Mediolani”, con l’errato “Depitatis” al posto di “Deputatis”, e datata “die XXI novembris 1458”. In essa si legge: “Perché intendiamo che Bernardo da Pra voluntera voria tore una casa a livello de quello del hospitalo e pagare quello sia honesto et ragionevele et que che se trova da vernno altro, ve confortiamo, caricamo et volemo che al dicto Bernardo vogliati compiacere de dicta casa a livello, pagando esso quello se ne trova da altri et che sia honesto, como è dicto de sopra et como altre volte vi havemo facto dire”. Del testo sopra iniziamo a rilevare le seguenti caratteristiche. Alla fine della seconda riga vi è la prima occorrenza dell’aggettivo “quello”, il quale è scritto in modo simile al “quello” che segue alla terza riga, ossia con la “q” abbreviata seguita dalle lettere “llo”. La “q”, tuttavia, è abbreviata in modo diverso: nel primo caso presenta una breve linea sopra, nel secondo dall’estremità inferiore della linea verticale parte una linea che per così dire gira intorno a sinistra della lettera, risalendo verso l’alto fino a terminare sopra la stessa “q”, in modo in sostanza identico alla breve linea cui si è accennato sopra. Inoltre la “o” finale della prima occorrenza di “quello” presenta una sorta di correzione: si direbbe trattarsi di una linea che depenna la stessa “o”, in maniera che però rende l’aggettivo privo di senso, oppure di una “a”, da cui si otterrebbe il termine “quella”. Alla quarta riga vi è poi una “q” depennata con una linea obliqua che presenta un segno abbreviativo identico a quello che caratterizza la seconda occorrenza dell’aggettivo “quello” alla terza riga. Subito dopo quest’ultimo vi è il pronome relativo “che”, abbreviato con le lettere “ch” con la “h” che in sostanza consiste in una linea dalla cui estremità inferiore parte un segno abbreviativo simile a quello della “q” che precede lo stesso pronome relativo, solo che esso gira intorno non a un’unica lettera, bensì a due, vale a dire appunto le lettere “ch”. Inoltre poco dopo sulla stessa riga si trova la parola “vernno”, scritta con la “v” tagliata erroneamente seguita dalle lettere “nno”. Cerchiamo a questo punto di fare un po’ di ordine rispetto alle considerazioni appena fatte. Riteniamo che con le prime due occorrenze di “quello” con diversi segni abbreviativi sulle “q” si voglia attirare l’attenzione sulle lettere finali “llo”, come conferma la “o” con una sorta di correzione della prima occorrenza e la “q” depennata della quarta riga, in cui mancano appunto le lettere “llo”. Lo scopo consiste nel mettere in evidenza la parola “livello”, che precede di poco la prima occorrenza di “quello”, quasi sopra la seconda occorrenza e sotto i termini “da Pra”. Naturalmente, leggendo la missiva in modo letterale, il termine indica una forma di contratto, ma quello che in realtà si vuole comunicare al lettore è che Carlo VII è destinato, come intende suggerire l’errata parola “Depitatis” presente all’inizio del destinatario al posto di “Deputatis”, a un “livello” “da Pra”, ossia è prossimo alla morte. A pagina 25 del XIV volume del Grande dizionario della lingua italiana il termine “pra’” viene infatti indicato come una variante della parola “prato”. Quanto scritto è corroborato dal fatto che, a sottolineare le cattive condizioni di salute del re di Francia, all’inizio della terza riga non è scritto correttamente “hospitale”, ma “hospitalo”, con una sorta di “o” di cui è stata tracciata solo la metà inferiore, in modo che risulta aperta come nessun’altra “o” presente nella lettera. A conferma di quanto scritto sopra riguardo al termine “hospitalo”, riteniamo utile esaminare in modo succinto un frammento, per così dire, della corrispondenza tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto, suo ambasciatore a Roma. All’inizio della minuta ducale datata 28 maggio si legge: “Dapoy scritte le altre nostre de dì XVIIII del presente havemo recevuto le vostre de dì 16, 17 et 19 de questo, alle quale accade pocha risposta, maxime ad la parte del .. duca de Savoya”. Se la segnalazione della ricezione di lettere datata 17 e 19 maggio non pone problemi, diverso è il discorso per quella del 16 dello stesso mese. Al proposito il punto critico per così dire è costituito dal terzo capoverso della minuta, nel quale è scritto: “De miser Francesco Coppino et del facto del vescovato de Parma de la permutatione con quello de Arimino similiter siamo avisati et expectiamo sentire quanto haverite exequito”. Di “Francesco Coppino” Ottone del Carretto parla nel quarto capoverso di una lettera del 15 maggio, non del 16, nella quale si legge: “Domino Francisco Coppino è stato fin a qui occupato in visitatione de papa e cardinali. Ormay cominciarà a fare qualche cosa de le cose a luy commisse, de le quale ad longo havemo insieme parlato et paremi ben disposito”. Poi subito di seguito l’ambasciatore scrive: “Quanto a la parte lo [le due lettere, di cui la seconda non è chiara, sono depennate con una “x”] de l’hospitale grande, ateso che il reverendissimo cardinal de Pavia ha tal commissione dal papa et, habita relatione de prete Stephano da Robio, non tarderà a darli fine, non pare de fare altro, se vostra excellentia non ce scrive altro”. Quindi in una missiva del 17 maggio Ottone del Carretto aggiunge: “De le cose commisse a domino Francesco Coppino, de le quale il prefato monsignore ancora havea comisione, vostra excellentia per altre mie deve essere avvisata quello che è fatto fin a qui. Io non li mancharò de diligentia”. Pare evidente che con le parole “per altre mie” ci si riferisca alla lettera del 15 maggio. Per quanto riguarda invece il “facto del vescovato de Parma dela permutatione con quello de Arimino” di cui scrive Francesco Sforza nella minuta del 28 dello stesso mese, egli si riferisce alla missiva citata di Ottone del Carretto del 17 maggio. Nel capoverso precedente rispetto a quello menzionato sopra si legge: “Del fatto del vescoato de Parma ho intesi alcuni partiti che ha ricordati il prefato domino vescuo de Modena et inter cetera questo, che il vescuo da Rimino è contento lassare il vescoato suo per quello de Modena et così quello chi è vescuo de Parma se potrà far vescuo de Rimino, la qual cosa, quantunque forte de iure rigore non se possa così fare potestate ordinaria pontificis, nisi consentiente episcopo parmense aut probata causa legitima per la quale se debia rimovere, nondimeno per molti rispetti [iminenenti] è persuasibile a la sanctità de nostro Signore che lo debia fare, siché con ogni industria et diligentia mi studiarò de fare che se conduca ad votum et de quello se potrà fare in brevi serà avisata vostra excellentia. Essendo qua il prefato monsignore de Modena, non è parso per bono rispetto farne parola”. In sostanza, dunque, nella sua minuta del 28 maggio il duca di Milano commette un errore di datazione, riferendo la ricezione di una lettera del 16 dello stesso mese che invece è datata 15 maggio. È su quest’ultima missiva che per vari motivi si vuole attirare l’attenzione. Uno di essi è che, mentre nella sua minuta Francesco Sforza unisce i temi di “Francesco Coppino” e “del facto del vescovato de Parma dela permutatione con quello de Arimino”, nel quarto capoverso della lettera del 15 maggio di Ottone del Carretto il tema di “Francisco Coppino” è associato a quello dell’“hospitale grande”. Francesco Coppini si configura pertanto come una sorta di perno intorno cui ruotano da una parte il delfino, al quale si allude con il riferimento al “vescovato de Parma”, di cui era vescovo Delfino Della Pergola, e dall’altra l’ospedale di Milano, che per contrasto non può che rappresentare un riferimento alla malferma salute di Carlo VII. Le considerazioni da fare in merito alla lettera del 15 maggio di Ottone del Carretto non finirebbero qui. Per ora ci limitiamo a segnalare che all’inizio del secondo capoverso si legge: “Poy ch’io hebbi le lettere de vostra excellentia del VI del passato, è pur venuta novella che il duca de Calabria è intrato in Genoa, ma se dice in diversi modi”. L’ambasciatore sforzesco si sbaglia nel riferire la ricezione di “lettere” “del VI del passato”, ossia del 6 aprile, perché esse sono del 6 maggio. In ogni modo esamineremo in modo più dettagliato la corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo ambasciatore a Roma in un altro momento, compresa la minuta del 28 maggio del duca di Milano cui si è accennato con il passo riportato sopra, che presenta alcune caratteristiche che non abbiamo rilevato. A questo punto riteniamo di poter procedere oltre con le osservazioni partendo dal pronome relativo “che” abbreviato con le lettere “ch” con la “h” che in sostanza consiste in una sola linea dalla cui estremità inferiore parte un segno abbreviativo simile a quello della “q” depennata che lo precede e che abbiamo descritto sopra. Nella missiva la parola “che” è abbreviata in questo modo tre volte, mentre in altri due casi lo è in maniera diversa, la quale qui non importa descrivere. La seconda volta segue subito la “q” depennata priva delle lettere “llo”, le quali, come abbiamo detto, rimandano alla parola “livello”, che a sua volta allude a Carlo VII e alla sua salute malferma. Benché, presentando il segno abbreviativo, letteralmente “ch” significhi “che”, in realtà le due lettere vogliono alludere a “Christo” e alla sua Resurrezione, cui accenna la “v” tagliata che sta per “ver” della parola significativamente sbagliata “vernno” che segue subito dopo. In latino “ver” significa infatti “primavera”, che a sua volta rimanda alla Pasqua, che si celebra la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. In sostanza è come se, con la “q” depennata e il pronome relativo a essa subito vicino, all’anziano re di Francia si contrapponesse il giovane delfino, da identificare con Gesù risorto. Queste considerazioni vengono confermate da altre osservazioni, che a loro volta consentono di giungere ad altre conclusioni. Innanzitutto bisogna notare che il termine “che” compare nel modo sopra descritto altre due volte: una all’inizio della missiva prima di “Bernardo da Pra”, un’altra alla fine della quinta riga, seguito all’inizio della sesta da “al dicto Bernardo”. Riteniamo che in questo modo lo si voglia associare al nome Bernardo, da intendere come un’allusione a Bernardo di Chiaravalle. Una conferma in questo senso viene dalla seconda missiva nel verso della carta erroneamente numerata 281 diretta “Capitaneo Modoetie” e datata 21 novembre 1458, della quale il tema è un debito di “Bernardus de Fontana” nei confronti di Giovanni Caimi. Non si può non rilevare come Bernardo di Chiaravalle, nato verso il 1090, fosse figlio del signore di Fontaine, cui in latino corrisponde appunto il termine “Fontana”, dove era nato, località non lontana da Digione e situata a pochi chilometri dalla capitale della Borgogna, della quale al tempo era duca Oddone I. Pare pertanto piuttosto evidente che con il nome Bernardo, sia in italiano sia in latino, si voglia alludere a Bernardo di Chiaravalle. Nel 1135, inoltre, quest’ultimo fondò nei pressi di Milano l’abbazia di Chiaravalle, in latino “Clara Vallis”, come filiazione dell’abbazia francese di Clairvaux, in italiano “Chiaravalle” e in latino “Clara Vallis”. Abbiamo visto come nella lettera da cui siamo partiti “Pra” di “Bernardo da Pra” abbia una connotazione negativa rispetto al re di Francia, tuttavia rispetto a “Bernardo” da intendersi come Bernardo di Chiaravalle “Pra” costituisce un riferimento all’abbazia milanese di “Clara Vallis”. Questa interpretazione è confermata dal fatto che la prima missiva nel verso della carta 281, datata 22 novembre 1458, è diretta “Iohanni de Sancto Ambrosio, ingeniario nostro”. Il cognome “Sancto Ambrosio” è un modo per alludere a sant’Ambrogio, patrono dell’arcidiocesi di Milano, di cui appunto l’abbazia di Chiaravalle faceva parte. D’altra parte il riferimento a sant’Ambrogio si trova già nella lettera citata alla fine del recto della carta 281 nel cui destinatario “Marcolo de Marliano – Trezo” è curiosamente presente un trattino. All’inizio di essa si legge: “Rispondendo alla toa lettera per la quale ne scrivi de quelle muragle menazano ruina nel castello vechio così nella girlanda, te dicimo che mandiamo li Iohanni da Sancto Ambrosio, nostro ingengniaro”. Tornando ora al punto da cui siamo partiti, il fatto che, pur presentando il particolare segno abbreviativo sopra descritto, le due lettere “ch” vogliano alludere a “Christo” e quindi al delfino è confermato dalla posizione che hanno nella prima riga, in cui costituiscono la terza parola, subito seguita dal nome “Bernardo”, che rimanda a “Bernardo di Chiaravalle”, originario della Borgogna (come detto, era nato a Fontaine, in latino “Fontana”, località cui si accenna in una lettera successiva menzionando una persona il cui nome è “Bernardus de Fontana”), dove in quel periodo si trovava appunto il delfino. Si noti che, al fine di evidenziare il particolare segno abbreviativo che caratterizza le lettere “ch” che precedono “Bernardo”, all’inizio della prima riga è scritto “perché” con la “p” la cui gamba è tagliata da una linea seguita dalle lettere “ch” il cui semplice segno abbreviativo taglia la linea verticale superiore della “h” ed è quindi ben diverso dal segno abbreviativo delle lettere “ch” quasi immediatamente successive. A conferma di quanto appena scritto, le stesse lettere “ch” con il medesimo segno abbreviativo ricorrono alla fine della quinta riga seguite all’inizio della sesta da “al dicto Bernardo”. Nella prima riga il nome “Bernardo” è però seguito dalla specificazione “da Pra”, che, come detto, se riferita al re di Francia ha una connotazione negativa, associata a “Bernardo” costituisce un’allusione all’abbazia di “Clara Vallis” da lui fondata nel 1135 nei pressi di Milano. In questo modo si vuole in sostanza far capire che il delfino è vicino al duca di Milano o, per essere più precisi, suo alleato, mentre Carlo VII è anziano e in cattive condizioni di salute. A questo punto possiamo considerare la missiva successiva, all’inizio del recto della carta erroneamente numerata 281, ossia quella che presenta il destinatario al nominativo “Collacterales nostri generales” allineato a sinistra e non centrato nella quale si parla di nuovo di “Carolo de Terzago”, il cui nome, come sappiamo, deve essere inteso come un riferimento a Carlo VII. Nella lettera seguente, diretta “Potestati Cumarum” e datata 22 novembre 1458, all’inizio si legge: “Quello Zohanne Matto del quale crediamo sii informato vene qua da nuy per darni certo adviso et poy s’è partito senza nostra saputa”. Riteniamo che il cognome “Matto” non sia utilizzato casualmente, ma vada messo in relazione con Carlo VII. Come vedremo, il terzo capoverso della minuta sulla “polvere” autorizza a ritenere che in esso “si voglia alludere alla carta del Matto, la cui più antica versione sembra appartenere” al “mazzo Visconti-Sforza”. Esso va identificato non solo con Carlo VII, in quanto “figlio di Carlo VI, detto il Folle (in francese Charles le Fou) per via delle frequenti crisi”, e i “franzosi” presenti nel ducato di Savoia, ma anche con i francesi in senso più ampio. Per comprendere il motivo del cognome “Matto”, bisogna tornare alle missive precedenti, nelle quali riteniamo si voglia porre in evidenza il nome “Antonius”. Come abbiamo visto, nella lettera diretta “Collatralibus nostris generalibus” e datata 19 novembre 1458 all’inizio del verso della carta 280, che si trova a fronte rispetto a quella che reca l’errato destinatario “Collacterales nostri generales”, volendo creare un legame fra le due, la sigla per “Antonius” del cancelliere “Iohannes Antonius” è scritta con le lettere “An”, che sopra presentano un segno abbreviativo, dopo le quali vi è una “p” fra due punti. Nella missiva seguente, diretta “Capitaneo iustitie”, la sigla per “Antonius” sempre del cancelliere “Iohannes Antonius” è scritta invece con le lettere “Ant” seguite da uno svolazzo che parte dalla “t” e prosegue verso destra. Sopra di essa si trova il termine “pressa” con la “p” che presenta in alto un segno abbreviativo. L’ultima lettera del verso, come sappiamo diretta “Depitatis fabrice hospitalis Mediolani”, è datata “die XXI novembris 1458”. Nel sostantivo “die”, però, prima di “XXI” si leggono chiaramente le lettere “di”, mentre l’ultima, piuttosto ricalcata, non è chiaro se si tratti di una “e”, benché lo si possa inferire. La caratteristica descritta della parola “die” dipende dal fatto che si vuole evidenziare il modo diverso in cui all’ultima riga è scritto il numero 21 nella data della missiva seguente, quella con il destinatario al nominativo “Collacterales nostri generales” allineato a sinistra, ossia “XXp°”, in cui la “p” rimanda alla “p” cui si è accennato precedentemente, che si trova dopo le lettere “An” con sopra un segno abbreviativo che stanno per il nome “Antonius” del cancelliere “Iohannes Antonius”. Con la “p” di “XXp°” si vuole dunque sottolineare l’importanza della sigla “Ant” di “Iohannes Antonius” e quindi del nome Antonio. Le due “XX” vogliono invece alludere alle due sigle “Io”, che ovviamente stanno per “Iohannes”: una prima di “Antonius”, la seconda spostata verso destra. A questo punto bisogna capire perché si dia risalto al nome Antonio. Per comprenderlo, è necessario considerare la lettera alla quale si è già accennato nel cui destinatario “Marcolo de Marliano – Trezo” è curiosamente presente un trattino prima del toponimo invece della consueta preposizione. In questo modo non si vuole solo dare risalto alle lettere “tre” di “Trezo”, come si è scritto sopra, ma conseguire due obiettivi, uno dei quali è proprio in relazione con il nome Antonio, con il quale si vuole far capire che è ad Antonio da Trezzo che ci si intende riferire, ambasciatore sforzesco presso re Ferrante d’Aragona. Una conferma in questo senso viene dalla seconda missiva nel verso della carta erroneamente numerata 281 diretta “Capitaneo Modoetie” e datata 21 novembre 1458 della quale, come sappiamo, il tema è un debito di “Bernardus de Fontana” nei confronti di Giovanni Caimi, il quale alla fine del luglio precedente in qualità di ambasciatore sforzesco aveva raggiunto a Capua proprio Antonio da Trezzo, avendo come compito, secondo la voce a lui dedicata nel volume 16 del Dizionario Biografico degli Italiani online della Treccani, insieme all’altro inviato ducale “Orfeo da Ricavo” di “confermargli [a Ferrante d’Aragona] ancora una volta l’appoggio del duca di Milano”. A questo punto possiamo tornare alla lettera in latino con il destinatario al nominativo “Collacterales nostri generales” allineato a sinistra, datata 21 novembre 1458 e di cui abbiamo già rilevato alcuni aspetti, che si trova all’inizio del recto della carta 281 e che fa da pendant a quella in italiano diretta “Collatralibus nostris generalibus” di due giorni prima presente all’inizio del verso della carta 280, della quale per maggiore chiarezza proponiamo di nuovo il testo: “Non obstante quod fideiussionem habueritis a Carolo de Terzago de se couferendo Cumas per totam diem crastinam, contentamur et volumus etiam terminum ipsum prorogari per totam diem veneris proxime future, infra quem inclusive Cumas se conferre habeat et inde parere prout fideiussit”. Innanzitutto bisogna notare che le “o” per la maggior parte sono tracciate in modo da risultare aperte. Le uniche chiuse sono in modo significativo quelle finali di “Terzago” e “couferendo”. Il primo caso è piuttosto facile da spiegare: si vuole così evidenziare il precedente nome “Carolo”, nel quale invece le due sono “o” aperte, in modo da confermare che con esso ci si riferisce al re di Francia. Per comprendere la “o” finale chiusa di “couferendo”, bisogna considerare che la prima “o”, pur essendo essa stessa una “o”, è aperta e potrebbe indurre a considerare una “o” la “u” per sbaglio scritta subito dopo. Si vuole così far capire che la “u” del successivo toponimo “Cumas” potrebbe essere intesa come una “o”, avendo così le iniziali “Com” di Como, fatto che spiega la posizione di questa lettera a fronte di quella diretta “Collatralibus nostris generalibus” all’inizio del verso della carta 280, nella quale vi sono due occorrenze di “Como” in italiano. Il fine è far intendere che si vuole alludere all’altra località cui il toponimo “Cumas” potrebbe riferirsi, ossia Cuma, in latino appunto “Cumae”, che peraltro risulta menzionata in una lettera del 9 dicembre 1455 di Orfeo da Ricavo diretta da Napoli a Francesco Sforza in cui si legge che “La mayestà del signore re è anchora fuori a Cuma” (può essere interessante notare che la missiva si trova a pagina 323 di Dispacci sforzeschi da Napoli, vol. I, 1444-2 luglio 1458, edito nel 1997, e che Francesco Senatore indica come mittente “Orfeo Cenni”, ma nella lettera pubblicata il nome risulta essere “Orpheus de Ricavo”; in effetti nell’indice Senatore riporta “Cenni, Orfeo, da Ricavo”, ma quest’ultimo risulta firmarsi “Orpheus” o “Orpheus de Ricavo”; nel vol. II, 4 luglio 1458-30 dicembre 1459, edito nel 2004, nell’indice viene invece segnalato “Cenni, Michele, da Ricavo, detto Orfeo”; come mittente delle lettere Senatore continua a indicare “Orfeo Cenni”, che però si firma “Orpheo”, “Orpheus” o “Orpheus de Ricavo”; al proposito segnaliamo che nel volume 23 del Dizionario Biografico degli Italiani online della Treccani è presente la voce “Cenni, Orfeo”, che prima dell’inizio del testo viene indicato come “Cenni, Orfeo (Orfeo da Ricavo)”; per quanto riguarda l’ultima lettera del vol. I, segnaliamo che nella copertina del libro è scritto “2 luglio 1458”; nella missiva pubblicata, diretta da Iñigo d’Avalos, marchese di Pescara e gran camerario, a “Petro Candido”, ossia Pier Candido Decembrio, come data a pagina 667 è scritto “A duy de iulio in Castello Novo”, che Senatore ha reso come “[Napoli], 2 luglio [1458]”: se l’indicazione dell’anno pare condivisibile, visto che, come si legge nel regesto, nella lettera vengono descritte le “ultime ore di vita di re Alfonso” e la “successione di Ferrante”, meno comprensibili risultano le parentesi quadre relative a Napoli, visto che di una missiva che reca la data “in Castello Novo Neapolis” del 28 giugno precedente lo studioso ha indicato come data topica “Napoli” senza parentesi quadre e anche considerato che entrambe le occorrenze di “Castello Novo” compaiono in modo indifferenziato nell’Indice dei luoghi sotto la voce “Napoli” e la sottovoce “Castelnuovo”). Si vuole dunque accennare alla volontà di Carlo VII di attaccare il regno di Napoli. Una conferma in questo senso viene dal fatto che, come spiegato sopra, in questa stessa missiva la “p” del numero 21 scritto “XXp°” va messa in relazione con la sigla “Ant” di “Iohannes Antonius”, in modo da dare risalto al nome Antonio, che poco più oltre si precisa doversi intendere come un’allusione ad Antonio da Trezzo, ambasciatore sforzesco appunto presso il regno di Napoli. A questo punto si arriva alla già menzionata lettera diretta “Potestati Cumarum” e datata 22 novembre 1458 all’inizio della quale si legge: “Quello Zohanne Matto del quale crediamo sii informato vene qua da nuy per darni certo adviso et poy s’è partito senza nostra saputa”. Una volta notato che permane l’ambiguità del toponimo “Cumarum”, che, lo ripetiamo, può riferirsi non solo a Como ma soprattutto a Cuma, si chiarisce a chi si voglia alludere con il nome e cognome “Zohanne Matto”, vale a dire a Giovanni d’Angiò, primogenito di Renato, il quale dal maggio precedente si trovava a Genova, che governava in nome della Francia e dalla quale il 4 ottobre 1459 sarebbe partito per attaccare il regno di Napoli. I motivi per cui Giovanni d’Angiò sarebbe “matto” li si fa intendere nella missiva successiva, quella che reca come destinatario “Marcolo de Marliano – Trezo” con il trattino. Nelle prime righe di essa si legge: “Rispondendo alla toa lettera per la quale ne scrivi de quelle muragle menazano ruina nel castello vechio così nella girlanda, te dicimo che mandiamo li Iohanni da Sancto Ambrosio, nostro ingengniaro, presente exhibitore, per videre tuto quello bisogna per reconzare dicte muraglie”. I termini chiave riteniamo siano due: “vechio” e “girlanda”. Dopo avere notato che nel primo le lettere “chi” sono più grandi delle altre, colpisce che dalla parte superiore della “i” parta una linea che arriva sino alla “m” di “Ambro” che sopra presenta un segno abbreviativo. Per ora ci limitiamo a osservare che il sostantivo “vechio”, benché nel contesto della lettera sia evidentemente riferito al castello, costituisca un’allusione all’età di Carlo VII. Per quanto riguarda il termine “girlanda”, a pagina 848 del VI volume del Grande dizionario della lingua italiana si dice che rimanda a “ghirlanda”. Quindi a pagina 747 fra i vari significati ve n’è uno che naturalmente concerne le fortificazioni. Nel Vocabolario online della Treccani si legge tuttavia che si tratta di una “Corona di foglie, di fiori, di erbe intrecciate […] usata, se di dimensioni più grandi […] come segno di onore e di affetto verso i defunti”. Le ragioni per cui il primogenito di Renato d’Angiò sarebbe “matto” dipendono dunque dal fatto che il re di Francia, sotto la cui protezione agisce, è anziano e vicino alla morte, concetti peraltro già espressi nella missiva diretta “Depitatis fabrice hospitalis Mediolani”, nella quale Carlo VII viene contrapposto al delfino per via della sua giovane età. La stessa antitesi riteniamo sia presente nella lettera in esame e messa in evidenza dalla linea che dalla parte superiore della “i” arriva a lambire la “m” di “Ambro” con sopra un segno abbreviativo. Come si è visto, il cognome “Sancto Ambrosio” serve per alludere a sant’Ambrogio, patrono dell’arcidiocesi di Milano, della quale faceva parte l’abbazia di Chiaravalle, cui si allude in modo velato nella stessa missiva per i “Depitatis fabrice hospitalis Mediolani” quando si parla di “Bernardo da Pra”, perché essa fu fondata da Bernardo di Chiaravalle, originario della Borgogna, dove in quel periodo si trovava il delfino. La contrapposizione Carlo VII/delfino nei termini cui si è accennato è tuttavia presente anche nella prima missiva del verso della carta 281 diretta “Iohanni de Sancto Ambrosio, ingeniario nostro”. Nelle prime righe si legge infatti: “Volemo che, havuta questa, tu vadi con l’alligate ad Trezo da Marcolo da Marliano, nostro comissario de quella terra, al quale scrivimo che debbia monstarte certe muraglie quale, secundo ne scrive, menazano ruyna in quello nostro castello”. Innanzitutto bisogna rilevare che nel destinatario “Sancto” è abbreviato “Scto”, mentre nella lettera precedente si legge “Sco”. Che la differenza non sia casuale lo suggerisce il fatto che nel destinatario dopo le lettere “Scto” “Ambrosio” è scritto per esteso, mentre nella missiva precedente si trova “Ambro” con sopra un segno abbreviativo: si vuole così appunto suggerire al lettore la diversità di quanto precede il nome Ambrogio, prima appunto reso con le lettere “Sco” e poi con “Scto”. A sua volta il modo diverso in cui è abbreviato il termine “Santo” è da porre in relazione con il verbo “monstarte”, cui significativamente seguono le parole “certe muraglie quale […] menazano ruyna in quello nostro castello”, che all’inizio è stato scritto “monttarte”, con un segno abbreviativo a indicare la “n”, e poi sulla prima “t” è stata scritta una “s”. Si vuole così sottolineare come dopo la seconda “t” manchi una “r”: l’intento consiste nell’evidenziare come la parte iniziale e quale finale del verbo permettano di formare la parole “morte”, naturalmente da considerare in relazione a Carlo VII, cui come al solito si contrappone il velato riferimento alla Borgogna e quindi al delfino implicito nel cognome “Sancto Ambrosio”. A questo punto possiamo domandarci a chi siano rivolti i velati messaggi cui si è accennato sopra, ai quali comunque dovremo aggiungerne altri. Per comprenderlo, bisogna di nuovo considerare l’ultima missiva nel recto della carta 281, che, come noto, ha come destinatario “Marcolo de Marliano – Trezo” con il trattino. Nella voce “Marliani, Antonio” del volume 70 del Dizionario Biografico degli Italiani online della Treccani si legge che il fratello Marco “il 25 ag. 1466 ottenne il suo incarico principale quando divenne castellano di Trezzo, la rocca più importante del Ducato in quanto baluardo fondamentale contro Venezia”. A parte il fatto che in effetti dalla lettera seguente, la prima nel verso della carta 281, diretta “Iohanni de Sancto Ambrosio, ingeniario nostro”, egli risulta essere “comissario de quella terra”, ossia Trezzo, già il 22 novembre 1458, pare abbastanza evidente, se già non lo fosse per il Registro cui appartiene la missiva, che il destinatario cui ci si rivolge è appunto un eventuale ambasciatore di Venezia, cui si vuol far capire che in prospettiva non è molto lungimirante legarsi a Carlo VII, visto che l’ascesa al trono del delfino Luigi pare tutt’altro che lontana. A proposito di Antonio Marliani si può poi fare un’ulteriore considerazione, ossia che il suo cognome rimanda a quello di Raimondo Marliani. Per la verità non è del tutto chiaro se i due fossero parenti, perché di Antonio si dice che era “Figlio di Alberto”, mentre alla voce “Marliani, Raimondo” dello stesso volume 70 del Dizionario Biografico degli Italiani online si legge che “È […] accertata una stretta parentela con Pasino, padre di Antonio”. È vero però che poi subito dello stesso Antonio si aggiunge: “maestro delle Entrate ducali e consigliere segreto. Il figlio di Antonio, Giovan Francesco […] ereditò infatti i beni dell’omonimo parente, creando agli studiosi non pochi problemi di identificazione”. Queste ultime informazioni trovano riscontro nella voce di Antonio, nella quale si legge che “Ricoprì […] la carica di maestro delle Entrate ordinarie dal 4 dic. 1467 […] e di consigliere segreto dall’ottobre 1475”. Più oltre poi si dice: “Ebbe un figlio […]: Giovan Francesco”. In ogni caso, anche a prescindere dalla parentela o meno, considerato che il destinatario è un eventuale lettore proveniente da Venezia cui si vuole inviare il suddetto avvertimento, il cognome “Marliani” implica un riferimento a Raimondo Marliani, di cui nella voce a lui dedicata nel Dizionario Biografico degli Italiani si legge: “Professore di diritto all’università di Lovanio, fu a lungo consigliere dei duchi di Borgogna […] e dal 1455 intrattenne una preziosa corrispondenza con il duca di Milano, Francesco Sforza (Kendall – Ilardi)”. Per la verità nel primo volume a cura di Paul Murray Kendall e Vincent Ilardi di Dispatches with Related Documents of Milanese Ambassadors in France and Burgundy, 1450-1483 (che comprende lettere dal 1451 al 1460, anche se in effetti all’inizio del libro è scritto “volume one: 1450-1460”) della “preziosa corrispondenza” sono presenti solo tre lettere, datate 18 febbraio e 5 marzo 1455, entrambe da Digione, e una del 7 gennaio 1457 da Dole, cui Francesco Sforza risponde il successivo 4 febbraio, come risulta dal verso della carta 208 del Registro delle Missive 34. In ogni caso, a parte queste considerazioni, si può ragionevolmente affermare che, come detto, “il cognome ‘Marliani’ implica un’allusione a Raimondo Marliani” e quindi alla Borgogna e al delfino, rafforzando per così dire i riferimenti impliciti del cognome “Sancto Ambrosio”. Abbiamo dunque visto come quest’ultimo cognome, posto tra la fine del recto e l’inizio del verso della carta 281, serva a rendere più chiaro il riferimento a Bernardo di Chiaravalle contenuto nel nome delle persona chiamata “Bernardo da Pra” presente nella lettera alla fine del verso della carta 280, che diviene poi ancora più esplicito nel verso della carta 281 quando si parla di “Bernardus de Fontana”. Allo stesso modo riteniamo che il nome che accompagna il cognome “Sancto Ambrosio”, ossia “Iohanni”, scritto prima in italiano, poi nel destinatario in latino, costituisca un’anticipazione del nome di “Iohanni Caymo”, che costituisce la seconda parola della missiva finale nel verso della carta 281, nelle cui prime righe abbiamo visto che si legge: “Debet Iohanni Caymo, tabellariorum nostrorum officiali, certas pecunias occasione massaritii Bernardus de Fontana, istius terre nostre incola”. In sostanza con “Iohanni da Sancto Ambrosio” si vuole da un lato anticipare la figura di Giovanni Caimi, dall’altro, come detto, “rendere più chiaro il riferimento a Bernardo di Chiaravalle contenuto nel nome delle persona chiamata ‘Bernardo da Pra’”, “che diviene poi ancora più esplicito” nella lettera in cui “Bernardus de Fontana” viene menzionato come debitore di Giovanni Caimi, questa volta citato esplicitamente, il quale, come scritto sopra, “alla fine del luglio precedente in qualità di ambasciatore sforzesco aveva raggiunto a Capua […] Antonio da Trezzo, avendo come compito insieme all’altro inviato ducale ‘Orfeo da Ricavo’ di confermare a Ferrante d’Aragona l’appoggio di Francesco Sforza”. Può essere il caso di osservare che alla missione di Giovanni Caimi si allude, per così dire, nell’ultima lettera del recto della carta 281, diretta “Marcolo de Marliano – Trezo”, nella quale si legge: “Rispondendo alla toa lettera per la quale ne scrivi de quelle muragle menazano ruina nel castello vechio così nella girlanda, te dicimo che mandiamo li Iohanni da Sancto Ambrosio, nostro ingengniaro […] per videre tuto quello bisogna per reconzare dicte muraglie”. Come sappiamo, il toponimo “Trezo” preceduto dal trattino serve anche, ma non solo, per far capire che con il nome Antonio evidenziato nella prima missiva dello stesso recto ci si vuole riferire ad Antonio da Trezzo. Pertanto, quando ci si rivolge a Marco Marliani dicendogli che viene inviato presso di lui a Trezo “Iohanni da Sancto Ambrosio”, si intende in realtà alludere in modo velato al viaggio di Giovanni Caimi, che alcuni mesi prima aveva raggiunto appunto Antonio da Trezzo nel regno di Napoli. In ogni caso, a parte queste ultime considerazioni, è evidente che nella missiva finale nel verso della carta erroneamente numerata 281 diretta “Capitaneo Modoetie” l’intento consiste nel far capire che la missione dell’inviato sforzesco Giovanni Caimi, insieme ovviamente a quella di Orfeo da Ricavo, era avvenuta sotto l’ombrello, per così dire, o, se si preferisce, lo scudo protettivo del delfino, accomunato a Bernardo di Chiaravalle dal fatto che il primo risiedeva in Borgogna, mentre il secondo vi era nato, per essere precisi nella località di Fontaine. Ne consegue che quanto riportato sopra tratto dalla voce “Caimi, Giovanni” del Dizionario Biografico degli Italiani online in merito all’“appoggio del duca di Milano” a Ferrante d’Aragona andrebbe integrato. A questo punto può essere interessante riportare integralmente il testo della missiva alla fine del verso della carta 281 datata 21 novembre 1458. Esso è il seguente: “Debet Iohanni Caymo, tabellariorum nostrorum officiali, certas pecunias occasione massaritii Bernardus de Fontana, istius terre nostre incola, ad cuius debiti satisfactionem is se admodum prebet difficilem, in non mediocre ipsius Iohannis detrimentum. Cum itaque velimus eius Iohannis indemnitati providere, maxime quia sic nobis supplicavit, tibi committimus quatenus, constito tibi per prius de ipius Bernardi debito, contra eum summarie procedas per omnia iuris remedia, cogendo taliter quod brevi mora creditor predictus suum creditum cum integritate consequatur”. Come si può notare, l’aggettivo “mediocre”, che è il penultimo della quarta riga, non è corretto, in quanto dovrebbe essere “mediocrem”. Esso si trova prima di “ipsius”, seguito all’inizio della riga successiva da “Iohannis detrimentum”. Non si tratta tuttavia di uno sbaglio casuale e lo dimostra più sotto l’ottava riga, occupata interamente dalle parole “constito tibi per prius de ipius Bernardi debito”. A parte il fatto che il participio passato “constito” andrebbe approfondito, in quanto il verbo “constare” dovrebbe avere solo il participio futuro, il pronome “ipius” prima di “Bernardi” si configura chiaramente come uno sbaglio: sopra esso è infatti assente il segno abbreviativo che dovrebbe trasformarlo in “ipsius” ed è invece significativamente presente nello stesso pronome che segue l’errata parola “mediocre” e che precede il nome “Iohannis”, creando una sorta di corrispondenza fra i due pronomi, entrambi seguiti da un nome. È piuttosto evidente che con “ipius”, quasi anticipato dall’avverbio “prius”, che però, come vedremo, ha anche un’altra implicazione, si voglia alludere a Pio II. Il fatto che esso sia accostato a “Bernardi” e al contempo rimandi al pronome “ipsius” della quarta riga subito seguito da “Iohannis” sta a significare che il papa è d’accordo con il delfino riguardo alla copertura da lui offerta alcuni mesi prima alla missione effettuata dall’inviato sforzesco Giovanni Caimi insieme a Orfeo da Ricavo nel regno di Napoli. D’altra parte con una bolla datata 10 novembre 1458, quindi pochi giorni prima rispetto alla missiva sopra, il papa “assicurò a F. l’investitura” del trono di Napoli, come si legge nella voce relativa al sovrano nel volume 46 del Dizionario Biografico degli Italiani online. La protezione offerta dal delfino a Ferrante d’Aragona, come del resto l’”appoggio” di Francesco Sforza, non devono tuttavia essere considerati limitati a pochi mesi della seconda metà del 1458, ma in vista del previsto attacco al regno di Napoli da parte di Giovanni d’Angiò. Al proposito riteniamo che l’avverbio “prius”, in italiano “prima”, oltre a costituire una sorta di anticipazione del nome “Pius”, debba essere interpretato anche in altro modo. L’avverbio deriva infatti dall’aggettivo comparativo “prior, prius”, il cui superlativo è “primus”, e che, volendo semplificare, significa “primo tra due”. Riteniamo pertanto che esso vada inteso come un riferimento a Pio I. A conferma di tale affermazione vi è il fatto che la “i” iniziale dell’errato pronome “ipius” posta dopo di esso è come se costituisse una sorta di numero “I” romano, ribadendo che ci si riferisce appunto a Pio I. Il motivo per cui interessa alludere a quest’ultimo papa, come abbiamo scritto sopra, è che “egli fu il decimo pontefice della Chiesa cattolica” e pertanto consente di “riferirsi alle dieci ‘prese’ della minuta di Francesco Sforza intitolata ‘Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.’”. Come vedremo, “passando dalla carta 382 al recto della carta 383 del Registro 38”, il delfino “viene associato a ‘polvere de bombarda et da schiopetti’: è evidente che al terzo livello di lettura, ossia appunto quello del delfino”, “il titolo del documento assuma un tono di minaccia e avvertimento, sia nel presente sia in prospettiva, quando il delfino sarà asceso al trono, tanto più se si considera il senso sinistro che alla luce della ‘polvere’ viene ad avere l’espressione ‘fare dormire’ (può essere il caso di rilevare che a pagina 968 del IV volume del Grande dizionario della lingua italiana come significato del verbo ‘dormire’ viene dato anche quello di ‘Giacere nell’eterno riposo; giacere morto’)”. A questo proposito può essere interessante fare alcune considerazioni riguardo alla parola “constito”, che, come abbiamo detto, pare configurarsi come un errore, in quanto il verbo “constare” dovrebbe essere privo del participio passato, avendo solo il participio futuro “constuturus”. Il termine non sembra mai ricorrere né nei sedici Registri delle Missive di Francesco Sforza pubblicati online né nel Glossarium mediae et infimae latinitatis di Du Cange sempre disponibile online. Persino una generica ricerca online non fornisce alcun risultato. Considerato che il suddetto participio passato è preceduto tre parole prima, nella riga precedente, dal pronome personale “tibi”, il quale a sua volta lo segue subito dopo, e che al termine della riga è scritta la parola “debito” viene da chiedersi se non si voglia proprio sottolineare la stranezza del termine “constito”. La ravvicinata ripetizione di “tibi” pare infatti voler evidenziare le iniziali lettere “ti”, che in “constito” rappresentano la quart’ultima e la terz’ultima lettera. D’altra parte, nella parola “debito” le lettere “bito” paiono in relazione con “tibi”, volendo tuttavia sottolineare che le due lettere finali “to” a loro volta costituiscono le due lettere conclusive di “constito”. Che queste osservazioni siano fondate pare confermato dal fatto che le lettere “to” non sono presenti in nessun’altra parola della missiva. È vero invece che le lettere “ti” si trovano nelle righe precedenti alla fine dei termini “debiti” e “indemnitati”, ma non costituiscono la quart’ultima e la terz’ultima lettera come nel caso di “constito” e “tibi”. È pertanto inevitabile domandarsi se non si voglia sottolineare il curioso participio passato “constito”, volendo alludere al fatto che del verbo “constare” dovrebbe esistere solo il participio futuro: se l’implicito riferimento al secondo non potrebbe che costituire un riferimento al delfino, il primo all’opposto potrebbe rappresentare un’allusione dal carattere macabro al re di Francia. È vero tuttavia che sarebbe necessaria un’indagine più approfondita riguardo all’eventuale utilizzo del participio passato “constito” verso la metà del XV secolo, quantomeno in area milanese, anche se il suo impiego pare alquanto dubbio. Pertanto, rivolgendosi al destinatario, vale a dire un eventuale lettore proveniente da Venezia, l’avvertimento relativo all’avanzata età di Carlo VII e alla sua malferma salute cui abbiamo prima accennato assume una connotazione più fattuale, per così dire, in relazione all’intenzione di Giovanni d’Angiò di attaccare Ferrante d’Aragona, tanto più che quest’ultimo poteva valersi del sostegno non solo di Francesco Sforza e di Pio II, ma anche del delfino, futuro re di Francia. La differenza di prospettive politiche fra il primogenito di Renato d’Angiò (e chi lo sosteneva) da una parte e il delfino dall’altra non deve essere stupire, perché in seguito, come si legge alla voce “Giovanni d’Angiò” dell’Enciclopedia italiana online della Treccani, dopo la grave sconfitta subita a Troia il 18 agosto 1462 egli tornò in Francia ed “ebbe parte preponderante nella guerra del ‘bene pubblico’ contro Luigi XI (1464-5)”, divenuto re dopo la morte del padre il 22 luglio 1461, senza dire che nella voce “Luigi XI re di Francia” dell’Enciclopedia online sempre della Treccani si legge fra parentesi che “Francesco Sforza gli aveva già mandato aiuti di truppe all’atto della Lega del Bene pubblico”, al cui comando vi era il figlio Galeazzo Maria. L’avvertimento cui si è sopra accennato ha tuttavia anche un’altra connotazione. L’allusione a Bernardo di Chiaravalle e a Pio II implica infatti un riferimento alla crociata, in favore della quale (la seconda per essere precisi) su incarico di papa Eugenio III Bernardo predicò nel 1146. Dal canto suo, invece, con la bolla Vocavit nos del 13 ottobre 1458 Pio II aveva convocato i principi cristiani per una dieta, che poi avrebbe aperto lui stesso a Mantova il 1° giugno 1459, con l’obiettivo di riunirli in uno sforzo comune contro i turchi di Maometto II. Rivolgendosi al destinatario, non si deve però credere che l’intento consista nel ricordargli la necessità di impegnarsi per la crociata: il vero obiettivo è avvertirlo che, nel valutare le mosse future, Venezia deve anche considerare di essere particolarmente esposta alla minaccia turca. Come vedremo, gli avvertimenti politici cui si è accennato sopra vengono ribaditi nelle carte successive, anche se per così dire in modo più dettagliato. Per concludere le osservazioni in merito alle due carte con la numerazione sbagliata che precedono la carta correttamente numerata 382, si noti come l’allusione a Pio I, “decimo pontefice della Chiesa cattolica”, e pertanto alle “dieci ‘prese’ della minuta di Francesco Sforza intitolata ‘Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.’” contenuta nella seconda e ultima missiva nel verso della carta 281 preceda la lettera nel recto della carta 382 diretta “Collateralibus banci stipendiariorum” all’inizio della quale si legge: “Siando nuy contenti de usare clementia cum Nicolino da Somo e Bertolino di Lupi”, in cui, come si è scritto sopra, la “S” di “Somo” “presenta uno svolazzo […] il quale intende sottolineare l’assonanza con la parola ‘sonno’”. Procediamo ora esaminando le altre due lettere nel recto della carta 382. La prima è diretta “Capitaneo Binaschi” e datata 23 novembre 1458. Nelle prime righe si legge: “Per altre nostre lettere ti havemo scripto dovessi fare pagare ad lo famiglio de domino Antonio Trotto le spexe del medico et medicine ha patito per cason de la ferita gli fo facta lì”. Per comprendere le parole sopra riportate, bisogna evidenziare due caratteristiche del nome del cancelliere “Marchus”, scritto “March” con un segno abbreviativo particolare che approfondiremo più avanti: esso, infatti, non è solo in modo inconsueto allineato al centro, ma sembra quasi appartenere all’indicazione del destinatario della missiva successiva, che è “Angelo de Assesio, castellano Binaschi”. La firma del cancelliere “Iohannes” si trova invece più in basso, in sostanza al livello del destinatario della lettera e della sua prima e seconda riga. Per quanto concerne il primo aspetto, bisogna ricordare che nella missiva all’inizio del recto della carta erroneamente numerata 280, perché il suo numero corretto sarebbe 380, diretta “Capitaneo novariensi” e datata 20 novembre 1458, il nome è scritto “Marchus” per esteso subito dopo la data e si è rilevato come esso “sia piuttosto insolito, se non proprio un unicum” e “miri a evidenziare l’iniziale ‘Vincislao’ con il suo indiretto riferimento a Ladislao il Postumo e quindi al re di Francia”, in quanto il primo era morto “nel novembre del 1457 mentre si stava recando a Praga per sposare Maddalena”, figlia appunto di Carlo VII. Con l’insolita posizione del nome del cancelliere Marco si vuole di nuovo associare quest’ultimo al re di Francia, ribadendone le non buone condizioni di salute con l’accenno alle “spexe del medico et medicine”. Il riferimento a Carlo VII avviene però all’interno della consueta contrapposizione al delfino: la lettera diretta “Capitaneo Binaschi” costituisce infatti una sorta di trait d’union fra la missiva precedente, nella quale, come sappiamo, ci si riferisce alla più volte citata minuta relativa alla polvere, e quanto segue, che appunto conduce direttamente al delfino. Passiamo pertanto a considerare le missive successive, a partire da quella immediatamente dopo, la cui data non è di facile lettura: se infatti vi è di sicuro scritto “XXIII novembris 1458”, dopo il numero romano compare un segno che non solo non scende verso il basso come di consueto se fosse il numero romano “I”, ma sale come fosse una sorta di “s” che si conclude con il segno “°”. In ogni caso, a parte queste considerazioni, l’altro motivo per cui “Marchus” della lettera precedente pare quasi appartenere all’indicazione del destinatario di questa missiva dipende dal fatto che si vuole rilevare come dei castellani di Binasco, che secondo Caterina Santoro, come risulta da pagina 610 de Gli uffici del dominio sforzesco (1450-1500), erano i fratelli Angelo, Giacomo e Giovanni Contuzzi da Assisi, viene menzionato il solo “Angelo”. Si vuole così indurre il lettore a riflettere su chi fosse il fratello del destinatario della prima missiva del verso della carta 382, diretta “Comiti Leonoro de la Pergola” e datata 24 novembre 1458. Il fratello di Leonoro Della Pergola era il vescovo di Parma Delfino Della Pergola, la cui figura, come vedremo quando esamineremo la corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo ambasciatore a Roma Ottone del Carretto, è molto importante, in quanto essa serve per alludere al delfino Luigi, che, come sappiamo, deve essere identificato con Gesù, la cui Resurrezione rimanda a quella simbolica del delfino. D’altra parte già nella stessa lettera per Leonoro Della Pergola si fa capire che il fratello Delfino serve per alludere al delfino Luigi. All’ultima riga, dopo la data “Mediolani, die XXIIII° novembris 1458”, il nome del cancelliere è “Facinus”, scritto “Facinu” con un segno abbreviativo con significato proprio all’incirca sopra la “u” che sta per “s”. Pur non essendo identico, il segno abbreviativo richiama quello della lettera successiva, nella quale, come vedremo, il nome “Marcus” del cancelliere va posto in relazione con il re di Francia. Facendo un rapido sondaggio nel Registro delle Missive 38, pare di poter affermare che il nome “Facinus” venga scritto per esteso, anche nella forma “Fazinus”, preceduto da “Ser”. Nel caso della missiva in esame riteniamo pertanto si voglia sottolineare che questo nome potrebbe valere per due persone diverse: una per così dire palese, ossia il cancelliere “Facinus de Fabriano”, l’altra velata, vale a dire il condottiero Facino Cane, vissuto fra il 1360 circa e il 1412, che prima servì Gian Galeazzo Visconti e poi si scontrò con i suoi figli Giovanni Maria e Filippo Maria: si tratta pertanto di un personaggio tutt’altro che estraneo alla storia di Milano, di cui nel 1409 divenne governatore, prendendo fra l’altro anche Pavia nell’anno successivo. In questo modo si vuole far capire che il nome di Delfino Della Pergola, cui indirettamente si allude tramite il fratello Leonoro, serve come detto per riferirsi al delfino, figlio di Carlo VII, al quale si accenna nella missiva successiva per contrasto. Riteniamo inoltre vada data la giusta rilevanza al cognome di Facino Cane, da intendersi come un riferimento all’animale per via della sua fedeltà. Una conferma in questo senso viene dalla parte finale in chiaro di una lettera in cifra del 18 aprile 1458 di Corradino Giorgi in cui si legge che “domino Francescho de Tomatis” è “cano de vostra signoria”. Il concetto è inoltre presente nel Libellus de natura animalium dello Pseudo-Alberto Magno, uno dei tre libri richiesti da Ludovico di Savoia a Francesco Sforza. Nella seconda lettera datata 9 aprile del recto della carta 13 del Registro delle Missive 44 diretta a Corradino Giorgi si legge: “Per lo presente nostro cavallaro te mandiamo doy de quelli tri libri che tu ne rechiedesti per parte de quello illustrissimo signor duca, zoè la Bibia et Alberto Magno, li quali volemo debbii presentare da nostra parte al prefato signore […] Similmente ce excusaria perché non gli mandiamo el terzo libro, però che non se trova qua né in lo nostro paese simili libri et voressemo bene haverlo possuto trovare per satisfare al disiderio della vostra signoria de sua signoria”. Tralasciando il fatto che con le parole depennate “della vostra signoria” si vuol far capire che in realtà “doy de quelli tri libri” sono stati inviati direttamente a Ludovico di Savoia, bypassando, per così dire, Corradino Giorgi e alludendo in questo modo a una “corrispondenza sommersa” fra i due duchi a noi non pervenuta, l’ambasciatore segnala la ricezione dei volumi all’inizio di un’altra missiva interamente in chiaro datata 18 aprile, quindi significativamente come quella in cui “domino Francescho de Tomatis” viene definito “cano de vostra signoria”, nella quale si legge: “A dy XV del prescente ho recevuto queli doy libri una cum le lettere de vostra signoria, ale quale respondendo dicho ho prescentato ly suprascripti libri a questo illustrissimo signor, ly quali ly sono stati gratissimi et acceptatissimi […] pregando quella [vostra signoria] che anchora vogla fare durare uno pocho de faticha a fare retrovar quelo Vincentio De speculo ystoriali e farali vostra signoria cossa molto gratissima”. Se il “Vincentio De speculo ystoriali” può senza alcun dubbio essere identificato con lo Speculum historiale di Vincenzo de Beauvais, per l’identificazione degli altri due testi bisogna ricorrere a una lettera di Ludovico di Savoia datata 17 aprile nelle cui prime tre righe il duca sabaudo segnala a Francesco Sforza che “libros duos insignes et perpulcros Bibliam sacram et Albertum De natura animalium nobis vestro amore sincero transmissos recepimus”. Uno dei due libri ricevuti da Ludovico di Savoia è dunque la Bibbia; per quanto riguarda il secondo, si tratta appunto del Libellus de natura animalium dello Pseudo-Alberto Magno, che risulta attribuito ad Alberto Magno in una delle edizioni a stampa dell’inizio del XVI secolo. A parte queste considerazioni, come si può leggere alle pagina 314-345 del libro Le proprietà degli animali, a cura di Annamaria Carrega e Paola Navone, in cui il Libellus è pubblicato, nel capitolo “XXXIX De natura canis” è scritto: “[1] Propietas canis est talis quod multum est fidelis, presertim suo domino et cognito et hiis non cognitis contradicit”. Sotto il titolo “XXXIX La natura del cane” la traduzione fornita è la seguente: “La proprietà del cane è tale che è molto fedele, soprattutto nei confronti del suo padrone e di chi conosce, e si oppone agli sconosciuti”. Al proposito apriamo una breve parentesi riguardo al fatto, che non può lasciare indifferenti, che alla fine della minuta ducale relativa alla “polvere” e alle “prese” dopo la data 10 gennaio 1458 si precisa: “Questa scriptura fo lecta et data ad intendere de verbo ad verbum al nostro illustrissimo signore in la camera sua del cane”. In ogni caso, considerato che Facino Cane fu protagonista dela storia di Milano, che il suo nome serve per far capire che con quello di Delfino Della Pergola, fratello di Leonoro, si allude al delfino Luigi e che il cane in quanto animale si caratterizza per la sua fedeltà, riteniamo si voglia ribadire che Francesco Sforza è “fidelis”, come si legge nel Libellus, del delfino o, per riprendere variando quanto si è scritto sopra, a lui “vicino o, per essere più precisi, suo alleato”. A questo punto possiamo passare alla missiva successiva, nella quale si conferma che il delfino Luigi “deve essere identificato con Gesù, la cui Resurrezione rimanda a quella simbolica del delfino”. Essa è infatti diretta “Venerabili et eximio decretorum doctori domino Lazaro de Arecio, dillectissimo nostro” e datata 26 novembre 1458. Il nome “Lazaro” non è certo casuale, ma con esso si intende alludere a “Lazarus a Bethania”, di cui nel Vangelo di Giovanni si racconta che fu resuscitato da Cristo (Io 11,1-44), nel quale, come detto, deve essere identificato il delfino. Si potrebbe obiettare che non ci si riferisce alla Resurrezione del delfino perché non si parla in modo esplicito di quella di Gesù, ma ciò che conta è che implicitamente il tema della Resurrezione compaia nell’associazione Leonoro Della Pergola, Delfino Della Pergola, delfino Luigi, Cristo, Lazzaro e appunto Resurrezione di quest’ultimo, volendo in realtà alludere a quella del delfino, cui viene contrapposto Carlo VII per via delle sue non buone condizioni di salute. Poco più in basso rispetto all’ultima riga, infatti, le cui uniche parole sono “novembris 1458”, il nome del cancelliere è scritto in modo inconsueto, ossia “Marcu” con un segno abbreviativo con significato proprio all’incirca sopra la “u” che sta per “s” simile a quello sopra la “u” di “Facinu” della missiva precedente, anche se abbiamo precisato che non è del tutto identico. Per quanto riguarda il nome del cancelliere Marco, si è rilevato che “Facendo un rapido sondaggio nel Registro delle Missive 38, risulta che in linea di massima viene abbreviato ‘Marc’ o ‘March’ seguito da una linea che si prolunga verso destra. Nel caso di ‘March’ una linea orizzontale può anche tagliare la parte superiore della “h”. Senza dubbio vi sono eccezioni, come per esempio i casi in cui si trova “Marcus”, ma […] andrebbero esaminati a uno a uno”. Riteniamo comunque di poter affermare che rispetto al Registro delle Missive 38 il nome “Marcu” seguito dal segno abbreviativo descritto costituisce quasi senza dubbio un unicum. Poiché ormai sappiamo che, qualora sia scritto in modo particolare, il nome di questo cancelliere deve essere posto in relazione con il re di Francia, pare evidente che anche nel caso della missiva in esame si intenda di nuovo riferirsi a Carlo VII. Come accennato, la ragione è per rilevarne la malferma salute. Nell’indicazione del destinatario, infatti, la parola “decretorum” presenta la “o” e la “r” in sostanza fuse tra loro, a differenza dell’immediatamente successivo termine “doctori”, nel quale le due lettere sono ben distinte: in questo modo si vuole alludere al fatto che quest’ultimo termine non va inteso solo in senso letterale, ma anche nel senso di “medico”, appunto in relazione al re di Francia, e non a caso è quasi subito seguito per contrasto dal nome “Lazaro”, con il quale ci si vuole riferire alla Resurrezione del delfino. A questo punto possiamo tornare alla seconda lettera nel recto della carta 382 diretta “Capitaneo Binaschi”, rispetto alla quale abbiamo sottolineato che “Con l’inconsueta posizione del nome del cancelliere Marco si vuole […] associare quest’ultimo al re di Francia, ribadendone le non buone condizioni di salute”. Prima, però, si è rilevato che “La firma del cancelliere “Iohannes” si trova invece più in basso [rispetto a quella di Marco], in sostanza al livello del destinatario della lettera [successiva] e della sua prima e seconda riga”. Il testo di queste ultime è il seguente: “Volimo che, subito ricevuta questa, faci consegnare in le mano et possanza de Pizino, nostro maestro da stalla presente”. Pare soprattutto interessante che la prima riga si concluda con le parole “in le mano” e la seconda inizi con i termini “et possanza”. Come sappiamo, nella seconda lettera del verso della carta erroneamente numerata 281 (il numero corretto sarebbe 381), datata 21 novembre 1458, si cita esplicitamente “Iohanni Caymo”, il quale abbiamo scritto che alla fine del luglio precedente si era recato nel regno di Napoli con il compito di “confermargli [a Ferrante d’Aragona] ancora una volta l’appoggio del duca di Milano”. Tuttavia abbiamo rilevato come nella seconda missiva nel recto della stessa carta 281 con il nome e cognome “Zohanne Matto” si voglia alludere a “Giovanni d’Angiò, primogenito di Renato, il quale dal maggio precedente si trovava a Genova, che governava in nome della Francia e dalla quale il 4 ottobre 1459 sarebbe partito per attaccare il regno di Napoli” e che i motivi per i quali Giovanni d’Angiò sarebbe “‘matto’ dipendono […] dal fatto che il re di Francia, sotto cui la protezione agisce, è anziano e vicino alla morte”. A questo punto possiamo tornare alla “firma del cancelliere ‘Iohannes’”, scritta “più in basso [rispetto a quella di Marco], in sostanza al livello del destinatario della lettera [successiva] e della sua prima e seconda riga”. Riteniamo piuttosto evidente che anche con essa si alluda a Giovanni d’Angiò, di nuovo rilevandone la situazione non ottimale: il sostegno di Carlo VII di cui si può valere è infatti più apparente che sostanziale, come sottolineato dall’insolita posizione del nome del cancelliere Marco, da associare al re di Francia e alle “spexe del medico et medicine” e per contrasto al delfino, come si capisce dallo sviluppo delle missive successive, di cui egli è in realtà “in le mano et possanza”, sia nel presente sia se quest’ultimo viene valutato in prospettiva. La terza missiva nel verso della carta 382 va nella direzione di quanto appena sostenuto. Essa è diretta a un imprecisato “Castelano Binaschi”, come a chiudere il cerchio aperto nel recto della stessa carta con tutte le implicazioni che non ci pare il caso di ripetere qui, ed è datata nientemeno che “die XXXI novenbris MCCCC° LVIII”. La terza missiva nel verso della carta 382 conferma quanto appena sostenuto. Essa è diretta a un imprecisato “Castelano Binaschi”, come a chiudere il cerchio aperto nel recto della carta 382 con tutte le implicazioni che non ci pare il caso di ripetere qui, ed è datata nientemeno che “die XXXI novenbris MCCCC° LVIII”. Prima di esaminare il problema costituito dalla data, poiché ovviamente novembre ha trenta giorni e non trentuno, riteniamo opportuno proporre il testo della lettera: “Volendo nuy conpiacere ala illustrissima madona Biancha, nostra consorte, la quale molto ha instato preso de nuy per la liberatione de Petro Autonio di Calvi, parente de meystro Matrognano, destenuto presso de ti per certa robaria etc., siamo contenti et volemo liberi de presone dicto Petro Antonio, lassando presso de ti tuta quella robba haverà robata, zoè quela gli era tochata in sua parte, fazendo una scritta de dicta robba quale presso ad ti, tempore futuro, se possa fare la restutione d’essa ad lo patrone de chi era”. Riteniamo che un buon punto da cui iniziare il ragionamento sia costituito alla quarta riga dal verbo “siamo”, la cui “s” iniziale è piuttosto simile alla “S” del cognome “Somo” della prima missiva che si trova nel recto della carta 382, anche se quest’ultima presenta uno svolazzo più vistoso, che, come abbiamo rilevato, “intende sottolineare l’assonanza con la parola ‘sonno’, con un evidente richiamo” al titolo “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” della minuta ducale del 10 gennaio (cui peraltro ci si riferisce anche in altro modo nella stessa lettera). Per tornare al verbo “siamo”, l’aspetto interessante è che la lettera “y” della parola “meystro” nella riga immediatamente sopra scende verso il basso al punto da sfiorare la “s” del verbo. A questo punto bisogna ricordare che riguardo alla missiva precedente, diretta “Venerabili et eximio decretorum doctori domino Lazaro de Arecio, dillectissimo nostro”, si è rilevato come si volesse “alludere a ‘Lazarus a Bethania’, di cui nel Vangelo di Giovanni si racconta che fu resuscitato da Cristo (Io 11,1-44), nel quale […] deve essere identificato il delfino”. Si è anche sottolineato che, anche se “non ci si riferisce alla Resurrezione del delfino perché non si parla in modo esplicito di quella di Gesù”, “ciò che conta è che implicitamente il tema della Resurrezione compaia nell’associazione Leonoro Della Pergola, Delfino Della Pergola, delfino Luigi, Cristo, Lazzaro e appunto Resurrezione di quest’ultimo”, con la quale si vuole “in realtà alludere a quella del delfino”. La conferma di quanto scritto sopra viene appunto dalla missiva successiva, nella quale la “y” di “meystro”, che rimanda a “Yesus”, da un lato è chiaramente da collegare al delfino, dall’altro è posta in relazione con la “s” di “siamo”, con cui, come detto, si intende alludere al sonno, richiamando il titolo della minuta ducale del 10 gennaio 1458. L’associazione fra Gesù e il sonno rimanda proprio alla Resurrezione del primo e più precisamente, come si è già scritto qui e come ripeteremo più avanti, “alle guardie (in latino ‘custodes’) del sepolcro di Gesù, che, dopo essere state pagate dai ‘principibus sacerdotum’, vanno in giro a raccontare […] che ‘discipuli eius nocte venerunt et furati sunt eum nobis dormientibus’ (si veda al proposito Mt 28,11-15)”. La Resurrezione di Gesù/delfino viene quindi collegata al sonno o, per essere più precisi, al “far dormire le guardie”. A questo punto può essere interessante rilevare che al centro della penultima riga della missiva si trova l’errata parola “restutione”, nella quale mancano le lettere “ti”, che riteniamo vada messa in relazione con la parola “futuro” all’inizio della stessa. Che l’associazione fra i termini “futuro” e “restutione” sia corretta è confermato dal fatto che alla fine della riga precedente si leggono le parole “ad ti, tempore”. Con il pronome personale “ti” uguale alle lettere mancanti nel termine “restutione” si vuole far capire che le parole cui si deve fare attenzione sono quelle successive allo stesso pronome, ossia “tempore futuro”, con le quali si vuole alludere all’ascesa al trono da parte del delfino Luigi. Una conferma in questo senso viene per contrasto del fatto che sotto la parola “futuro”, all’inizio dell’ultima riga e prima della data, si trova il verbo “era”, che risulta evidenziato sia per via della “e” piuttosto scura sia perché in alto fra quest’ultima e la “r” vi è una sorta di apostrofo: pare piuttosto evidente che con un’allusione a Carlo VII, tanto chiara quanto macabra, si voglia giocare sul contrasto fra il tempo presente “è” e l’imperfetto “era”. Un’altra conferma di quanto scritto sopra viene dal fatto che almeno dal recto della carta scorrettamente numerata 280, in quanto il numero giusto sarebbe 380, al recto della carta 384 l’errato mese “novenbris”, in cui ovviamente la “n” dovrebbe essere una “m”, è l’unico scritto per esteso, mentre nelle altre missive è sempre abbreviato. Che tuttavia la “n” non sia un errore casuale è confermato da varie caratteristiche della missiva. La terza parola della prima riga dopo “nuy” è infatti il verbo “conpiacere”, scritto con una “n” al posto della “m”. Alla seconda riga la “n” di “nuy” risulta tracciata su una “n” di minori dimensioni. All’inizio della riga successiva il nome dopo “Petro” è scritto “Autonio” per esteso, quindi con una “u” al posto della “n”, mentre a metà della quinta riga si trova “Antoio” con un segno abbreviativo sopra le lettere “oio”, per evidenziare da un lato la precedente errata “u”, dall’altro il fatto che ora il nome è scritto senza la seconda “n”, benché sia presenta il segno abbreviativo. L’importanza della “n” di “novenbris” è sottolineata anche dal fatto che per contrasto sotto di essa la “M” del nome del cancelliere “Michael”, ossia la lettera che avrebbe dovuto essere quella corretta all’interno del mese, risulta piuttosto scura. In base a una prima osservazione superficiale ci si potrebbe limitare ad affermare che si voglia così sottolineare l’importanza dell’impossibile numero romano “XXXI” che precede “novenbris”, come se con il giorno 31, successivo alla naturale conclusione del mese, dopo l’allusione alla Resurrezione del delfino e al sonno che essa comporta ci si volesse riferire a un momento successivo, che non può che appunto essere la sua ascesa al trono. In questo senso riteniamo vada il pronome “nuy”, la cui “n” iniziale è tracciata su una più piccola e che non è solo scritto sulla parola “meystro” della riga sotto, ma presenta la “y” finale in relazione con la “y” proprio di “meystro”, che sappiamo stare per “Yesus”: pare piuttosto evidente che con le maggiori dimensioni della “n” di “nuy” si voglia alludere all’Ascensione del Cristo/delfino, che nel caso del secondo non potrà che consistere come già detto nell’ascesa al trono. Il fatto che la lettera sia scritta su una più piccola all’inizio del pronome “nuy”, il quale ovviamente si riferisce a Francesco Sforza, non serve ad altro che a ribadire la vicinanza o, per meglio dire, l’alleanza fra il delfino e il duca di Milano. Riteniamo tuttavia che il ragionamento possa essere approfondito. L’insistenza sulla “n” di “novenbris” mira infatti a sottolineare che, nonostante la presenza del numero latino “novem” all’interno del nome del mese, esso è l’undicesimo dell’anno, fatto cui allude anche l’errato numero romano “XXXI”. Le ragioni riteniamo siano due. Per quanto riguarda la prima, ci si perdonerà la ripetizione, ma bisogna considerare quanto si è scritto in merito al numero di carta 382, che “inizialmente è stato scritto 282, quindi il primo 2 è stato modificato in 3” e che “si tratta di un modo per ricordare la scorretta segnalazione della ricezione da parte di Francesco Sforza delle lettere del suo ambasciatore in Savoia, dal duca attribuite al 2 e al 3 maggio”. Che questa interpretazione sia corretta è confermato dal fatto che nella prima missiva presente nel recto della carta, diretta “Collateralibus banci stipendiariorum” e datata 22 novembre 1458, le parole “semel in” depennate sono precedute dai termini “semel in die se presentarano”, con i quali, anche se riferiti a “Nicolino da Somo e Bertolino da Lupi”, si vuol far capire che “le lettere datate 2 e 3 maggio di cui il duca segnala la ricezione nella sua minuta diretta a Corradino Giorgi datata 12 maggio vanno considerate un’unica ricezione […] perché il primo capoverso della minuta del 10 gennaio menzionata sopra, secondo cui ‘Le prese sono X per persone X’, prosegue dicendo ‘tutte seperate et tanto l’una quanto l’altra’: si vuole dire che le ricezioni avvengono in giorni ‘separati’, ossia non consecutivi. Con la lettera erroneamente attribuita al 2 maggio e quella del 3 dello stesso mese si simula pertanto che esse siano state ricevute insieme, costituendo una sola ‘presa’, perché non arrivate a Milano in giorni ‘separati’, ossia, come detto, non consecutivi”. La correzione del 2 in 3 del numero di carta 382 ha tuttavia anche un’altra implicazione. Essa può infatti al contempo riferirsi alla lettera di Corradino Giorgi datata 11 maggio e inviata da Thonon-les-Bains nella quale l’ambasciatore sforzesco segnala di avere ricevuto missive “date alo ultimo de aprili et al scecundo et quinto del prescente”, commettendo l’errore di assegnare la sua precedente lettera del 3 maggio al 2. Nella lettera dell’11 maggio riteniamo si segnali la ricezione delle “prese”. L’ambasciatore sforzesco scrive infatti: “A VIII del prescente, a hore XXII, per lo prescente cavalario recevete le de vostra signoria”. Come si può notare, dopo l’articolo “le”, significativamente posto al termine della prima riga al fine di dargli risalto, manca la parola “lettere”, perché si vuole far capire che al loro posto l’ambasciatore ha ricevuto la “storia alla rovescia” delle “prese”.

Per comprendere quando quest’ultima sia stata inviata, bisogna considerare la minuta datata 1 maggio di Francesco Sforza, nella quale egli scrive: “Conradino. Replicando al scrivere che ne fay per le toe lettere de dì 18 aprilis sopra le risposte havute da quello illustre signore .. duca […] te dicemo: primo, circha la parte de li libri, li quali siano stati al prefato signore duca grati et accepti, che ne prendemo singulare piacere et è superfluo che soa excellentia ne renda per essi tante gratie, però che non tanto de questa piccola cosa, ma de qualunque altra magiore in che gli potessimo gratificare sempre lo fariamo voluntiere, come si conviene ad la nostra fraterna benivolentia et convinctione, et, perché secondo tu scrivi la prefata soa excellentia è molto cupida de havere quello altro volume de Vincentio Historiale, nuy habiamo commesso ch’el si facia opera de ritrovarlo et, possendosi ritrovare dal canto de qua, procuraremo che la signoria soa ne sia satisfacta”. Come si può notare, si parla dei libri cui si è già accennato in precedenza. Tuttavia, nella lettera del 18 aprile dell’ambasciatore sforzesco Ludovico di Savoia risulta pregare Francesco Sforza “che anchora vogla fare durare uno pocho de faticha a fare retrovar quelo Vincentio De speculo ystoriali”. La differenza non è da poco: nella minuta ducale manca infatti il termine “speculo”, cui si vuole dare così risalto perché rimanda allo specchio. Associando la parola assente, importante proprio per tale motivo, all’aggettivo Historiale, si arriva al concetto di “storia alla rovescia”. Per comprendere come la mancanza del termine speculo non sia casuale, bisogna considerare che il duca di Milano aggiunge “possendosi ritrovare dal canto de qua”, come del resto già nella seconda lettera datata 9 aprile del recto della carta 13 del Registro delle Missive 44 diretta a Corradino Giorgi aveva scritto: “Similmente ce excusaria [Ludovico di Savoia] perché non gli mandiamo el terzo libro [di Vincenzo de Beauvais], però che non se trova qua né in lo nostro paese simili libri”. La ragione delle precisazioni di Francesco Sforza dipende dal fatto che lo Speculum historiale di Vincenzo de Beauvais aveva una diffusione di gran lunga maggiore in Francia. Come infatti ricorda Kathleen Daly in The Mirouer Historial Abregie de France: Historical Culture and Politics at the Court of Charles VII, “in or before 1451, Charles VII commissioned the Mirouer Historial Abregie de France from an anonymous royal servant. The Mirouer traces the history of the French kingdom from its putative Trojan origins to 1380, and consists of a series of extracts from Latin sources, with a translation and commentary in French […] It is particularly interesting, therefore, that the Speculum historiale by Vincent de Beauvais provides the major source for the Mirouer”. Daly suggerisce anche “a close, if indirect, link between the Mirouer and diplomacy. The format – a Latin and French text – and comparatively careful references to sources, still rare in the mid-fifteenth century, suggest that it might also have been intended for a more international audience, particularly diplomats who might visit the court of Charles VII. Historical texts had a role in diplomacy”. A parte queste ultime considerazioni, al momento ci preme sottolineare che al duca di Milano interessa riferirsi allo Speculum historiale di Vincenzo de Beauvais volendo alludere alla “storia alla rovescia” che, per così dire, proviene “dal canto de” là, ossia dalla Francia. Come vedremo oltre in modo più approfondito, si allude infatti al falso racconto di Jean de Seyssel, capo delle “guardie” al servizio di Carlo VII che sorvegliano l’attività politica di Ludovico di Savoia, il quale in una lettera di Corradino Giorgi datata 10 dicembre 1457 risulta dichiarare “ch’era vero che per lo passato dicto domino Aloyse [Ludovico Bolleri] hè stato reputato homo notabile he da bene he amator dela cassa de Savoia e a quela fidelle et che volesse Dio che al presente fosse stato cusì, che non gly sarea acaduto quelo gly hè acaduto, he ch’el rezerchava la destructione dela persona he stato de monsignore de Savoia”. A questo punto riteniamo sia possibile cogliere la sottile ironia del duca di Milano quando scrive “perché, secondo tu scrivi, la prefata soa excellentia è molto cupida de havere quello altro volume de Vincentio Istoriale”, aggiungendo “nuy habiamo commesso ch’el si facia opera de ritrovarlo”. Francesco Sforza non manca però di strizzare subito l’occhio al lettore e precisare “possendosi ritrovare dal canto de qua”, volendo alludere al fatto che tale libro o, per meglio dire, “storia alla rovescia”, è assai più diffuso in Francia. Tuttavia, come lascia intuire il sibillino “procuraremo che la signoria soa ne sia satisfacta”, nel momento stesso in cui esprime le proprie perplessità riguardo alla reperibilità del volume di Vincenzo de Beauvais, Francesco Sforza intende suggerire beffardo che egli sta inviando a Ludovico di Savoia il suo particolare e personale “Vincentio Istoriale”, ossia le “prese” con la loro “storia alla rovescia”. Come ulteriore beffa, nella lettera dell’11 maggio, poco dopo avere scritto che “A VIII del prescente, a hore XXII, per lo prescente cavalario recevete le de vostra signoria”, può essere il caso di citare, senza per ora entrare troppo nei particolari, quanto Corradino Giorgi aggiunge: “la domane matina fece l’ambasciata de vostra signoria a questo illustrissimo signore, per resposta dela qual, respondendo de parte imparte, dice: et primo che simulatione né fictione non gly hè alcuna”. [lasciare il testo “stesso numero sbagliato “XXXI”, con riferimento al fatto che, una volta divenuto re”] stesso numero sbagliato “XXXI”, con riferimento al fatto che, una volta divenuto re, il nome Luigi del delfino sarebbe stato appunto accompagnato dal numero XI. Al proposito Michel-André Lévy a pagina 183 de L’étonnante histoire de la numérotation des rois de France scrive: “Le fils et successeur de Charles VII se prénomme Louis. Il sera Louis XI, il va donc fixer la numérotation des Louis”. E poi aggiunge: “Comme pour Charles V, ce sont les tombeaux de Saint-Denis qui nous permettent de savoir que le numéro de Louis XI était entré dans les usages de son vivant”. È vero che non sappiamo se Luigi pensasse già da delfino al numero che avrebbe accompagnato il suo nome una volta divenuto sovrano, ma riteniamo vi sia più di un motivo per ritenere che ne fosse ben consapevole e insieme a lui Francesco Sforza. Abbiamo dunque visto che nella prima lettera della carta 382, numero che ricordiamo inizialmente è stato scritto “282” e poi il primo “2” è stato corretto in “3”, si allude velatamente alla minuta ducale intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” e poi mediante le missive successive essa venga collegata al delfino, alla sua Resurrezione simbolica e alla sua futura ascesa al trono. A questo punto può essere interessante esaminare il recto e il verso della carta 383. Le prime due lettere del recto riteniamo quasi non necessitino di particolari commenti, in quanto il loro testo parla da solo. La prima missiva, diretta “Iohanni de Cisnusculo, officiali munitionum Mediolani” e datata 26 novembre 1458, è infatti la seguente: “Vole el nostro illustrissimo signor che dagati et consignati ad Zanone Coyro, suo sescalcho, quattro barili de polvere de bombarda et da schiopetti et doe casse de veretoni. Et expeditelo presto”. Nella seconda, che reca come intestazione, “Cichus de ducali mandato subscripsit”, si legge: “Die suprascripto concesse fuerunt littere passus semel tantum valiture cuicumque conducente Terdonam infrascriptas res pro munitione cittadele illius civitatis, absque solutione dacii etc., in forma solita”. Quindi sotto le parole “Que res sunt he:” vi sono due brevi elenchi quasi affiancati, di cui il secondo inizia un po’ più in basso del primo ed è più breve. Nel primo si legge: “barilia quattuor pulveris a bombarda, capse tres veretorum, sclopeti sexaginta, lancee a pede centumvigintiquinque, lancee ab equo sexaginta, collature centum, tarchete centum”; nel secondo è invece scritto: “plombi rubbi XII, zanette XXV, gorzarini IIII°”. È evidente che in relazione al delfino la “polvere” della minuta ducale intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” assuma un tono di minaccia e avvertimento, sia nel presente sia in prospettiva, quando il delfino sarà asceso al trono, tanto più se si considera il senso sinistro che alla luce della “polvere” viene ad avere l’espressione “fare dormire” (può essere il caso di rilevare che a pagina 968 del IV volume del Grande dizionario della lingua italiana come significato del verbo “dormire” viene dato anche quello di “Giacere nell’eterno riposo; giacere morto”). A conferma di quanto affermato in merito alla carta 382 e alle prime due missive del recto della carta 383, si consideri che nella prima lettera nel recto della carta 388, diretta “Collateralibus banci stipendiatorum” e datata 7 dicembre 1458, come nella prima missiva del recto della carta 382 si parla di nuovo di “Nicolino” e “Bertolino”. Il cognome “Somo” del primo, però, non solo inizia con una “S” di normali dimensioni priva dello svolazzo che caratterizza il cognome alla carta 382, ma presenta anche un breve segno abbreviativo che lo trasforma in “Sommo”, sempre con l’intento di sottolineare l’assonanza con la parola “sonno”, anche se in un modo diverso, e quindi il riferimento alla minuta intitola “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”. Le allusioni a quest’ultima non finiscono però qui. Nelle prime righe della lettera si legge infatti: “Havimo ordinato che Nicolino da Sommo e Bertolino de Lupi, nostri citadini cremonesi quali erano sustenuti de commissione nostra qua apreso Paulo dala Padella, sia relaxati in tal libertate che a suo piacere possano andare per questa nostra inclità cità”. Innanzitutto, come si può notare, il verbo “sia” non è corretto, in quanto dovrebbe essere “siano”. Al proposito è necessario evidenziare la parola che precede lo sbagliato “sia”, ossia il cognome “Padella”, e quella che lo segue, vale a dire “relaxati”, naturalmente da considerarsi in relazione a “libertate”. Per quanto riguarda “relaxati”, bisogna notare che si tratta dell’unico termine che nella missiva presenta una “x”, la quale tuttavia ha una particolare caratteristica: la linea diagonale che dovrebbe formare la lettera andando dall’alto a sinistra in basso a destra, incrociando la linea che invece dall’alto a destra dovrebbe concludersi in basso a sinistra, dopo avere incrociato quest’ultima, risulta priva del segmento di linea finale che dovrebbe dirigersi in basso a destra. Pertanto, benché ovviamente si sia indotti a intendere la lettera all’interno della parola come una “x”, in realtà essa si configura come una “y”. Cercando quindi di riassumere, abbiamo i seguenti elementi: il cognome “Sommo” rimanda alla minuta ducale dal titolo “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, che, come abbiamo visto, viene “collegata al delfino, alla sua Resurrezione simbolica e alla sua futura ascesa al trono”. D’altra parte, come verificheremo più avanti, nel titolo della minuta si allude alla Resurrezione di Gesù, da identificarsi con il delfino. Quindi, se la “y” del participio “relaxati”, esito di una “x” scritta male, equivale a “Yesus”, in realtà con essa ci si vuole riferire al delfino. D’altra parte con la stessa “x” tracciata male si vuole alludere al primo capoverso della minuta, secondo il quale “Le prese sono X”, con riferimento alla “polvere”, per la quale, come abbiamo visto, “in relazione al delfino” il titolo della suddetta minuta assume “un tono di minaccia e avvertimento, sia nel presente sia in prospettiva, quando il delfino sarà asceso al trono”. Non può inoltre sfuggire che il participio, nel quale, come detto, con la “x” per così dire incompleta ci si riferisce sia a Gesù sia alla “polvere”, è in stretta relazione con la parola “libertate”: in questo modo non ci si vuole solo riferire al titolo della minuta, in quanto è evidente che il sonno delle “guardie” non può che favorire la fuga e quindi la liberazione del prigioniero, ma anche al secondo capoverso, nel quale si legge, come vedremo più avanti: “le dicte prese farano dormire circa VIII o X hore […] et, se ben exequendo la cosa che se ha a fare loro vedesseno quello se facesse, non se ha a temere questo, ma andare dreto et fugire […] et anchora, se ben gli accadesse dire alcuna cosa che fosse a proposito, manche per questo se debia stare de andare dreto et fugire”. In sostanza si vuole ribadire il concetto che il garante della liberazione di Ludovico di Savoia, avvenuta il 28 marzo precedente, come si legge nella missiva con la stessa data di Corradino Giorgi, è il delfino con la sua Resurrezione simbolica. Sopra abbiamo inoltre rilevato che l’errato verbo “sia” è preceduto dal cognome “Padella”, che tuttavia può essere anche inteso come il sostantivo che nel Vocabolario online della Treccani è spiegato in questo modo: “Utensile da cucina, di forma rotonda, largo e poco profondo, provvisto di lungo manico […]”. Delle parole appena menzionate quelle che riteniamo di maggiore importanza riguardano il fatto che la “padella” sia descritta come un “utensile da cucina”, definizione che risulta assai pertinente rispetto alla minuta ducale del 10 gennaio intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”. In essa infatti si leggono i seguenti passaggi: “Le dicte prese vogliono essere date in menestra”, “Et, quando in menestra […] non se potesse o non gli paresse de dare dicta polvere, se gli vole dare in pastelli”, “Et, se questa polvere se darà per pastelli, se vole, quando serano cotti li pastelli, così caldi caldi levare la crosta de sopra et polverizarli suso la polvere […] et poy retornargli la crosta”. In sostanza l’errato verbo “sia” dopo il cognome “Padella” serve per far capire che con quest’ultimo si intende in realtà alludere ad altro, vale a dire all’“utensile da cucina”, rimandando quindi alla minuta del 10 gennaio, cui poi si allude in modo ancora più preciso con il successivo participio passato “relaxati” con la “x” che può stare anche per una “y”. A questo punto possiamo approfondire le relazioni in modo più specifico tra la prima missiva nel recto della carta 382 diretta “Collateralibus banci stipendiariorum” e le due lettere del recto della carta 388, di cui, come abbiamo visto, la prima presenta sempre come destinatario “Collateralibus banci stipendiatorum” e della quale riteniamo opportuno proporre l’intero testo: “Havimo ordinato che Nicolino da Sommo e Bertolino de Lupi, nostri citadini cremonesi quali erano sustenuti de commissione nostra qua apreso Paulo dala Padella, sia relaxati in tal libertate che a suo piacere possano andare per questa nostra inclità cità et che ogni dì una fiata se debiano presentare a voi, de la qual cosa ve havimo voluto avisare, a ciò che, essendo loro de venirse a presentarse secondo li comandamenti, ce ne diati aviso”. Abbiamo già rilevato che il verbo “sia” non è corretto, perché dovrebbe essere “siano”, e di questo errore abbiamo fornito una spiegazione. Ve n’è tuttavia un’altra, che non nega la prima, ma anzi la rafforza, il cui obiettivo consiste nel contrapporre lo sbagliato verbo al singolare “sia” a quella che dovrebbe essere la forma giusta al plurale “siano”. Due righe sotto si comprende la seconda motivazione dell’errore: il corpo delle parole è infatti abbastanza vistoso fino ai termini “ogni dì”, poi si riduce nettamente e le prime parole di dimensioni minori sono “una fiata se debiano presentare a voi [Nicolino da Sommo e Bertolino de Lupi]”, fra le quali non si può non notare il verbo “debiano” alla terza persona plurale. Quanto scritto si spiega alla luce proprio della missiva nel recto della carta 382, di cui si è rilevato come essa presenti le parole depennate “semel in” e che “i termini corretti cui si riferiscono sono ‘semel in die se presentarano’”, scritti subito prima. Si è poi aggiunto che “Quello che si vuole far capire è che, così come ‘Nicolino da Somo e Bertolino di Lupi’ dovranno presentarsi ‘semel in die’, allo stesso modo le lettere datate 2 e 3 maggio di cui il duca di Milano segnala la ricezione nella sua minuta diretta a Corradino Giorgi datata 12 maggio vanno considerate un’unica ricezione […] perché il primo capoverso della minuta del 10 gennaio […] secondo cui ‘Le prese sono X per persone X’, prosegue dicendo ‘tutte separate et tanto l’una quanto l’altra’”, volendosi intendere “che le ricezioni avvengono in giorni ‘separati’, ossia non consecutivi. Con la lettera erroneamente attribuita al 2 maggio e quella del 3 dello stesso mese si simula pertanto che esse siano state ricevute insieme, costituendo una sola ‘presa’, perché non arrivate a Milano in giorni ‘separati’, ossia, come detto, non consecutivi”. Visto il collegamento fra le missive in esame, risulta piuttosto evidente che con lo scorretto verbo “sia” al singolare e il corpo delle parole che muta in un punto del testo in cui si dice che “una fiata se debiano presentare a voi [Nicolino da Sommo e Bertolino de Lupi]” si voglia confermare che la lettera erroneamente attribuita al 2 maggio e quella del 3 dello stesso mese siano state ricevute insieme a Milano, rappresentando appunto un’unica “presa”. Il duca non manca tuttavia di ricordare che la missiva assegnata al 2 maggio costituisce uno sbaglio e lo fa mediante la data delle due lettere presenti nel recto della carta 388, che per entrambe è “die VII decembris 1458”: con il numero romano “VII” si vuole appunto alludere al fatto che nella sua minuta del 12 maggio 1458 diretta a Corradino Giorgi il duca di Milano assegna la lettera del 5 maggio del suo ambasciatore al 2 dello stesso mese. In seguito all’inversione cronologica la missiva del 5 maggio di Corradino Giorgi, che ovviamente seguirebbe quella del 3, di cui Francesco Sforza segnala la ricezione, una volta che il duca di Milano la assegna al 2 maggio, risulta precedere quella del 3. Questa inversione è confermata dalla posizione che le due lettere occupano nel recto della carta 388. La seconda missiva, diretta “Paulo de la Padella, offitiali”, nella quale si legge: “Siamo contenti et volemo, per usare clementia con Nicolino da Somo et Bertolino de Lupi, nostri citadini cremonesi sustenuti a preso di te, che subito tu gli debii fare relaxare”, dovrebbe infatti venire prima di quella diretta ai Collaterali del banco degli stipendiati posta all’inizio della stessa carta nelle cui prime righe è scritto: “Havimo ordinato che Nicolino da Sommo e Bertolino de Lupi, nostri citadini cremonesi quali erano sustenuti de commissione nostra qua apreso Paulo dala Padella, sia relaxati”. A questo punto riteniamo opportuno proseguire nelle osservazioni. Nella lettera nel recto della carta 382 spedita da Milano si legge infatti: “Siando nuy contenti de usare clementia cum Nicolino da Somo e Bertolino di Lupi, nostri citadini cremonesi sustenuti in questa nostra cità de commissione nostra, volimo e ve cometimo che debiate tolire da li predicti idonea e sufficiente segurtate, videlicet […] che non se partirano de questa nostra cità senza nostra spetiale licentia”. Nella seconda lettera nel recto della carta 388 diretta a Paolo della Padella, di cui riportiamo il testo integralmente, è scritto invece quanto segue: “Siamo contenti et volemo, per usare clementia con Nicolino da Somo et Bertolino de Lupi, nostri citadini cremonesi sustenuti a preso di te, che subito tu gli debii fare relaxare, ita che siano in sua libertate de potere andare per questa nostra inclita città a suo piacere, facendogli commandamento in scriptis che, sub pena de li denarii de segurtade quale havimo facta tolire per loro a Cremona de non partirsi de questa cità sanza nostra licentia, debiano presentarsi una volta ogni dì a li altri nostri Colletrali de la bancha de soldati aut a uno de li predicti. Igitur mentem nostram executioni mandes, omni prorsus exceptione remota”. Come si può notare, in quest’ultima lettera la “segurtade” risulta essere stata fornita a Cremona, mentre nella precedente a Milano, dato che “Nicolino da Somo e Bertolino di Lupi” risultano “sustenuti” nel capoluogo lombardo, pur essendo “citadini cremonesi”. Inoltre alla fine della missiva nel recto della carta 382 si dice: “Et, tolta che haveriti tale segurtade, ne dariti aviso a Paulo dala Padela, apreso de cui sono sustenuti, a ciò ch’el gli liberi del carcere”. Tuttavia all’inizio della lettera diretta a Paolo della Padella si legge: “Siamo contenti et volemo, per usare clementia con Nicolino da Somo et Bertolino de Lupi, nostri citadini cremonesi sustenuti a preso di te, che subito tu gli debii fare relaxare”. A conferma del fatto che la missiva a Paolo della Padella riporta qualcosa di diverso rispetto alla lettera all’inizio del recto della carta 382, nelle prime righe della missiva precedente ai Collaterali del banco degli stipendiati è scritto, come sappiamo: “Havimo ordinato che Nicolino da Sommo e Bertolino de Lupi, nostri citadini cremonesi quali erano sustenuti de commissione nostra qua apreso Paulo dala Padella, sia relaxati”. Risulta piuttosto evidente che il contenuto delle due lettere nel recto della carta 388 è ben diverso da quanto scritto nella prima missiva nel recto della carta 382. Quando pertanto alla fine della lettera diretta a Paolo della Padella si trovano le seguenti parole in latino: “Igitur mentem nostram executioni mandes, omni prorsus exceptione remota”, considerate le informazioni contraddittorie rilevate, esse non possono che risultare beffarde e il pensiero non può che correre alla minuta di Francesco Sforza “del 10 maggio diretta a Marchese da Varese, suo ambasciatore a Venezia, nella quale lo informa che ‘per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito’”. Come si ricorderà, è vero che nella missiva del 3 maggio Corradino Giorgi aveva scritto che Giorgio Piossasco “anchora non è partito”, ma subito dopo aveva aggiunto “ma domane se parte”. Pertanto la lamentela del duca nella minuta del 10 dello stesso mese, anche se motivata dalla “parziale ambiguità della lettera del 3 maggio di Corradino Giorgi”, risultava quantomeno affrettata. In ogni caso gli consentiva di creare “una prova esterna” nella corrispondenza con Marchese da Varese. A questo punto, “per giustificarsi con Venezia, nel caso fosse necessario”, nella sua minuta del 12 maggio diretta all’ambasciatore in Savoia”, pur sapendo perfettamente che Giorgio Piossasco era partito per Centallo, perché nella lettera del 5 maggio Corradino Giorgi aveva scritto: “Ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui per andare ad exquire tuto quelo ho scripto a vostra signoria circha ali facti de domino Aloysse”, “il duca di Milano segnala di avere ricevuto missive datate 30 aprile, 2 e 3 maggio” […] assegnando al 2 maggio la lettera del 5 dello stesso mese, con il risultato che in base alla missiva del 2 maggio Giorgio Piossasco risulta partito, mentre secondo quella del 3 che partirà il giorno dopo”. In sostanza l’inversione cronologica permette a Francesco Sforza di giustificare la sua impazienza nell’inviare a Venezia un’informazione se non scorretta, di sicuro incompleta: si arriva così al tema delle informazioni contraddittorie contenute nella prima missiva nel recto della carta 382 e nelle due lettere nel recto della carta 388 con le beffarde parole “Igitur mentem nostram executioni mandes, omni prorsus exceptione remota” poste alla fine della seconda missiva diretta a Paolo della Padella. Proseguiamo ora considerando l’ultima lettera nel recto della carta 383, diretta “Iohanni de Landriano, officiali in terra Vespollate” e datata 26 novembre 1458. Il destinatario in essa indicato è particolarmente importante, in quanto conferma l’esistenza di un trait d’union fra gli aspetti cui si allude nelle missive precedenti e la corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi. Come risulta dal Registro delle Missive 34 e dallo stesso Registro 38, nel corso del 1457 Giovanni da Landriano si era occupato della questione dei signori di Cocconato, che pareva opporre il duca sabaudo e Francesco Sforza. Essa è però presente anche nell’epistolario tra Francesco Sforza e il suo ambasciatore in Savoia, nella quale viene fra l’altro associata alla vicenda di Ludovico Bolleri. Nella minuta del duca di Milano datata 1 maggio 1458 si legge infatti: “Postremo, quello che tante volte, et per lettere et per messi et per tua mezanitade, habiamo richiesto iterum replicamo: che tu operi la expeditione deli gentilhomini da Coconato, la causa deli quali, essendo cum tanta dilatione et cum tanto suo dispendio protelata, non passa senza nostro carico et infamia. Et per certo non intendiamo cum che ragione et iustificatione gli sia facta tanta iniuria et perché non se debano exequire le conventioni contracte et ratificate per soa signoria, siché usa circa questo ogni efficacissima diligentia, recordando al prefato signore che nuy non possiamo negligere né supportare più senza nostro vituperio tanta oppressione di questi gentilhomini, et maxime perché di novo Bonifacio da Castegnolo ha facto fortificare la forteza de Cochonate et hala fornita in forma che li gentilhomeni li hano puocho che fare et per quelo che nuy sentiamo è andato in campo cum li altre gente ali damni de domino Aluysio et deli conti de Tenda, la qual cosa fa inditio che le dicte novitate non sono puncto contro la volgia del prefato signore. Che gli piaccia fare horamay tale provisione ad la indemnitade loro quale si conviene ala honestade, al debito suo, al nostro honore et ad la nostra commune et fraterna necessitudine”. Notiamo en passant che Francesco Sforza scrive in modo sibillino che per “mezanitade” di Corradino Giorgi avrebbe richiesto a Ludovico di Savoia di operare “la expeditione deli gentilhomini da Coconato”, ma in realtà il tema non compare in nessuna sua minuta precedente. In ogni caso, a parte questa considerazione, può essere il caso di rilevare che la questione dei signori di Cocconato è presente anche nell’”Instructio Antonii de Cardano ad illustrem dominum ducem Sabaudie profecturi” del 27 maggio 1458. Antonio da Cardano è l’ambasciatore inviato al posto di Corradino Giorgi, che apparentemente ha fallito al sua missione in Savoia. Nell’istruzione si legge: “Concludendo, sforzati intendere la vera et sincera opinione del prefato signore cercha queste cose et, se la excellentia soa dice de volere fare realmente exequire quello è expediente, videlicet che meser Aluyse liberamente sia riposto in soa libertade senza quelle conditioni che gli sono richieste et restituito ad le terre et cose soe et che lo campo se levi de là, item ch’el se proveda ad lo facto de quelli da Coconate, facendo adimpire quello appontamento che fuo facto tra lo spectabile Andrea Maleti, suo ambassatore, et dicti gentilhomini, nuy ne receveremo singulare piacere et comprenderemo che soa excellentia facia estima dela benivolentia et convinctione nostra et caripenda lo honore suo et nostro”. Naturalmente il tema poi compare anche nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Cardano. A proposito dell’istruzione può essere il caso di sottolineare che all’inizio di essa è scritto: “Antonio. Volemo che vadi al’illustre signor duca de Savoya et […] gli exponerai che, licet dal canto nostro nuy per molti modi, cum messi suoi et nostri, cum lettere et cum tenere già tanti mesi passati continuamente presso ad la soa excellentia Conradino Giorgio [curiosamente scritto nell’interlinea], nostro ambassatore, solicitando cum ogni instantia ch’el se facesse conveniente et debita provisione cercha le novitadi facte tanto contra li gentilhomini da Coconate, nostri recommendati, quanto contra messer Aluyso Bollero, nostro adherente, habiamo amplamente satisfacto ad la honestade, ad la amicitia et ad la convinctione et fraternitade nostra, […] nientemeno, essendo nuy dal canto nostro dispositissimi al vivere pacifico cum ciascuno et precipue cum soa excellentia, verso la quale, per la singulare benivolentia et propinquitade è tra nuy, non poressimo fare alcuna cosa che credessimo essergli molesta, se non come inviti et sforzati dal debito dele obligationi et contracti li quali non possiamo negligere, iterum et postremo ne siamo mossi ad mandare ti, adciò che soa excellentia ancora intenda la nostra dispositione et per essere horamay chiari che exito intenda esso signore dare ad queste cose”. Come si può notare, viene associato il “tenere già tanti mesi passati continuamente presso ad la soa excellentia Conradino Giorgio, nostro ambassatore” al sollecitare “cum ogni instantia ch’el se facesse conveniente et debita provisione cercha le novitadi facte tanto contra li gentilhomini da Coconate, nostri recommendati”. Tuttavia, come già rilevato, nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi il tema dei signori di Cocconato compare solo nella minuta dell’1 maggio 1458, quindi verso al fine dell’epistolario, considerato che l’ultima minuta ducale è datata 12 maggio. L’argomento compare anche in una missiva del Registro 44, al f. 40r, diretta ad Antonio da Cardano e datata 31 maggio. In essa si legge: “Dappoy che tu sey posto in camino, havemo recevute lettere dali gentilhomini da Cochonate per le quale essi ne scriveno de alcune robarie et vexatione che mo novamente gli ha facto Bonifatio da Castegnola, le quale lettere per più tua meiora informatione te le mandiamo qui alligate. Pertanto volemo che tu debbi mettere questa novitate insieme cum le altre quale hay ad dire allo illustre signore ducha de Savoya et, cum primum seray gionto da soa signoria, exponiraglila insieme cum le altre, exequendo exinde il tutto secundo che tu hay in commissione da nuy, che certo, se dovessemo nuy mettergli la persona nostra, non deliberamo comportare più a modo alcuno cum tale nostra vergogna et cum mancamento del nostro honore cotalle insollentie, che a nuy pare seriano sufficiente ad omnis heremito fare perdere la pacientia”. Rimandando a un altro momento le opportune considerazioni riguardo a quale sia il senso della “s” depennata di “omnis”, torniamo alla lettera diretta “Iohanni de Landriano, officiali in terra Vespollate” da cui siamo partiti, che, lo ricordiamo, è la terza e ultima nel recto della carta 383 e segue le due missive in cui si accenna a “barili di polvere de bombarda”. In essa si legge: “Siamo contenti et volemo che tu respond et faci respondere et dare a miser Alexandro Visconte quella parte de le decime de quella nostra terra che luy debe et resta havere da quilli homini per fino al fine de quello tempo che luy ha golduta quella possessione. Et questo exequiray senza exceptione alcuna”. Anche se il testo pare del tutto innocuo, in realtà non lo è. Nella prima riga, infatti, la parte superiore della “d” finale del verbo “respond” è identica alla “d” del verbo “respondere” che si trova subito dopo. Essa presenta tuttavia una parta inferiore simile a una “g”: ne risulta così quello che pare essere una sorta di numero arabo 8, con il quale riteniamo si voglia alludere a Ottone del Carretto, ambasciatore ducale a Roma presso papa Pio II. Per comprendere quanto si è appena affermato, bisogna considerare le missive successive. Iniziamo dalla prima nel verso della carta 383, inviata da Milano e datata 27 novembre 1458. Innanzitutto notiamo che in essa il destinatario “Potestati  Mediolani” non è allineato al centro, bensì spostato a sinistra. Vediamo ora il testo. In esso si legge: “Perché havemo havuto in la città nostra de Cremona idonea et sufficienti securtate in nome de Baba Oldonino presso de vuy de non partirsi de questa nostra inclita città senza nostra speciale licentia, siamo contenti et volimo che statim lo faciati liberare de presone liberamente, fazendoli comandamento ch’el vegna ad presentarsi denanti ali colletrali nostri generali”. Come si può notare, la “securitate in nome de Baba Oldonino presso de vuy de non partirsi de questa nostra inclita città” è stata fornita a Cremona e non a Milano, da dove è spedita la lettera e rispetto alla quale si dice appunto “de non partirsi de questa nostra inclita città”. Con il destinatario “Potestati  Mediolani” spostato a sinistra si vuole sottolineare per così dire per contrasto, perché la “securitate” di “Baba Oldonino” è posta in relazione con Cremona, l’importanza del nome “Baba”, appunto a sinistra rispetto al cognome. La nota redazionale che segue la missiva conferma quanto appena affermato. Essa è la seguente: “In simili forma scriptum fuit castellano rochete porte Romane in personam Iohannis Oldonin. Datum ut supra”. Gli aspetti da notare subito sono due. In primo luogo è scritto scorrettamente “Oldonin” invece di “Oldonini”. Il cognome è identico a quello di “Baba Oldonino” e l’errore “Oldonin” mira a evidenziare che, se i cognomi sono uguali, non lo sono i nomi, al fine però non di evidenziare “Iohannis”, bensì “Baba”. L’ultima osservazione è confermata dal fatto che le parole “ut supra” sono abbreviate in modo inconsueto: di solito, infatti, si trova “uts” con il segno abbreviativo sulla “s”, mentre nella nota redazionale è scritto “ut sup” con il segno abbreviativo sulla “p”. L’insolito modo in cui è scritto “ut supra” mira a ribadire che, se i cognomi sopra menzionati sono identici, i nomi invece sono differenti, avendo sempre l’obiettivo di rilevare l’importanza di “Baba”, sottolineata per contrasto anche da un altro aspetto. Mentre infatti “Baba Oldonino” risulta essere detenuto, anche se poi è scritto “siamo contenti et volimo che statim lo faciati liberare de presone liberamente”, “Iohannis Oldoninus” è esponente di un’importante famiglia cremonese. Vi è poi il riferimento a porta Romana, che si salda con il velato riferimento a Ottone del Carretto e quindi a Pio II contenuto nella lettera a Giovanni da Landriano. A pagina 918 del Grande dizionario della lingua italiana si dice che “baba” è un termine antico con il quale si indica un “Fanciullo che non sa parlare”, aggiungendo poi che è una voce onomatopeica, “dal balbettare del bambino”. A questo punto, per comprendere chi sia questo bambino da mettere in relazione con Ottone del Carretto e Pio II, non resta che passare alla lettera successiva, diretta “Capitaneo Modoetie” e datata 28 novembre. Essa è la seguente: “Melchion da Fontanella, nostro provisionato, dice essere creditore di uno Ungareto et Iohanne da Monza, habitatori de quella nostra terra, de certa quantità de dinari per certe securtate fate per luy per li dicti Ungareto et Iohanne, quali con luy si lamenta sono dificili et renitenti ad satisfarlo, nel che ci ha richesto doverli provedere. Pertanto volemo che, facendoti el dicto Melchion tal fede et informatione che chiaramente ti consti del dicto suo credito, gli ministri rasone sumaria et expedita, per modo che senza dilatione consequi el credito suo”. La missiva pare del tutto innocua, ma in realtà non lo è, perché l’iniziale nome “Melchion” rimanda a Melchiorre, ossia secondo la tradizione cristiana uno dei tre re magi giunti da Oriente a Gerusalemme che poi si recarono a Betlemme, dove era nato Gesù, per adorarlo e offrirgli in dono oro, incenso e mirra (si noti che nella lettera all’opposto si parla di un credito). È vero che nel Vangelo di Matteo (Mt 2,1-12) si parla solo di “magi” senza citarne i nomi e quindi senza specificare quanti fossero, ma appunto la successiva tradizione cristiana ha precisato che essi sarebbero stati tre e si sarebbero chiamati Melchiorre, Baldassarre e Gaspare. Il bambino cui allude il nome Baba della lettera precedente deve dunque essere identificato con Gesù e quindi si riferisce indirettamente al delfino, di cui si vuole sottolineare la giovane età rispetto al padre Carlo VII. Può fra l’altro essere interessante notare che nel Vangelo di Matteo si legge che “in diebus Herodis”, quando i “magi” si trovavano ancora a Gerusalemme, essi risultano chiedere: “Ubi est qui natus est rex Iudaeorum?” Quanto appena affermato trova conferma nella missiva successiva, non certo a caso diretta “Iohanni Cristiano, castellano et capitaneo Melegnani” e datata 17 novembre. In essa si legge: “Ultra quello che te scripsimo ali dì passati che dovessi dare adiuto e favore ad li daciarii del imbotata del vino e biava de Lode anni presentis de cerchare lì et in li altri loghi dove era conducta bona somma de vino e biava de lodesana in fraude, danno et preiuditio de dicti daciarii, siando noviter informato che in li lochi infrascripti ne è stata menata del’altra in fraude e pur in bona quantitate, volimo pariformiter che ad instantia d’essi daciari gli debii dare adiuto e favore perché gli possano resercare e stringere ali debiti pagamenti de l’imbotate segondo el loro dato incanto et questo per dare exempio ad li altri de non commettere fraude in preiudicio et damno nedum de daciarii ma etiam de la Camera nostra”. Come di consueto, la lettera pare innocua, ma anche in questo caso non lo è. Sono due gli aspetti da sottolineare. In primo luogo, come si può notare, essa inizia con le parole “Ultra quello che te scripsimo” e più oltre si legge “volimo”, ossia si impiegano verbi alla prima persona plurale. Tuttavia prima di “volimo” è scritto “siando noviter informato” al singolare. L’errore mira a evidenziare il successivo “ch” con un segno abbreviativo, nel quale la lettera “h” presenta una sorta di rigonfiamento verso il basso simile a una “o” che la rende molto diversa dalle “h” che in basso restano per così dire aperte sia dei due “che” scritti per esteso sia dell’altro “ch” con segno abbreviativo presenti nella missiva. La peculiarità del “ch” con segno abbreviativo dopo l’errato “informato” mira a sottolineare che, se certamente le due lettere stanno per la congiunzione “che”, dall’altro si vuole alludere a “Christo”. Con il cognome “Cristiano” del destinatario e l’allusione a Cristo tramite le lettere “ch” con il segno abbreviativo si mira pertanto a confermare, qualora ce ne fosse bisogno, che il bambino cui allude il nome Baba è proprio Gesù, con la solita implicita allusione al delfino. A questo punto si può considerare il secondo aspetto della lettera. L’ultima parola nel verso della carta 383 è infatti “incanto”, termine che nel contesto della missiva significa senz’altro “vendita”, ma con cui in realtà si vuole alludere all’opera di un mago. Trova così conferma il fatto che il nome “Melchion” all’inizio della lettera precedente contiene un implicito riferimento a Melchiorre, ossia uno dei “magi”. Ovviamente si intende giocare sull’ambiguità di quest’ultimo termine, perché la parola “mago” riferita a Melchiorre non significa che egli fosse in grado di compiere un “incanto”: ha tutt’altro senso, che non è il caso di approfondire qui. Il mago cui ci si vuole riferire in grado di operare un “incanto” è invece un esperto in scienze occulte. Il suo “incanto” si dispiega per così dire nel recto della carta 384, numero scritto non in orizzontale bensì in verticale, con l’intenzione di indicare un’ascesa. Consideriamo dunque la missiva presente nella stessa carta 384 diretta “Collactaralibus banchi stipendiatorum” (rileviamo che nel primo termine del destinatario la prima “a” è come ricalcata, poi pare esservi una “c” piuttosto vistosa scritta su una “r”, quindi segue la “t”). Il testo è il seguente: “Pare che per alcuni defecti trovati in le rasone del spectabile conte Vanne di Medici, olim podestà della città nostra di Parma, quale vi mandiamo qui dentro incluse, non gli siano per vuy state facte bone né admesse dicte sue rasone, per il che luy fin ad mo non se è possuto partire et andarsene ad Fiorenza. Et, ad ciò che el se possa andare per li facti suoy, volemo et ve commettemo che non obstanti essi defecti vuy gli debiate admettere et fare bone le dicte sue rasone et dargli celere et presta expeditione, perché nuy gli admettemo et donamo ogni cosa che spettasse et pertenesse ad nuy”. Già di per sé il riferimento a Parma, di cui era vescovo Delfino Della Pergola, che, come abbiamo visto, rimanda al delfino Luigi, è un segnale che dovrebbe insospettire. Il quadro è completato alla fine della lettera. Dopo l’indicazione dell’anno “1458”, infatti, vi è la lettera “I”, come se ci si apprestasse a scrivere come nome del cancelliere “Iohannes”, di norma indicato con la sigla “Io”, e poi si fosse invece optato per un altro, ossia “Aquilanus”. La “I” non è però tracciata per caso, ma volontariamente, al fine di sottolineare il carattere sibillino di “Aquilanus”, per comprendere il quale bisogna considerare che nel post scriptum datato 14 marzo 1458 Corradino Giorgi aveva paragonato il re di Francia a uno “sparavero”. L’ambasciatore aveva infatti scritto a Francesco Sforza: “El è vero che questo signore ha lo suo stato diviso in doe parte. Una al presente regna e guberna, aderise alo re de Franza e lo mareschalcho hè capo de bandera he hano conducto questo signore a tanta subiectione che sta sotoposto al re Franza como fa la quaglia al sparavero”. In sostanza all’anziano “sparavero” Carlo VII si intende contrappone il giovane delfino, prima identificato con Gesù da bambino per contrasto rispetto al padre e ora con un’aquila destinata a salire al trono, aspetto sottolineato dal numero della carta, scritto in verticale. L’”incanto” vero e proprio, però, non consiste tanto in questo, perché già la lettera datata 31 novembre 1458 alla fine del verso della carta 382 alludeva alla futura ascensione del delfino, quanto nel riferimento alla famiglia de’ Medici. In sostanza con l’accenno al conte Vanni de’ Medici, “olim podestà della città nostra di Parma”, si vuol far capire che Cosimo de’ Medici, di cui il conte Vanni in una minuta ducale datata 14 marzo 1458 viene definito “affinis sui”, è schierato dalla parte del delfino e non di Carlo VII, confermando quindi quanto abbiamo scritto sopra in dissenso rispetto a Vincent Ilardi, ossia che di comune accordo Cosimo de’ Medici e Francesco Sforza “hanno deciso di puntare, per così dire, sul delfino Luigi”. Vi è poi un’ulteriore osservazione da compiere a proposito del nome “Baba” che si trova nella prima missiva del verso della carta 383. Secondo l’Enciclopedia on line della Treccani il termine “baba” è un vocabolo turco, del cui significato possiamo non preoccuparci. Poiché nella lettera successiva si dice che uno dei debitori di “Melchion” si chiama “Ungareto”, pare piuttosto probabile che si voglia alludere alla minaccia costituita dai turchi del sultano Maometto II, il cui espansionismo verso l’Europa era stato bloccato dall’ungherese Giovanni Hunyadi nel luglio del 1456 a Belgrado, allora facente parte del regno d’Ungheria. Quanto scritto sembra confermato dai velati riferimenti a Ottone del Carretto e Pio II, per il quale l’organizzazione di una crociata contro i turchi era obiettivo di primaria importanza. Inoltre la missiva diretta “Iohanni Cristiano, castellano et capitaneo Melegnani” e il fatto che nella lettera precedente oltre a “Ungareto” l’altro debitore di “Melchion” si chiami “Iohanne” e che prima ancora il cognome “Oldonino/Oldonin” sia accompagnato anche dal nome “Iohannes” sono indizi che inducono a ritenere che il nome Giovanni sia un modo per alludere proprio a Giovanni Hunyadi, morto nell’agosto del 1456. A questo punto la “I” al termine della lettera presente nel recto della carta 384, con la quale si simula che si stesse scrivendo la sigla per “Iohannes” e poi al suo posto si sia scelto “Aquilanus”, nome che si riferisce al delfino, giovane aquila in ascesa, per così dire, da contrapporre all’anziano “sparavero” Carlo VII, trova una sua più completa spiegazione: con essa riteniamo infatti che si voglia comunicare al lettore che non vi è più Giovanni Hunyadi a offrire la sua protezione nei Balcani e che quindi in prospettiva, qualora non compia le proprie scelte in politica estera con lungimiranza, egli correrebbe il rischio di trovarsi esposto da un lato alla minaccia turca e dall’altro a quella del delfino, appoggiato da Cosimo de’ Medici e Francesco Sforza, una volta divenuto re. A questo punto possiamo passare a esaminare il caso dello sbaglio di numerazione per cui si passa dalla carta 399 alla 300, con il quale riteniamo si voglia sottolineare l’importanza del numero 4, rimandando al giorno del 4 maggio 1458, cui ci si riferisce nella missiva del 3 dello stesso mese di Corradino Giorgi quando l’ambasciatore scrive: “quelo frate Georgio del quale ho scripto ala signoria vostra deveva esere mandato a levare le ofese et metere campo a Centalo anchora non è partito, ma domane se parte”. La prima lettera presente nel recto della carta erroneamente numerata 300 è diretta “Lafranco de Garimbertis, capitaneo citadelle Novarie” e datata 9 gennaio 1459. In essa è scritto: “Volemo che subito te informi presso presso de chi sono rimaste le bolle et tute le altre ragione de le commandarie de frate Lafranchino e faci che te le dia et che tu le mandi qua in mano de Francisco Maleta, nostro secretario. Et, facto che ne haveremo quello che nuy volemo, indilatr te le remandarimo, aciò che li siano dapoy restituite”. Innanzitutto bisogna notare che, a sottolinearne l’importanza, alla fine della prima riga si trova la parola “bolle”, con la quale si richiama evidentemente il cognome di Ludovico Bolleri. Essa è preceduta dalla ripetizione della preposizione “presso”, che secondo il Vocabolario online della Treccani indica “vicinanza nello spazio, in complimenti di stato in luogo o moto a luogo”. Pare piuttosto evidente che i due elementi rilevati associati all’errore nella numerazione della carta vogliano alludere all’equivoco che, come abbiamo già visto all’inizio di questo testo, nella corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo inviato in Savoia si simula riguardo a “presso” per così dire si trovi Giorgio Piossasco. Nella sua missiva del 3 maggio, infatti, Corradino Giorgi scrive da Ginevra che il cavaliere gerosolimitano “anchora non è partito, ma domane se parte” (per andare a Centallo), poi il 5 dello stesso mese sempre da Ginevra avvisa che “ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui”, infine in una minuta del 10 maggio diretta a Marchese da Varese, suo ambasciatore a Venezia, il duca di Milano lo informa che “per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito”, anche se in effetti Corradino Giorgi aveva aggiunto: “domane se parte”. Che quanto affermato sia corretto è confermato dalla lettera successiva, diretta “Domino presbitero Iacobo, rectori ecclesie Sancte Anne de Palestro” e datata anch’essa 9 gennaio 1459, in cui si legge: “Per altre nostre ve havemo scripto che dovesti venire qua da nuy et non seti però venuto, il perché de novo ve scrivemo et volemo che senza alcuna dilatione vegni qua da nuy et ve retrovariti cum Francisco Maleta, nostro secretario”. Come si può notare, l’argomento della missiva è assolutamente pertinente con l’equivoco simulato di cui si è parlato sopra, anche se esso non riguarda tanto una non avvenuta partenza, quanto per contrasto un mancato arrivo a Milano presso Francesco Sforza, che rinnova l’invito affinché esso avvenga al più presto. Ulteriori conferme di quanto scritto sopra vengono dalle due lettere presenti nel verso della carta correttamente numerata 399. Nella prima, diretta “Collateralibus generalibus” e datata 9 gennaio 1459, si legge: “Ad complacentia de la illustrissima madonna Biancha, nostra consorte, siamo restati contenti che Carlo da Terzago possi repatriare et stare in questa nostra città de Milano et tucto el dominio nostro et non sii più obligato di stare ad Como, per il che da luy a li dì passati per commissione nostra recevesti securtà, il perché ve commettiamo et volemo che, recevuta questa, liberamente cassiate dicte securtà, per modo che per veruno tempo non siano obligate per el dicto Carlo per la casone predicta né possimo receverne molestia alcuna, come etiandio nuy per questa revocamo et annullamo”. Il dato centrale su cui bisogna porre l’attenzione è il cognome “Terzago” di “Carlo da Terzago” e più precisamente le lettere iniziali “ter”, che rimandano al numero 3, benché letteralmente esse corrispondano all’avverbio latino che significa “tre volte”. Per comprendere questo aspetto, è necessario rifarsi alla carta con l’errato numero 281, in quanto quello giusto sarebbe 381, che precede la carta 382 di cui si è parlato sopra, con la quale la numerazione torna corretta, anche se “inizialmente è stato scritto 282, quindi il primo 2 è stato modificato in 3”. La prima missiva nel recto della suddetta carta 281, datata 21 novembre 1458, reca come destinatario “Collacterales nostri generales”. Come si può notare, quest’ultimo non è indicato con il dativo, ma con il nominativo. Inoltre esso non è come al solito allineato centrato e staccato dal testo, ma a sinistra e subito seguito dal testo, che è il seguente: “Non obstante quod fideiussionem habueritis a Carolo de Terzago de se conferendo Cumas per totam diem crastinam, contentamur et volumus etiam terminum ipsum prorogari per totam diem veneris proximam futuram, infra quem inclusu[.] Cumas se conferre habeat et inde parere prout fideiussit”. L’obiezione che si tratti di una sorta di nota redazionale, che peraltro per essere tale è troppo lunga rispetto al solito, non può essere accolta, perché la prima lettera nel verso della carta con lo sbagliato numero 280, in quanto quello giusto sarebbe 380, nella quale si parla ancora di “Carlo da Terzago”, presenta il destinatario “Collatralibus nostris generalibus” correttamente allineato centrato. In realtà, sin da quest’ultima si vuole preparare il lettore al ritorno alla corretta numerazione della carta 382. Prima, infatti, vi è il destinatario “Collatralibus” centrato accompagnato nel testo dal cognome “Terzago”, poi nella prima missiva del recto della carta 281 si ha “Collacterales”, erroneamente al nominativo e allineato a sinistra, al fine di sottolineare le lettere “ter” all’interno della parola, perché esse si differenziano dalle lettere “tra” del precedente “Collatralibus”. In questo modo si vuole lasciare intendere anche l’importanza delle lettere “ter” all’interno di “Terzago”, che rimandano al numero 3. Quanto appena scritto è confermato dal fatto che la terza missiva, datata 22 novembre 1458, nel recto della carta 281 è diretta “Marcolo de Marliano – Trezo”: in modo piuttosto insolito il toponimo “Trezo” non è preceduto da una preposizione, ma da un trattino, al fine di porre in evidenza le lettere “tre” in esso presenti, aspetto poi per così dire ribadito nella prima lettera del verso della stessa carta 281, diretta “Iohanni de Sancto Ambrosio, ingeniario nostro” e sempre datata 22 novembre, nella quale all’inizio si legge: “Volemo che, havuta questa, tu vadi con l’alligate ad Trezo da Marcolo da Marliano”. Per tornare alla prima missiva nel verso della carta 399, con il cognome di Carlo da Terzago si vuole dunque rimandare al numero 3, anticipando così lo sbaglio presente nella carta successiva, erroneamente numerata 300. Il tema della lettera seguente, diretta “Egregio militi domino Iohanni Steffano de Casate, capitaneo Domi Ossule” e datata 10 gennaio 1459, nella quale in sostanza si parla di un mancato arrivo a Milano, costituisce una sorta di premessa per contrasto dell’equivoco simulato relativo alla partenza di Giorgio Piossasco cui si accenna in modo velato nella prima lettera della carta erroneamente numerata 300. Il suo testo è infatti il seguente: “Se ritrovamo de mala voglia e tanto mal contenti de vuy quanto dire se possa che, per quante lettere ve habiamo scripto dovesti commandare ala pena de ducenti ducati a quello arciprete de Como et a prete Zohanne da Regaglio che devessero venire qua da nuy senza dimora, che ancora non siano venuti né intendiamo habiati facto executione alcuna contra de loro per rispecto de la pena, como ve scripsimo. De novo ve caricamo et volemo gli faciati simili commandamento et, non venendo loro immediate doppo il commandamento, li condemnati in la dicta pena et faciati contra de loro ogni executione perché la paghino”. Le osservazioni relative alla missiva diretta “Lafranco de Garimbertis, capitaneo citadelle Novarie” con la sua ripetizione di “presso” nella prima riga, che termina con la parola “bolle”, non finiscono però qui.[continua] Un altro caso piuttosto interessante è costituito dalla carta priva di numerazione presente fra le carte 441 e 442, la cui missiva presente nel verso prosegue nel recto della carta 442. Il recto carta contiene due lettere. Il testo della prima, diretta “Ser Baptiste de Albeto” e datata 20 aprile 1459 (con il “5” che pare corretto su qualcosa di non ben chiaro) è il seguente: “Havemo inteso per lettere del .. capitaneo nostro della citadella de Novara et ancora per una tua a luy directiva como, essendo ti andato al loco de Sopramonte per prendere Bernardo et li fratelli di Carloni per l’informatione havuta che fabbricavano moneta falsa, hay trovato loro essere absentati cum le donne et cum quelli beni mobili hanno possuto portare cum sì, il perché hay facto la descriptione delli loro beni. Dicemo che ne piace et te comendiamo de quanto hay exequito. Et, perché deliberamo sia ministrata rasone circa ciò, volemo et te commettiamo che cerchi de havere tucti li iudicii che poteray havere et fra l’altri  la confessione quale tu dice ha facto quello castellano de Sancto Lorenzo, presone del illustre signore duca de Savoya, perché cum quella potray intendere più chiaramente quanto haveray a fare. Poy faray quanto rechiede il debito della iustitia, avisandone per tue lettere quanto haveray trovato, maxime per la dicta confessione, della quale ne mandaray la copia, ma guardi a fare in modo che cum iustitia non se possano querelare dicti fratelli. Et fra questo mezo habii tale advertentia che della dicta robba non ne vada in sinistro la valuta de uno solo denaro”. La seconda missiva, diretta “Capitaneo citadelle Novarie” e sempre datata 20 aprile 1458, è la seguente: “Havemo recevuto le toe lettere cum una inclusa de ser Baptista d’Albeto a ti directiva et inteso quanto ne scrivi de quello Bernardo et fratelli de Carloni quale secondo la informatione a ti data per persona degna de fede fabbricavano moneta falsa, il perché se sono absentati dal dominio nostro, et ch’esso ser Baptista ha facto la descriptione delli loro beni. Dicemo che ne piace et te commendiamo de quanto hay exequito circa ciò. Nuy scrivemo per l’alligata a ser Baptista ch’el proceda contra dicti fratelli et faza quello vole la rasone, la quale provedi che subito gli sia presentata”. Il punto da cui bisogna partire è che il corretto numero della carta sarebbe il 442. Da un lato si intende ricordare la partenza di Giorgio Piossasco avvenuta il 4 maggio 1458, dall’altro il fatto che nella sua minuta del 12 maggio il duca attribuì al 2 maggio la lettera di Corradino Giorgi che in realtà era datata 5 maggio. Tuttavia la carta è priva di numerazione, volendo in questo modo far intendere che le missive che ruotano intorno alla partenza di Giorgio Piossasco non sono autentiche, in quanto i due duchi si erano accordati prima sul giorno della partenza del cavaliere gerosolimitano, così come la “moneta falsa” di cui si parla nelle lettere che si trovano nel recto della carta priva di numerazione. Il riferimento al “duca de Savoya” presente nella prima delle due missive conferma che il tema cui si vuole in realtà alludere è appunto quello della partenza di Giorgio Piossasco. Tuttavia, per comprendere più pienamente quanto appena scritto, sempre comunque con l’obiettivo di limitare le osservazioni, si consideri che la missiva presente nel recto della carta 441, datata 9 aprile 1459, è diretta “Potestati Burgi Dexii” e all’inizio di essa si legge: “Havemo inteso che in questi dì proximi passati è pischato in el nostro lacheto da Dexio et da Miglone grande quantità de pesi”. Da un lato il toponimo “Dexium” si riferisce alle dieci “prese” di circa un anno prima, dall’altro il termine “pesi” vuole alludere al peso monetario: si intende così creare una corrispondenza fra le lettere e la moneta. Questa considerazione spiega come mai nella missiva nel verso della carta 441, diretta “Bernobovi de Sancto Severino in Valle Lugani”, si parli di un furto di “denari” e poi alla fine sia scritto solo “Datum” senza ulteriori precisazioni: si vuole preparare il lettore alla carta successiva priva di numerazione, volendo far capire che il numero mancante, ossia il 442, ha a che fare con la data di una missiva, ossia appunto quella di Corradino Giorgi che il duca attribuì al 2 maggio 1458 mentre in realtà era datata 5 maggio per via del tema della partenza di Giorgio Piossasco. Questo argomento compare però già in una lettera dell’ambasciatore datata 18 aprile 1458, di cui Francesco Sforza segnala la ricezione in una minuta dell’1 maggio: si ricordano così le dieci “prese” cui allude il toponimo “Dexium”, non autentiche come la “moneta falsa” di cui si parla nel recto della carta priva di numerazione. Tralasciamo ulteriori considerazioni, piuttosto significative, che si potrebbero fare almeno sino alla carta 445, e rivolgiamo la nostra attenzione alle due carte numerate 450. Nel recto della prima vi è una missiva diretta “Potestati et capitaneo cittadelle Novarie” e datata 5 maggio 1459 all’inizio della quale si legge: “Inteleximus litteris dierum XXIII aprilis proximi decursi responsio vobis facta per consilium illius communitatis circa subventionem milii ad insulam Rhodi transmittendi”. Come si può notare, la parola “responsio” non è declinata in modo corretto, in quanto dovrebbe essere “responsionem”. Che non si tratti di un errore casuale, ma voluto, è confermato alla fine della lettera, dove si legge “rescribendo nobis de eorum responsio”, con lo sbagliato termine “responsio” al posto di “responsione”. Non paiono necessari molti commenti riguardo al fatto che con le due errate occorrenze di “responsio” in una missiva del 5 maggio 1459 nel recto della prima carta numerata 450 si voglia alludere alla lettera di Corradino Giorgi datata 5 maggio 1458 che nella sua minuta del 12 dello stesso mese il duca di Milano attribuisce al 2 maggio. Può essere il caso di ricordare che l’ambasciatore avvisava in modo curioso Francesco Sforza che aveva potuto intendere “la partita de fra Zorzo per altre mie da qui per andare ad exquire tuto quelo ho scripto a vostra signoria circha ali facti de domino Aloysse”, partenza che non poteva che essere avvenuta il 4 maggio. Anche il riferimento a Rodi pare estremamente significativo e non casuale, in quanto Giorgio Piossasco era un cavaliere gerosolimitano, ossia un membro dell’ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, che al tempo aveva sede appunto a Rodi. Il riferimento a quest’ultima isola e quindi implicitamente all’ordine religioso cavalleresco che vi risiedeva conferma che con le due errate occorrenze di “responsio” si vuole alludere proprio alla missiva di Corradino Giorgi del 5 maggio 1458 in cui si accennava alla “partita de fra Zorzo”. Può essere poi interessante considerare la prima lettera che si trova nel recto della seconda carta numerata 450, diretta “Iohanni Botto et Sebastiano de Guenzate” e datata 7 maggio 1459. In essa si legge: “El spectabile Angelo Symonetta, nostro dilectissimo consiliero et secretario, dice havere pagato al officio del sale di Venetia ducatti millenovecento cinquanta d’oro veneziani per la valuta de moza cento novantacinque de sale tolto ad esso officio per uso dele nostre gabelle. Pertanto siamo contenti et volemo che tu, Sebastiano, paghi liberamente li predicti mille novecentocinquanta ducati d’oro veneziani o la valuta d’essi a Pigello Portinari per nome del prefato Angelo. Et tu, Iohanne Botto, facii ordinare le scripture et ponere debitori e creditori che hano a essere segondo l’ordini nostri consueti, facendo non sia fallo, perché così è nostra intentione”. Come spesso accade, la missiva pare innocua, ma in realtà non lo è. Innanzitutto non può sfuggire il fatto che essa abbia a che fare con Venezia. Poi bisogna notare che il termine “ducatti” scritto per esteso si trova prima di “mille novecento cinquanta”, mentre alcune righe sotto le lettere “duc” abbreviate per troncamento, che stanno anch’esse per la parola “ducati”, vengono invece dopo “mille novecento cinquanta”. In questo modo si vuole di nuovo alludere all’inversione cronologica operata da Francesco Sforza nella sua minuta del 12 maggio 1458, nella quale attribuiva la missiva del 5 maggio di Corradino Giorgi, la cui data nella lettera sopra riportata è richiamata dal numero “cinquanta”, al 2, numero ricordato per assonanza dalle lettere “duc” abbreviate per troncamento. Non può inoltre sfuggire il fatto che la missiva è diretta “Iohanni Botto et Sebastiano de Guenzate”, ma poi nel testo rispetto a questi destinatari viene operata un’inversione. Dopo avere menzionato i “ducatti mille novecento cinquanta d’oro”, infatti, si legge “tu, Sebastiano”, che è il secondo destinatario, poi, dopo avere citato “li predicti mille novecento cinquanta ducati d’oro”, ci si rivolge a “tu, Iohanne Botto”, che invece è il primo destinatario. In questo modo si vuole fare in modo che il lettore colga lo spostamento rispetto a “mille novecento cinquanta” della parola “ducatti”, che precede il numero, e delle lettere “duc” abbreviate per troncamento, che invece lo seguono, spostamento che, come abbiamo scritto sopra, allude all’inversione cronologica delle missive del suo ambasciatore compiuta dal duca di Milano nella sua minuta del 12 maggio 1458. A proposito del verso della carta 453, nel quale è scritta solo la parola “Error”, pressoché al centro spostata verso sinistra, può essere il caso di osservare che nel recto della stessa carta vi è una lettera diretta “Apolonio de habitatori Olzinate” e datata 15 maggio 1459. Innanzitutto, come si può notare, essendo preceduta da “de”, la parola “habitatori” non è corretta, in quanto dovrebbe essere “habitatoribus”, ma approfondiremo questo aspetto più avanti. Senza riportare l’intero testo della missiva, consideriamo solo le prime righe, nelle quali si legge: “Havimo inteso per lettera delli spectabili rectori de Pergamo como a dì ultimo del mese passato tu andassi suxo il territorio de la illustrissima signoria de Venexia ultra Adda et menassi via forza alcuni bestiami quali non hay voluto restituire se primo non sey stato trabutato de certo formagio”. Innanzitutto può essere il caso di osservare che prima di “forza” vi sono due lettere non tanto depennate, quanto proprio cancellate, di cui la prima è senza dubbio una “p”, mentre la seconda potrebbe essere una “a”, anche se è di tutt’altro che agevole lettura. Inoltre, come si può notare, nel recto della carta il cui numero è significativamente 453 la missiva concerne Venezia. A questo punto pare alquanto curiosa la nota “Dimittatur spacium” che si trova alla fine della lettera nel margine sinistro al livello delle firme dei cancellieri “Zannetus” e Iohannes”, la prima posta quasi al centro della pagina, la seconda allineata a destra. A parte il fatto che lo spazio al termine della missiva non è molto, non si capisce perché, se bisognava lasciare spazio, poi nel verso della carta venga scritto “Error”, se non appunto per sottolineare il numero 453 della carta stessa, al fine di rimandare alla minuta del 12 maggio 1458 di Francesco Sforza nella quale egli commetteva l’errore di assegnare la missiva di Corradino Giorgi datata 5 maggio al 2 dello stesso mese. Si noti inoltre che il richiamo alla minuta del duca di Milano è anche per così dire testuale. All’inizio di essa si legge infatti: “Ne piace, respondendo a tre toe lettere date al’ultimo del passato et II et III del presente”, mentre la prima riga della missiva diretta “Apolonio” termina proprio con le parole “a dì ultimo”, proseguendo poi all’inizio della riga successiva con “del mese passato”. A questo punto pare evidente che l’errore commesso nell’indicazione del destinatario, consistente nello scrivere “habitatori” invece di “habitatoribus”, non sia altro che un modo per attirare l’attenzione sul vicino numero 453 della carta e su uno sbaglio cui esso rimanda: è una sorta di premessa poi confermata nel verso della carta, in cui si legge solo la parola “Error”, la quale, come detto, vuole rimandare all’inversione cronologica compiuta nella minuta di Francesco Sforza datata 12 maggio 1458. Può essere il caso di fare un’ulteriore considerazione. Riteniamo che il riferimento al “formagio” non sia casuale, ma un modo per alludere alla minuta ducale intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, nel cui terzo capoverso si legge: “Le dicte prese vogliono essere date in menestra, se l’è possibile, et maxime in menestra de lasagne con formagio et anche con qualche altra poca spetia et zafrano per colorarle, ad ciò non se acorzano dela polvere, benché la polvere habia similitudine de sapore al formagio”. Volendo spingerci oltre, si può compiere un’altra osservazione. A proposito del verso della carta 383 si è notato come l’ultima parola sia “incanto” e come essa voglia alludere all’opera di un mago, aspetto confermato dal fatto che nel verso stesso è menzionata una persona il cui nome è “Melchion”, che rimanda a Melchiorre, ossia uno dei “magi”. Si è però rilevato che si giocava “sull’ambiguità di quest’ultimo termine, perché la parola ‘mago’ riferita a Melchiorre non significa che egli fosse in grado di compiere un ‘incanto’”, ma avesse tutt’altro senso. Il mago cui ci si riferiva in grado di compiere un “incanto” era invece un esperto in scienze occulte. Proseguiamo quindi nel ragionamento. Come si può leggere qui, il termine “prese” deve essere interpretato alla luce delle carte da trionfi, che sono un gioco di prese, e riferito alla corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi va inteso come ricezioni da parte del primo delle lettere del secondo. Un mazzo di carte da trionfi è formato da 78 carte, suddivise in 56 carte di quattro semi (denari, coppe, bastoni, spade), e 22 dette trionfi. Uno dei trionfi più famosi, appartenente al mazzo Visconti-Sforza, eseguito per Francesco Sforza nei primi anni del suo regno e oggi diviso tra l’Accademia Carrara di Bergamo, la Pierpont Morgan Library di New York e la famiglia bergamasca Colleoni, è il Bagatto, che è appunto un mago. Egli si presenta come un uomo con barba, vestito di un abito rosso e verde bordato di ermellino. Sul tavolino che gli è di fronte sono posti un coltello, un bicchiere e, come rileva Cecilia Gatto Trocchi a pagina 28 de I Tarocchi, “forse due noci e una strana pietanza biancastra, che sembra formaggio fresco o pasta lievitata”. Egli cerca di proteggere questa vivanda con la mano destra, mentre con la sinistra tiene una bacchetta, lo strumento magico della sua professione, che, scrive sempre Cecilia Gatto Trocchi ma questa volta in un articolo dal titolo Il Bagatto comparso a pagina 30 nel n. 3 del 1986 della rivista “Abstracta”, “deriva dalla verga d’oro di Hermes e ha la funzione di addormentare e di risvegliare”. A proposito della “pasta lievitata” menzionata dalla studiosa può essere il caso di rilevare che nella minuta ducale sopra citata relativa al “modo da dare la polvere” ricorre spesso la parola “pastello”, sia al singolare sia al plurale, che a pagina 789 del Grande dizionario della lingua italiana è definita “grumo di pasta non bene lievitata”. Nel documento si legge infatti: “Et, quando in menestra o in vino non se potesse o non gli paresse de dare dicta polvere, se gli vole dare in pastelli, ita che ciaschuno habia la parte sua, como è dicto de sopra, ma el se vole fare li pasteli de tale forma che ciaschuno mangi el suo et che non gli ne avanzi niente, ad ciò che la cosa habia ad passare equalmente in tutti. // Ma se vole havere advertentia che, dando dicta polvere per menestra o per vino o per pastelli, como è dicto, la menestra o lo vino o lo pastello del amico non gli ne habia niente et, se pur non se potesse fare che non gli ne fusse la parte sua, se vole providere ch’el non ne gusti, ad ciò non intervenesse a luy quello che intervenirà a chi ne gustarà. // Et, se questa polvere se darà per pastelli, se vole, quando serano cotti li pastelli, così caldi caldi levare la crosta de sopra et polverizarli suso la polvere con qualche altre spetie et poy retornargli la crosta, ad ciò che la vertù dela polvere non vaddi in fumo non manchasse de niente. // Et, se per caso advenesse che per esser scambiata la minestra o la taza o lo pastello al amico luy pigliasse dicta polvere et cadesse in lo errore, se vole providere primum che immediate rebutti fuori del stomacho ogni cosa over gli bevi dreto aceto assay et tanto ch’el butti fori ogni cosa et, se pur non questo non bastasse ch’el non potesse contra la virtù dela polvere, se vole havere apparichiati lì alcuni deli soy che lo pigliano et lo portino via”. A questo punto riteniamo piuttosto ragionevole affermare che nel documento intitolato “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, il quale non a caso è la prima minuta ducale nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi, quasi fosse una sorta di suo manifesto, il duca di Milano assume per così dire le sembianze del Bagatto, ossia un mago che con la sua “polvere”, vale a dire le lettere non autentiche, è in grado addormentare. Le missive cui ci si riferisce non sono solo quelle che compongono l’epistolario tra Francesco Sforza e il suo ambasciatore in Savoia, ma almeno una sezione delle corrispondenze per così dire parallele collegate. Per quanto riguarda i Registri delle Missive 34, 38 e 44, ossia quelli che finora sono stati sicuramente identificati avere attinenza con la corrispondenza fra il duca di Milano e Corradino Giorgi e che senza dubbio all’uopo potevano essere esibiti, è legittimo dubitare che tutte le lettere siano state inviate. È evidente, tuttavia, che quelle aventi come destinatari per esempio Carlo VII o Renato d’Angiò non possono che essere state realmente spedite. In ogni caso è sicuro che le missive siano state registrate in una certa successione, presentando determinati errori e in carte con una certa numerazione avendo in mente per così dire un’intenzione e quindi la volontà di inviare precisi messaggi al lettore. Affermare che nella minuta intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” il duca di Milano debba essere identificato con il Bagatto non è in contrasto con quanto scritto qui, ossia che nella “storia alla rovescia” “Ludovico Bolleri sta per Ludovico di Savoia, in quanto entrambi sono accomunati dal fatto di essere prigionieri sottoposti alla sorveglianza di guardie, e che il delfino/Cristo con la sua minacciosa Resurrezione libera il duca sabaudo (e anche ovviamente Ludovico Bolleri)”. Innanzitutto può essere il caso di rilevare come nel titolo del documento sia presente una significativa reticenza, evidenziata dalla locuzione “etc.”, che secondo il Vocabolario online della Treccani “serve a troncare una lunga enumerazione, una citazione e sim., sostituendo compendiosamente le parole che dovrebbero seguire”: non viene infatti specificata l’identità del prigioniero, mancando quello che in latino è definito “genitivo oggettivo” che permetta di stabilire chi sia colui che “le guardie” sorvegliano. La sua assenza non è casuale, bensì voluta, e, non essendo specificato chi sia il prigioniero, non è nemmeno scontata l’identificazione delle “guardie”. L’intento del Bagatto/Sforza è infatti suggerire al lettore di andare oltre quella che a un primo livello di lettura pare essere l’identificazione più scontata, ossia con Ludovico Bolleri. A un secondo livello il prigioniero deve infatti essere individuato con il duca sabaudo. I due Ludovico sono infatti accomunati dal fatto di ritrovarsi entrambi nella condizione di prigioniero, dall’identificazione del quale dipende quella delle “guardie”. Queste ultime solo in apparenza sono “le guardie” di Ludovico Bolleri: quelle cui in realtà preme alludere sono “le guardie” che tengono politicamente sotto controllo il duca sabaudo. Il titolo della minuta si basa dunque su una similitudine, che riteniamo di immediata intuizione per il lettore coevo: come Ludovico Bolleri è sorvegliato dalle “guardie” del duca sabaudo, così quest’ultimo è sotto lo stretto controllo delle “guardie” presenti nel suo Stato al servizio di Carlo VII, di cui è prigioniero. Quanto scritto trova conferma nel post scriptum datato 14 marzo 1458 di Corradino Giorgi in cui si legge: “El è vero che questo signore ha lo suo stato diviso in doe parte. Una al presente regna e guberna, aderise alo re de Franza e lo mareschalcho hè capo de bandera he hano conducto questo signore a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero, unde lo dicto signore, che se vorea cavare e liberare de asta subiectione, sce intende cum l’altra parte, che non è al presente de stato, dela qual misir Iohane de Compense è lo primo, e vorea farla saltare, la qual dubita a piglare la impresa senza spade, favore e secorso, besognando de qualche altro signore, e per questo hano deliberato de volere intendere dala signoria vostra se cum sua mezanità la signoria vostra vole fare liga cum questo signore. He questo intendo cercheano de uluntà he consentimento d’essto signore, avsando la signoria vostra che intendo che lo duca de Burgogna he monsignor lo dalfino gli meteno mane esste pratiche se fano al presente in questa cità” (che è Ginevra). Delle parole che precedono ci preme rilevare che Ludovico di Savoia viene descritto come condotto “a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero”. Il duca, però, “se vorea cavare e liberare de asta subiectione”: Ludovico di Savoia si configura pertanto come prigioniero di Carlo VII e desideroso di conquistare la libertà. Per esercitare la sua supremazia nel ducato sabaudo, il re di Francia si serve della “parte” che “al presente regna e guberna” e che “aderise alo re de Franza”, di cui “lo mareschalcho hè capo de bandera”, maresciallo che, nonostante quanto scritto da Ferdinando Gabotto, il quale a pagina 46 de Lo Stato Sabaudo da Amedeo VIII a Emanuele Filiberto sostiene trattarsi di “Gaspare di Varax piuttosto che il Seyssel”, perché Corradino Giorgi “lo dice ‘lo primo homo de questa corte’”, l’esame della documentazione presente presso l’Archivio di Stato di Milano consente di identificare con Jean de Seyssel, signore di Barjact. Nella successiva lettera del 17 marzo Corradino Giorgi riferisce poi di un colloquio con “Iohane de Compesio, dicto signor de Toreno”, che in sostanza conferma quanto scritto dall’ambasciatore ducale nel post scriptum di tre giorni prima, aggiungendo però alcuni particolari che consentono di meglio comprendere la natura dell’autorità esercitata dalla “parte” che “aderise alo re de Franza”. Rivolgendosi all’inviato ducale, nella missiva Jean de Compey risulta affermare: “Coradino. Non so se tu sapie li zentilomini, conti, baroni et cavaleri de questo stato de Savoia esser divisi doe parte, dele quale monsignor lo maneschalcho è capo de l’ina, la quale è tuta franzosa, senza alcuno mezo, et quela al presente guberna et rege questo stato al suo modo et como gli pare, como tu vedi, non pesando sulo honore né su el bene né sul’utile de questo nostro signore, ma de adinpire li soi pesire et voluntate, et noi altri, quali al presente non semo de stato né de guberno he che cognosemo questo nostro signore esser cumdicto a tanta subiectione che non ardische fare se no como voleno, e noi, che amemo el nosro signore et lo suo utile he honore, voremo prendere modo et via de liberarlo de tanta subiectione, unde cognosemo questo non ne potere seguire senza lo favore et inteligencia de alcuno altro signor, et maxime del tuo signore, duca de Mediolano, el quale,  s’el volese che se intendesemo cum sua signoria, lo faremo fare liga et bona inteligencia cum questo nostro signore he in modo che lo dicto signor nostro se liberarea da tanta subiectione de questi franzosi, como soa signoria hè desiderosa, che sarebe grande utile del XX prenominato tuo signore, duca de Mediolano, et del stato suo he del nosro signore, he, non volendo dicto signore tuo havere la nostra inteligentia, ne sarà forza, per stare a casa nostra, haderirse cum la parte nostra inimicha, la quale continuamente praticha cum franzosi de metere gente d’arme insema et pasare li monti per andare adoso al duca de Mediolano, il che cognoso sarà gram detrimento de l’uno e l’altro stato”. La “parte” di cui “lo maneschalcho è capo” viene descritta come “tuta franzosa, senza alcuno mezo”. Essa “al presente guberna et rege questo stato al suo modo et como gli pare”, ma soprattutto risulta avere condotto Ludovico di Savoia “a tanta subiectione che non ardische fare se no como voleno”: le parole appena riportate consentono di affermare che, se Ludovico di Savoia, “sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero”, si configura senz’altro come un prigioniero di Carlo VII, i “franzosi” al servizio del re di Francia si delineano come vere e proprie “guardie”, che sottopongono a stretta sorveglianza l’attività politica del duca sabaudo. Consideriamo a questo punto il terzo capoverso della minuta sulla “polvere”. In esso si legge: “Item le dicte prese farano dormire circa VIII o X hore et, se ben costoro non dormissero, sarano fora de sentimento et tali che parerano como matti et debili et parerano che vogliano morire. Niente de mancho non morirano et farano acti et cose molto paze et, se ben, exequendo la cosa che se ha a fare, loro vedesseno quello se facesse, non se ha a temere questo, ma andare dreto et fugire, però che serano talmente fora di sé et debili, che non porano né conoscere né dire né obviare ad quello se farà, et anchora, se ben gli accadesse dire alcuna cosa che fosse a proposito, manche per questo se debia stare de andare dreto et fugire, perché serano fora di sé et pazi, como è dicto, avisando che, quando serano guariti, de tale caso non se recordarano de cosa sia facta”. Innanzitutto può essere il caso di notare l’insistenza su espressioni come “fora de sentimento”, “matti”, “acti et cose molto paze”, “fora di sé”, ripetuto due volte, e “pazi”. Poiché, come si è visto, Francesco Sforza deve essere identificato con il Bagatto, uno dei trionfi più famosi del mazzo Visconti-Sforza, riteniamo che con le parole sopra riportate si voglia alludere alla carta del Matto, la cui più antica versione sembra appartenere allo stesso mazzo Visconti-Sforza. La sua figura, misera, veste abiti laceri e ha un’espressione insulsa sul volto non rasato, sette penne in testa e un bastone nella mano: essa simboleggia la follia umana “intesa nei suoi caratteri negativi, come opposizione alla ragione”, secondo quanto scrive Claudia Cieri-Via a pagina 161 de L’iconografia degli Arcani Maggiori. A pagina 79 de Iconografia dei Tarocchi Andrea Vitali precisa che “Le penne presenti sul capo del folle rappresentano […] ciò che al folle stesso manca, cioè velocità d’ingegno e d’intelletto, oltre alle adeguate parole”. In contrapposizione al Bagatto/Sforza con i riferimenti alla carta del Matto riteniamo si voglia alludere a Carlo VII, insieme più genericamente ai “franzosi” menzionati sopra, in quanto figlio di Carlo VI, detto il Folle (in francese Charles VI le Fou) per via delle frequenti crisi. Torniamo ora al terzo capoverso prima menzionato. Esso rimanda a una precisa condotta politica, consistente nella simulazione, sullo sfondo della vicenda di Ludovico Bolleri, di conflitti e contrasti tra Francesco Sforza e Ludovico di Savoia, la quale, come abbiamo visto, comprende anche altri importanti soggetti politici e consente al duca sabaudo di liberarsi dalla condizione di “subiectione” verso il re di Francia. La finzione è in grado di fare “dormire” le “guardie” di Ludovico di Savoia, ossia di eluderne la sorveglianza, al punto che, se anche esse “non dormissero” e “vedesseno quello se facesse” e “gli accadesse dire alcuna cosa che fosse a proposito”, “non se ha a temere questo, ma andare dreto et fugire, però che serano talmente fora di sé et debili, che non porano né conoscere né dire né obviare ad quello se farà”. Naturalmente la simulazione non può che riverberarsi nella “polvere” del Bagatto/Sforza, ossia nelle lettere non autentiche con la loro “storia alla rovescia”. È evidente, tuttavia, che da solo il duca di Milano non era in grado di opporsi a Carlo VII: era necessaria la presenza di un garante superiore. Si arriva così al terzo livello di lettura del titolo della minuta sulla “polvere”. Per comprenderlo, è necessario considerare che alla “storia alla rovescia” di Francesco Sforza si contrappone il falso racconto delle “guardie” del duca sabaudo. Nella lettera di Corradino Giorgi datata 10 dicembre 1457 Jean de Seyssel risulta infatti dichiarare “ch’era vero che per lo passato dicto domino Aloyse hè stato reputato homo notabile he da bene he amator dela cassa de Savoia e a quela fidelle et che volesse Dio che al presente fosse stato cusì, che non gly sarea acaduto quelo gly hè acaduto, he ch’el rezerchava la destrutione dela persona he stato de monsignore de Savoia”. Il non autentico racconto delle guardie di Ludovico di Savoia rimanda a quanto scritto qui, ossia “alle guardie (in latino “custodes”) del sepolcro di Gesù, che, dopo essere state pagate dai ‘principibus sacerdotum’, vanno in giro a raccontare appunto il falso, ossia che ‘discipuli eius nocte venerunt et furati sunt eum nobis dormientibus’ (si veda al proposito Mt 28, 11-15)”. Nel Vangelo di Matteo al falso racconto delle guardie si contrappone il vero della Resurrezione di Cristo, contrapposizione cui vuole alludere anche il titolo del documento sulla “polvere”. Che vi sia un riferimento a Gesù è confermato dal fatto che nella minuta si legge: “Et, se per caso advenesse che per esser scambiata la minestra o la taza o lo pastello al amico luy pigliasse dicta polvere et cadesse in lo errore, se vole providere primum che immediate rebutti fuori del stomacho ogni cosa over gli bevi dreto aceto assay et tanto ch’el butti fori ogni cosa”. A evidenziare l’importanza del termine “aceto” non sono solo le parole successive ”assay et tanto ch’el butti fori ogni cosa” scritte nell’interlinea, ma anche il fatto che esso è preceduto dalle lettere “qualch”, di cui risultano chiaramente depennate con una riga solo le prime quattro. Vi è poi un’altra riga leggermente più in alto: essa depenna le lettere “ual”, ma non depenna la “c” in modo evidente, perché le passa poco sopra. Benché la linea verticale della “h” risulti tagliata da un segno abbreviativo, come se si volesse scrivere “qualche”, è evidente che prima del termine “aceto” si vuole alludere a “Christo”.

I quattro evangelisti ricordano infatti come i soldati diedero da bere aceto a Gesù durante la sua Passione sulla croce (si veda al proposito Mt 27, 48; Mc 15,36; Lc 23,36; Io 19,29). Pertanto nel testo del documento mediante il riferimento all’”aceto” si allude alla Passione di Cristo, nel titolo invece alla sua Resurrezione. A questo punto non resta che domandarsi con chi debba essere simbolicamente identificato il Gesù che risorge cui si allude. Premesso che riteniamo che per il lettore coevo l’identificazione fosse di immediata comprensione, un’indicazione è già fornita nel terzo capoverso della minuta. Poiché, come abbiamo visto, in esso riteniamo si alluda a Carlo VII come Matto per via di suo padre, per contrasto nel titolo si allude al suo primogenito. Gli indizi distribuiti nella documentazione con i quali si vuole fare capire che il protagonista della Resurrezione è il delfino non sono pochi e ne tratteremo altrove. Ora ci limiteremo a quelli cui si è già accennato. Per esempio qui si è già parlato della lettera del Registro delle Missive diretta “Georgio de Conradinis parte Cichi etc.” e datata 26 ottobre 1457 che si trova alla fine del verso della carta 323 e in circa metà del recto della carta 324 (si noti che in quest’ultimo essa non è seguita da alcuna lettera e quindi lo spazio che avanza è privo di testo). Abbiamo detto che con il nome e il cognome di Corradino Giorgi scritti al contrario si vuole alludere “al fatto che la corrispondenza di Francesco Sforza con il suo ambasciatore costituisce una ‘storia alla rovescia’” e quindi non è autentica. Significativamente la lettera successiva, che occupa l’intero verso della carta 324 e circa metà del recto della carta 325 (pure in quest’ultimo essa non è seguita da alcuna missiva e quindi lo spazio che avanza è privo di testo; considerata la lettera che segue nel verso, di cui parliamo subito dopo, si potrebbero compiere non poche osservazioni relative al fatto che la carta sia curiosamente numerata 325, ma preferiamo limitarci nell’argomentazione, anche se può essere interessante osservare che il 3 presenta in alto a destra una breve linea orizzontale che lo fa assomigliare al segno del cifrario di Corradino Giorgi che sta per la lettera “p”, non di rado associato al segno 2 per la vocale “o” nelle combinazioni “23” o “32”, ovviamente corrispondenti alle lettere “op” oppure “po”) e che come primo cancelliere presenta la firma di “Christoforus”, è diretta “Serenissimo domino regi francorum” e datata 30 ottobre 1457. A questo punto è importante esaminare la prima missiva nel verso della carta 325, che ha come destinatario “Illustri domino tamquam fratri nostro carissimo domino Iohanni marchioni Montisferrati” ed è datata 30 ottobre 1457. Il suo testo è il seguente: “Ad ciò che la illustrissima signoria intenda quello è seguito del illustre signore Francesco Foscari, già duxe de Venetia, mandiamoli qui inclusa la copia de una lettera scrive quella illustrissima signoria ad Nicolò Grasso, suo secretario, et advisamola ch’el sigillo del quale è sigillata è in cera verde rossa in uno silimbacho”.

Innanzitutto si noti come beffardamente dopo le due lettere citate in precedenza per contrasto si faccia riferimento al “sigillo”, ossia a uno strumento che serve a garantire l’autenticità di un documento. Si osservi inoltre che la missiva, la quale come abbiamo visto è datata 30 ottobre, riguarda Francesco Foscari, che morì l’1 novembre. Poiché non si fa alcun accenno della morte dell’ex doge, si potrebbe ipotizzare che essa sia stata registrata lo stesso 30 ottobre o entro i primi giorni di novembre, quando il duca di Milano non era ancora stato avvisato della sua dipartita (in una minuta datata 11 novembre diretta a Marchese da Varese, ambasciatore milanese a Venezia, Francesco Sforza scrive: “Respondendo alle toe lettere de dì cinque del presente, quale fano mentione de la morte del principe passato, domino Francesco Foscari, dicemo dolerse de la soa morte”). In ogni caso non conta tanto stabilire quando sia avvenuta la registrazione della missiva, quanto che essa si trovi dopo quella diretta a Carlo VII, posizione che fa capire che il vero intento della lettera è chiaramente alludere al fatto che si sta avvicinando pure il momento della morte del re di Francia, il quale nel corso del 1457 si era ammalato, e che permette di inferire che essa sia stata registrata quando si era a conoscenza della dipartita di Francesco Foscari, benché nella lettera non se ne parli, in modo da inviare un preciso avvertimento al lettore. A conferma di quanto appena affermato, alla velata allusione ai non moltissimi giorni che restano da vivere a Carlo VII si contrappone l’aggettivo depennato “verde”. Già solo considerando il termine italiano, è evidente come esso sia legato alla primavera con la sua idea di rinascita. Quest’ultimo aspetto è sottolineato dal fatto che la parola è scritta con la “v” tagliata per “ver” seguita dalle lettere “de” e in latino “ver” significa appunto “primavera”, la quale a sua volta rimanda alla Pasqua e quindi alla Resurrezione, che si celebra la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Anche senza entrare nel merito delle lettere successive, è evidente che all’anziano Carlo VII non può che essere contrapposto il giovane delfino Luigi, rinato come la vegetazione in primavera o più precisamente “risorto” come Cristo. L’eventuale obiezione che il termine verde depennato sia casuale non può essere accolta, in quanto la missiva di cui esso fa parte è presente in sostanza identica all’inizio del verso della carta 192 che insieme alla carta 191 appartiene al Codice 1595 dell’Archivio Sforzesco che si trova presso la Biblioteca nazionale di Francia e che è stata strappata dal Registro delle Missive 38, la cui numerazione passa infatti da 190 a 193 con il segno di pagine strappate. Significativamente nella missiva del Registro 38, diretta “Dominis de Consilio secreto” e datata anch’essa 30 ottobre 1457, è scritto “et avisamovi ch’el sigillo del quale è sigillata è de cera rossa” senza che vi sia alcuna parola corretta, a sottolineare l’importanza del termine “verde” depennato nella lettera del Registro 34.

Di un altro indizio in merito a chi sia il protagonista della Resurrezione ne abbiamo parlato in questo stesso testo, quando abbiamo accennato alla missiva alla fine del recto della carta 22 del Registro 44 “Domino Renato regi Andegavie Renato” e datata 4 maggio 1458 rilevando che nel destinatario “con la ripetizione di ‘Renato’ si vuole alludere da un lato a chi è ‘re nato’ in quanto figlio primogenito di Carlo VII, ossia al delfino, dall’altro a Cristo, da identificare con il precedente ‘re nato’, vale a dire appunto il delfino”. Può essere il caso di aggiungere che nella missiva precedente diretta “Syretto de Voltabio, presidenti in Novo” e anch’essa datata 4 maggio, senza entrare nel merito del contenuto, alla penultima riga è scritta la parola “preservando”. Tuttavia prima vi è un termine depennato di cui si legge chiaramente all’inizio “pres” e alla fine “ando”, mentre le lettere in mezzo sono cancellate in modo da risultare di difficile lettura [controllare sul Registro, perché dalla fotocopia non si capisce bene]. In sostanza è piuttosto evidente che nel titolo della minuta sulla “polvere” il Gesù cui si allude debba essere identificato con il delfino. A questo punto è opportuno ricordare che passando dalla carta 382 al recto della carta 383 del Registro 38 lo stesso delfino viene associato a “polvere de bombarda et da schiopetti”: è evidente che al terzo livello di lettura, ossia appunto quello del delfino, la “polvere” consista in qualcosa di ben diverso rispetto alla “polvere” del Bagatto/Sforza e dunque il titolo del documento, come si è detto, “assuma un tono di minaccia e avvertimento, sia nel presente sia in prospettiva, quando il delfino sarà asceso al trono, tanto più se si considera il senso sinistro che alla luce della ‘polvere’ assume l’espressione ‘fare dormire”'(può essere il caso di rilevare che a pagina 968 del IV volume del Grande dizionario della lingua italiana come significato del verbo ‘dormire’ viene dato anche quello di ‘Giacere nell’eterno riposo; giacere morto’)”, anche se nel secondo capoverso quasi in tono bonario si legge che, se anche “le guardie” “non dormissero, sarano fora de sentimento et tali che parerano como matti et debili et parerano che vogliano morire. Niente de mancho non morirano”, e alla fine “che, quando serano guariti, de tale caso non se recordarano de cosa sia facta”, quasi a voler dire che in caso di pacifica accettazione di quanto avvenuto non vi saranno conseguenze gravi per nessuno. Il garante della liberazione di Ludovico di Savoia è dunque il delfino, fatto che spiega anche perché nel testo sopra riportato si legga che “le guardie” “parerano como […] debili”, aspetto ribadito più avanti quando si dice, come abbiamo già visto, che, ”se ben, exequendo la cosa che se ha a fare, loro vedesseno quello se facesse, non se ha a temere questo, ma andare dreto et fugire, però che serano talmente fora di sé et debili, che non porano né conoscere né dire né obviare ad quello se farà”. In qualità di Bagatto che con la sua “polvere” consistente in lettere non autentiche racconta una “storia alla rovescia” al contempo inviando precisi avvertimenti, Francesco Sforza si configura pertanto come una sorta di portavoce della politica del delfino non solo per quanto riguarda il ducato di Savoia, ma più genericamente l’Italia, dove si fa intendere che egli appoggia Francesco Sforza (sostegno di cui il duca di Milano non esita a farsi forte in modo velato rispetto a Venezia) ed è intenzionato a contrastare le mire del padre Carlo VII e di Renato d’Angiò su Genova e il regno di Napoli. Nel breve e medio periodo si può dunque affermare che la politica del delfino viene a coincidere con gli interessi dello stesso Francesco Sforza. Inoltre è evidente che in quanto portavoce il duca di Milano invii avvertimenti che nell’immediato presente e in prospettiva hanno ricadute anche all’interno del regno di Francia per quanto riguarda gli avversari del delfino, destinato a divenire sovrano. Al livello di lettura di quest’ultimo il minaccioso titolo “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” deve dunque essere inteso non solo riferito ai “franzosi” presenti nel ducato di Savoia, ma in senso più ampio. [continua]

L’obiezione che il periodo interessato dalle carte cui si è accennato è successivo di quasi un anno all’inizio di maggio del 1458 non può essere considerata valida e cercheremo di spiegare il perché, anche se in modo succinto. Il tema da cui bisogna partire è quello della consegna a Francesco Sforza di Eusebio da Laglio, assassino di Giuliano da Calvisano, ex podestà di “Bulgari”. Esso compare per la prima volta nella seconda missiva del verso della carta 303, la cui corretta numerazione sarebbe 403, diretta “Potestati Novarie”, datata “XX ianuarii 1459” e inviata da Milano. In essa si legge: “Come tu deve sapere, è stato morto in quelle parte Zuliano de Calvisano, nostro offitiale, per uno Eusebio de Laglio, el quale siamo avisati, essendo capitato a Vercelli, è stato sustenuto per quello commissario et, perché intendimo fargli ministrare rasone, te commettimo et volimo che, recevuta questa, monti a cavallo et te ne vadi ad Vercelli dal dicto commissario con tante persone che te pareno bastare ad condure dicto Eusebio ad Novara securamente, al quale commissario scrivimo per l’alligate che c’el faci consignare, siché, como l’haveray conducto ad Novara, faralo mettere in loco ch’el non possa fare fuga, perché intendimo farli fare rasone et subito ne avisaray, perché te avisaremo de quanto ne haveray ad seguire”. Tuttavia, nella missiva immediatamente successiva nel recto della carta 304, la cui corretta numerazione sarebbe 404, diretta “Potestati Bulgari”, anch’essa datata “XX ianuarii 1459” e inviata da Milano, si legge qualcosa di ben diverso, ossia che “Per la toa lettera siamo avisati del homicidio seguito contra Iuliano da Calvisano et quasi ancora del famglio, del che ne havemo ricevuto tanto dispiacere quanto dire se possa, et commendandoti dela diligentia hay usata in fare prendere quello Eusebio da Laglio homicida, il perché havimo scripto al podestà nostro de Novara ch’el vada ad Vercelli per condurlo là, perché intendimo farli fare rason”. Innanzitutto, come si può notare, è proprio grazie alla lettera del podestà di “Bulgari” che il duca di Milano viene avvisato “del homicidio seguito contra Iuliano da Calvisano”. Non può pertanto non stupire che nella missiva si legga che il podestà ha fatto “fare prendere quello Eusebio da Laglio homicida, il perché havimo scripto al podestà nostro de Novara ch’el vada ad Vercelli per condurlo là, perché intendimo farli fare rason”, mentre nella precedente lettera al podestà di Novara sia scritto: “Come tu deve sapere, è stato morto in quelle parte Zuliano de Calvisano, nostro offitiale, per uno Eusebio de Laglio, el quale siamo avisati, essendo capitato a Vercelli, è stato sustenuto per quello commissario et, perché intendimo fargli ministrare rasone, te commettimo et volimo che, recevuta questa, monti a cavallo et te ne vadi ad Vercelli dal dicto commissario con tante persone che te pareno bastare ad condure dicto Eusebio ad Novara securamente”. Nella missiva al podestà di “Bulgari” il contrasto rispetto a quella immediatamente precedente al podestà di Novara è sottolineato dall’errata parola “commendandoti”, che dovrebbe essere “commendamoti” e con la quale si intende sottolineare il carattere sibillino delle parole che seguono, il cui senso è appunto l’opposto di quello espresso nella lettera al podestà di Novara, e dal fatto che il “9” dell’anno “1459” è corretto su un “8”, riteniamo sempre al fine di evidenziare le differenze rispetto alla missiva precedente. A proposito dello scorretto termine “commendandoti”, nel quale le lettere “nd” vanno corrette con una “m”, bisogna inoltre notare che esso è come anticipato dall’errata parola “famglio”, in cui la “m” è per così dire evidenziata dalla mancanza della “i” subito dopo. Il tema della consegna di Eusebio da Laglio è di nuovo presente nella prima lettera del recto della carta 305, la cui corretta numerazione sarebbe 405, diretta “Iohanni Bechio de Calvisano, potestati Bulgari”, datata 26 gennaio 1459 e inviata da Milano. In essa è scritto: “Respondendo ala tua lettera, dicemo che nuy commettessemo al podestà nostro de Novara dovesse andare ad Vercelli per condure quello Eusebio dag Laglio, homicida de Zuliano da Calvisano, perché dubitavamo che tu non fosti forti ad condurlo et tenerlo […] el quale ancora non l’ha possuto havere, perché el commissario expecta prima la resposta del illustrissimo duca de Savoya, et pur speramo se haverà”. Come si può notare, in questa missiva destinata a quello stesso “potestati Bulgari” che il 20 gennaio veniva lodato per la “diligentia hay usata in fare prendere quello Eusebio da Laglio homicida” il duca di Milano scrive il contrario, ossia che “nuy commettessemo al podestà nostro de Novara dovesse andare ad Vercelli per condure quello Eusebio dag Laglio, homicida de Zuliano da Calvisano […] el quale ancora non l’ha possuto havere, perché el commissario expecta prima la resposta del illustrissimo duca de Savoya”, confermando quindi, pur giocando sull’ambiguità del verbo “condure”, quanto scritto al podestà di Novara il 20 gennaio. Nel verso della stessa carta erroneamente numerata 305 la seconda missiva, diretta di nuovo “Iohanni Bechio de Calvisano, potestati Bulgari” e datata anch’essa 26 gennaio 1459, tratta ancora di “Eusebio da Laglio, homicida de Zuliano da Calvisano” e in calce alla lettera è scritto “In symili forma scriptum fuit suprascripto Iohanni Bechio datum die III februarii 1459”. Nel verso della carta 408, alla quale la numerazione torna corretta dopo il passaggio dalla carta 399 alla 300, vi sono due missive datate 3 febbraio 1459, entrambe inviate da Milano. Nella prima diretta “Potestati Bulgari” è scritto: “Havendone facta instantia l’homini de quello locho ne volessemo contentare de fare monstrare rason in esso loco ad Eusebio da Laglio, homicida de quondam Zuliano de Calvisano, siamo contenti et volemo, così per questa te commettimo et volimo ti debii transferire dal commissario de Vercelli con l’alligata nostra dirrectiva a luy, la quale gli presentaray, al quale scrivemo lo vogli fare consignare ne le mane, el quale havendo lo conduray per modo et haveray sì facta guarda et diligentia che, sì per lo camino, sì etiamdio dapoy l’haveray conducto nel dicto loco, non possa fare fuga né essere tolto. Et contra luy procederay secondo vole la raxone et iustitia […]”. Nella seconda inviata “Commissario Vercellarum” si legge: “Già più dì ve scripssimo confortandovi et pregandovi ve piacesse far consignare Eusebio da Laglio, homicida de quondam Zuliano da Calvisano, nostro officiale, in mane del nostro podestà de Novara e voy ne respondesti como non ve pariria de farlo se prima non ne desti notitia ad lo illustrissimo signore duca de Savoya et havesti da sua signoria resposta et commissione de darnelo nele mano, che credemo hormay l’habiate havuta, con commissione ne lo dagati, cossì disponendo le connventione sonno tra sua signoria et nuy, il perché havimo commisso a Zohanne Bechio da Calvisano, nostro podestà de Novara Bulgari, dove è stato commesso homicidio, che venchi lì a torlo, al quale piacevi fare consignare, perché gli havimo commisso facia quanto vole la rasone. Se non, avisatene, perché, havendo nuy deliberato de haverlo, in executione de dicte conventione manderemo da la signoria del prefato illustrissimo signore”. La parola “connventione” scritta con due “nn” subito prima di “sonno” e i toponimi “Novara” e “Bulgari”, di cui il primo depennato, in relazione a “podestà”, che servono a ricordare le precedenti missive del 20 gennaio ai due podestà dal senso opposto, dovrebbero insospettire, inducendo a sfogliare ulteriormente le pagine. Si arriva così alla prima missiva del verso della carta 420, di nuovo diretta “Potestati Bulgari” e che curiosamente presenta due date, ossia 25 e 26 febbraio 1459. Essa è l’ultima riguardante il tema della consegna di Eusebio da Laglio presente nel Registro 38. Il suo testo è il seguente: “Inteso quanto per la tua lettera hane scripto del tuo essere andato dal governatore de Vercelli perch’el te facesse consignare nelle mane Eusebio da Laglio, homicida de Zuliano da Clavisano, dicemo respondeti che hay facto bene ad fare quanto te havimo commesso. Havimo de ciò opportunamente scripto al illustrissimo signor duca de Savoya et aspectiamo la resposta. Datum Mediolani, die XXV februarii 1459. Appresso per due nostre te havimo scripto ne volesti mandare l’inventario delli beni mobili et imobili de dicto Eusebio et cum quale conditione teneva ad ficto quella possessione et quanto tempo gli resta ancora a tenerla et may non l’hay voluto fare pertanto de novo te dicemo che subito, del che molto ne meravigliamo et ne dolemo de ti et credemo che faci questo ad cativo fine. Pertanto de novo te dicemo che subito ne voglia mandare dicto inventario et advisarni della dicta possione, como te havemo scripto, per quanto hay cara la gratia nostra. Datum Mediolani, die XXVI februarii 1459″. Limitandosi a un’analisi superficiale, si potrebbe rilevare solo il fatto che nella lettera è scritto: “Havimo de ciò opportunamente scripto al illustrissimo signor duca de Savoya” e che in questo modo si voglia indurre il lettore a cercare la missiva inviata appunto a Ludovico di Savoia. In realtà, a sottolineare l’importanza del reperire e leggere quest’ultima, non è scritto correttamente “Calvisano” bensì “Clavisano”, con riferimento al sibillino termine “clavis”, con il quale si vuole far capire che la “chiave” per interpretare correttamente la vicenda della consegna di Eusebio da Laglio si trova nella lettera a Ludovico di Savoia cui si accenna nella stessa missiva. Che “Clavisano” non sia un errore è confermato dalla sbagliata parola successiva “respondeti”, non solo perché scorretta in sé, ma anche per il tipo di lettere mancanti, ossia “ndo”. Come infatti in “Clavisano” le lettere “la” risultano invertite rispetto alla giusta successione, nelle lettere assenti “ndo” la “o” si trova alla fine, mentre nelle lettere “ond” di “respondeti” essa è posta all’inizio. Altrettanto significative risultano le parole depennate “pertanto de novo te dicemo che subito”, riproposte poco dopo precedute dai sibillini termini “credemo che faci questo ad cativo fine”, ed evitiamo di fare considerazione sulla parola “possione”, che pare scritta proprio così, non presentando sopra un segno abbreviativo, ma solo il punto della lettera “i”. La lettera al duca sabaudo si trova nel recto della carta 126 del Registro delle Missive 44 ed è datata 18 febbraio 1459. Innanzitutto notiamo en passant che nell’incipit della lettera è scritto quanto segue: “Per binas litteras scripsimus .. commissario vestro Vercellarum quod remitteret in manu potestatis nostri Bulgari Eusebium de Laglio, qui commisit homicidium in personam Iuliani de Calvisano, olim officialis nostri, et hoc vigore conventionum initarum inter illustrem dominationem vestram et nos de remittendis rehis hinc inde”. Una delle due missive al commissario di Vercelli cui ci si riferisce è quella datata 3 febbraio riportata sopra del Registro 38, alla quale nella lettera a Ludovico di Savoia si allude con le seguenti parole: “Qui commissarius nobis respondit se hoc ita denum facturum si licentia sibi per dominationem vestram prestetur, cui hac pro re scripsisse affirmat, se nullum hactenus responsum habuisse”. L’altra si trova invece nel verso della carta 118 del Registro 44, è datata 20 gennaio ed è quella cui ci si riferisce nella missiva del 20 gennaio diretta al podestà di Novara citata sopra del Registro 38. In essa si legge: “Siamo advisati come, essendo stato morto a le confine del loco nostro de Bulgari, territorio novarese, uno Zuliano da Calvisano, nostro officiale in quelle parte, per uno Eusebio da Laglio […] et che, essendo capitato lì dicto Eusebio homicida, l’havete facto sostenere et, perché, come semo certi debiate sapere, sonno conventione tra lo illustrissimo signor duca de Savoya et nuy che caduno de nuy, commettendosi homicidio nel territorio de l’altro, l’altro sia tenuto, capitando l’homicida nel territorio suo, farlo prendere et consignare in potestate di quello nel territorio del quale fusse commesso l’homicidio, ve confortiamo et preghiamo per observatione de dicte conventione vogliate far consignare dicto Eusebio in mane et possanza del nostro potestate de Novara, perché intendimo fargli fare rasone […] Et ben ve rengratiamo de quanto havete facto in farlo sostenere”. Come si può notare, da un lato essa in parte rispecchia la lettera al podestà di Novara sopra menzionata, dall’altro, proprio come la missiva al podestà di Novara, contiene il contrario della lettera del Registro 38 diretta “Potestati Bulgari” del 20 gennaio. Per chiarezza ricordiamo che in quest’ultima il podestà viene lodato per la “diligentia hay usata in fare prendere quello Eusebio da Laglio homicida, il perché havimo scripto al podestà nostro de Novara ch’el vada ad Vercelli per condurlo là, perché intendimo farli fare rason”. Nella lettera al commissario di Vercelli del Registro 44, invece, non solo è scritto che “Siamo advisati […] che, essendo capitato lì dicto Eusebio homicida, l’havete facto sostenere”, ma anche che, “perché […] sonno conventione tra lo illustrissimo signor duca de Savoya et nuy che caduno de nuy, commettendosi homicidio nel territorio de l’altro, l’altro sia tenuto, capitando l’homicida nel territorio suo, farlo prendere et consignare in potestate di quello nel territorio del quale fusse commesso l’homicidio, ve confortiamo et preghiamo per observatione de dicte conventione vogliate far consignare dicto Eusebio in mane et possanza del nostro potestate de Novara, perché intendimo fargli fare rasone”. Nella missiva a Ludovico di Savoia poi si legge: “vestram denuo hortamur et rogamus dominationem ut vigore dictarum conventionum et etiam nostro amore velit opportune scribere prefato comissario Vercellarum quod in manus dicti potestatis Bulgari remittit et assignet nepharium hunc Eusebium homicidam”. Si arriva così al punto centrale della lettera al duca sabaudo, ossia quello in cui la figura di Eusebio da Laglio si incrocia con quella di Antonio Peloso, personaggio in mano al duca di Milano la cui vicenda a sua volta si incrocia con quella della cattura di Arcimbaldo d’Abzat alla fine di agosto del 1458 e che Ludovico di Savoia voleva gli fosse consegnato. Si legge infatti: “si vestra forte dominatio id [ossia la consegna di Eusebio da Laglio] facere distulit propter causam Antonii Pilosi”. A questo punto può essere utile cercare di riassumere brevemente, per quanto possibile, le vicende di quest’ultimo e di Arcimbaldo d’Abzat, prendendo le mosse dal recto della carta 70 del Registro 44, in cui vi è una missiva diretta “Ambroxino de Longagna” e datata 26 agosto 1458 nella quale si legge: “Havemo inteso per lettere mandate a questi magnifici ambasatori de Savoya che sono qua de presente et subsequenter per el tuo messo mandato qua da nuy como tu hay preso e sustenuto quello traditore Arcimbaldo, de la quale cosa molto e molto te commendiamo et ne havimo singulare piacere e contentamento. Et, perché asay desideremo haverlo qua, mandiamo là Francesco Capra e Zentile da la Molara, nostri familiari, cum alcune delle nostre gente, ali quali volimo che senza exceptione alcuna debbi assignare esso Arcimbaldo che ce lo conducano”. In una lettera nel verso della carta 73 diretta “Francisco de la Capra” e datata 1 settembre è scritto: “Inteso quello ne scrive del facto de Arcimbaldo et quanto ne hanno dicto doy nostri provexionati sonno venuti de là, che quelli del duca de Savoya hanno tolto dicto Arcimbaldo a li nostri, dicemo ne pare non movi le gente ordinate, ma vogli farne mettere in ordine più quantità se può in Alexandria, Tertonese, Lomellina et luochi più contigui, et cum loro staghi in ordene et impuncto, non movendoli però delle sue stancie, perché nuy mandiamo questo dì messere Thomaxo da Bologna al dicto duca de Savoya et ch’el vada poy ad Centallo ad farse dare dicto Arcimbaldo, dove sarà”. Antonio Peloso compare improvvisamente in due missive datate 3 settembre, entrambe da Torino. Nella prima, di Tommaso da Bologna, a un certo punto è scritto: “A la parte de rendere Arcimbaldo e il Peloso cum le sue robe et beni etc., [quelli del Consiglio di Ludovico di Savoia] dicono zanze asay”, poi però nel prosieguo del testo si parla solo di Arcimbaldo, tanto è vero che subito dopo il passo citato si legge: “e prima che l’è presone de monsignore, perché Ambroxino e miser Bidun da Tenda sono convenuti cum luy a fare questo”. Nella seconda, di Gentile della Molara, si legge: “me dolsi [con il cancelliere Antonio da Romagnano] per parte de vostra signoria del acto tenuto de avere tolta la roccha de Centale in sì […] et avere cacciati li provisionati de vostra signoria della terra et toltoli Archibaldo et Antonio Peluso, li quali sono presoni de vostra signoria. Et così ebi uno notaro cum tre testimonii et protestai lo honore della signoria vostra doi cento milia ducati, non restituendome li presoni et la terra. Et, si non facea così, facea morire lo dicto Archibaldo”. Per la verità, in una lettera sempre del 3 settembre, ma da Alessandria, Paolino da Marchello, che non menziona mai Antonio Peloso, scrive che Gentile della Molara, “quia intelexerat che la note sequente [del 2 settembre] [Ludovico di Savoia] voleva fare morire lo dito Arcimbaldo, pariter protestava contra el prefato duca e che più tosto e più caro haveva ipsa vostra signoria el dito Arcimbaldo e li altri prixoneri prexi per li soldati vostri et renduti a vostra signoria che CCm ducati”. Poi all’inizio di una missiva datata 6 settembre da Torino Tommaso da Bologna scrive: “Dapoy ch’io scrissi ala vostra signoria, sono stato continuamente in disputatione e parlamenti de questi presoni, Arcimbaldo e il Peloso”, ma poi come nella sua lettera precedente del 3 settembre parla solo di Arcimbaldo. Si arriva così alla missiva di Ambrosino da Longhignana del 13 settembre da Centallo nella quale si legge: “Ho recevuto lettere de la vostra signoria de credenza in miser Thomaso da Bologna et Zentile da la Molara et anchora altre lettre commo io dovesse assignare questo traditore d’Arcimbaldo ne le mano de Francesco dala Capra et Zentile predicto o vero a qualunche de loro se ritrovava qui. Ale qual lettre respondendo et volendo exequire d’esse lo tenore, dico che non eri, l’altro sera, ad hore XXIIII°, me fu per miser Thomaso predicto dato ne le mano Arcimbaldo, tutto pisto et in cativi termini de infirmità per li maltrattamenti a luy fatti per quelli del duca de Savoya in presone a Fossano dapoi me lo tolseno in questa terra per forza. Commo se sia, l’ho consignato questa matina, secondo el tenore dele predicte lettre signate de mano propia de la signoria vostra, in de le mano de li prenominati Francesco et Zentile, per condurlo a Milano da la vostra signoria”. Come si può notare, non vi è alcun accenno ad Antonio Peloso. In una lettera del 16 settembre da Alessandria, poi, Francesco Capra scrive: “Heri Gentile, Antonio da Cardano et mi gionsimo qui cum el traditore d’Arcimbaldo, el quale è molto tormentato da questa sua infirmità recevuta nele mano deli savoyini. Ogi, per l’afflictione deli dolori ha havuti questa nocte fortemente dale VI hore in qua, lo mando in nave per fino a Sancto Nazaro et de lì, secondo se sentirà agravato overo aleviato, pigliaremo partito de de farlo portare sule stanghe dali homini overo condure a cavallo, commo più aconciamente ne parerà, per tenere modo de condurlo vivo dala signoria vostra, se bene ne bisognase stare fermi un dì per restaurarlo”. Lo stesso 16 settembre Francesco Capra scrive da “Sancto Nazaro”: “Ho recevuto qui dove siamo gionti Gentile e mi insieme cum Antonio da Cardano una lettera dela signoria vostra per la quale vostra excelentia me scrive commo io debia assignare Arcimbaldo nele mano del castellano de Vigevano. La prelibata vostra signoria per un’altra mia haverà inteso come questa matina fece mettere Arcimbaldo in nave ad Alexandria per condurlo più aconzamente per fin qui et cum luy è venuto in essa nave Antonio da Cardano et Iacomo Todesco, i quali me diceno ch’el se lamintava che gli era intrato el dolore nel pecto dala parte dritta, siché per domane lo faremo ripossare qui et lunedì portarlo dali homini sula sbarra a Vigevano et consignaremolo al predicto castellano”. Più avanti Francesco Capra parla di Antonio Peloso: “Et, perché la excellentia vostra non fa alcuna mentione de Antonio Peloso, quale conducemo insieme cum Arcimbaldo, pigliarò pur securità de consignarlo anchora luy in mano d’esso castelano, per fino che la signoria vostra scriverà poi s’el doverà restar lì o no”. Il 17 settembre Iob da Palazzo invia una missiva da Centallo nella quale Ludovico Bolleri risulta pregare “la signoria vostra che voia fare per hognia modo che quelo traditore de Arcimbaldo e de Antonio Peloxo siano bene et deligentemente axaminati, perché luy sa che dirano cosse ala vostra signoria ve sarano acharo, e per niente non campaseno la vita, perché el saria tropo grande verghona e infamia ala signoria vostra in questo paixe se qisti traditori campaseno”. Nel Registro delle Missive 38 vi è poi una lettera diretta “Francisco Capre et Gentili de la Molaria” e datata 18 settembre nella quale si legge: “Respondendo a le tue lettere date ex Sancto Nazario XVI presentis, restiamo molto contenti et satisfacti de la conducta haveti facta de Arcimbaldo et Antonio Peloso lì ad Sancto Nazaro con proposito de farlo portare ad Vigievano, secundo che te scripsimo. Volemo aduncha che consignati siano ne le mane del castellano de Viglevano. Tu, Gentile, remagni lì ad farli bona guardia, fin a tanto che te scriveremo altro, et tu, Francesco, manda le gente a li loro logiamenti et ventene qua ad nuy battando, imponendo al castellano che gli habia bona guardia, come nuy etiandio gli scrivimo”, parole nelle quali non possono sfuggire due peculiarità. La prima è che, rivolgendosi a due destinatari, è scritto in modo vago “Respondendo a le tue lettere date ex Sancto Nazario XVI presentis”, quando dopo “lettere” sarebbe bastato precisare “Francesco”, come viene fatto qualche riga sotto, al fine appunto di evidenziare l’ambiguità precedente. La seconda peculiarità è che, dopo avere scritto “restiamo molto contenti et satisfacti de la conducta haveti facta de Arcimbaldo et Antonio Peloso lì ad Sancto Nazaro”, riferendosi quindi a due persone, si aggiunge “con proposito de farlo portare ad Vigievano”, termini fra i quali spicca il sibillino “farlo” al posto di “farli”. In ogni caso, trascurando queste osservazioni, il 19 settembre Antonio da Cardano scrive da Milano: “Son poi venuto con Francesco dala Capra e Gentili dala Molaria in compagnia de Arcimbaldo e Antonio Peloso, i quali heri ale XVIIII° hore consignasemo al fratello del castellano dela Rocha de Viglevano”. Sempre il 19 settembre da Milano Gentile della Molara scrive a Francesco Sforza che “Antonio Peloso n’è gentile homo de Dalfinato et dice che era venuto a vedere uno suo figliolo che stava cum Archibaldo et non s’è trovato ad tollere Centale né fare male nesuno, ma, vollenoser partire per retornare a casa sua, li homi et le donne da Centale lo pregaro che non se partisser così presto, perché era bono mensano fra quelle genti de Archibaldo et loro et così è stato preso”. Quindi in una lettera presente nel recto della carta 346 del Registro delle Missive 38, diretta “Zannino de Barbatis, canzellario”, datata 21 settembre e inviata da Lodi, si legge: “Volemo, subito recevuta questa, faci che Giegetto, Ghiappino et Petrino, provexionati presente portatori, habiano ducatti tri d’oro et in oro per zaschaduno et così uno paio de calce alla divisa, li quali dinari et calce gli dasemo perché hanno conducto Arcimbaldo in lo nostro castello de Vigieven, ma bene te dicemo che subito et senza dimora veruna li facii expedire, ad ciò possano retornare indreto ad Centallo”. Come si può notare, stranamente non viene menzionato Antonio Peloso. Si arriva così al 22 settembre, quando in una lettera presente nel verso della carta 80 del Registro delle Missive 44 diretta “Domino .. duci Sabaudie” e datata appunto 22 settembre si avvisa Ludovico di Savoia dell’invio di Giacomo Filippo Malombra, “cancellarium nostrum dilectum”. Per quest’ultimo vi è un’apposita “Instructio Iacobi Malumbre ad illustrem dominum ducem sabaudiensem”, datata anch’essa 22 settembre, nella quale a un certo punto si legge: “volimo che tu facii condure el dito Arzimbaldo, qual è a Vigevano, a Novara, del che havemo dato el caricho ad Laurenzo de Aurvieto et Zentile che là al conduca e tu te ne vada al dito signore de Savoya e dichi ala sua signoria che dito Arzimbaldo è lì per donarlo, como gli havemo mandato a dire per domino Michele da Canali, suo oratore, ma che per honore nostro la signoria sua volia fare la retificatione libera del contracto facto in la facenda d’esso domino Thomaso […] et senza altra exceptione”. Innanzitutto occorre notare che nemmeno in questo documento viene citato Antonio Peloso. Poi, per quanto riguarda “Thomaso”, precisiamo che si tratta di Tommaso da Rieti, del quale in una minuta datata 1 maggio 1458 il duca di Milano scriveva a Corradino Giorgi, suo ambasciatore in Savoia, quanto segue: “Ulterius, perché Arcimbaldo, come debe essere noto ad lo prelibato signore duca, del’anno 1454, ritornando lo spectabile cavaliere et consigliero nostro messer Tomaso da Riete, tunc nostro oratore de Franza, lo assaltò et robbò cativamente et contra ogni honestade et ragione presso ad Ceva et la preda ch’el gli tolse, de valuta de ducati 4m[dc], fue conducta in le terre de soa signoria, pregarai la signoria soa per nostra parte che per la fraterna amicitia nostra et etiam iuxta le conventioni inite tra luy et nuy gli piaccia volerne compiacere, havendo dicto Arcimbaldo in le mani soe, overo volernelo dare overo saltem curare, cum effecto ch’el se facia per luy o dela robba soa conveniente satisfactione al predicto meser Tomaso”. Al proposito in un capoverso di una sua missiva datata 11 maggio Corradino Giorgi rispondeva: “Ala parte dela restitutione dela roba de domino Tomaxo de Ariete etc., dice soa signoria che Arcimbaldo nedum hè in soa podestà, ma gly hè rebello, he che, quando fo facta quela robaria, non era in ly soy servicii, ma che, capitandoli ale mane, farà tuto quelo gly sarà posibile per fare cossa grata a vostra signoria, dela qual cossa hè desideroso”. In effetti, poi, a proposito dell’istruzione a Giacomo Filippo Malombra bisogna osservare come essa presenti alcuni problemi. A uno accenniamo subito in modo succinto a partire da una lettera dello stesso Giacomo Filippo Malombra datata 23 settembre e inviata da Milano. In essa si legge: “Ritrovandome a ragionare cum el magnifico domino Albrico de alcune cose che concerneno la mia commissione, me dixe la sua magnificentia e confortome e carichome che, non derogando a quanto me haveva commisso vostra signoria, gli volesse scrivere e ricordare”. Segue quindi il parere di Alberico Maletta, che, senza ora entrare nei particolari, è piuttosto problematico rispetto all’istruzione di cui sopra. Alla fine della missiva poi si legge: “Questo ho dito e scrito a suasione e per comandamento de domino Albrico. Facia e dispona la vostra signoria como gli pare e piace. Ego, nihilhominus, his non attentis, andarò ad exequire quanto me ha commesso l’excellentia vostra né per questo tardarò uno momento de tempo”. Il problema è che nell’istruzione a Giacomo Filippo Malombra si leggono parole che sembrano in contraddizione con quanto riportato sopra, soprattutto con l’inciso “his non attentis”, ossia: “Et segondo la forma che te darà esso domino Albrico, cussì de la ratificatione como de la consignatione de Arzimbaldo, tu cussì la domandaray al duca […] ma, non volendo pur la sua signoria fare la ratificatione come ditto, non volimo che tu gli daghi Arcimbaldo per cosa del mondo”. In ogni caso, evitando di fare ulteriori considerazioni, della consegna a Novara si parla in una lettera del Registro 38, presente nel recto e nel verso della carta 349, diretta “Capitaneo citadelle et castellano Novarie”, datata 23 settembre e inviata da Lodi, nella quale si legge: “I nobili Iacomo Filipo Malumbra, Zentile de la Molara et Laurentio de Orvieto, nostri canzelario e familii, sive aliter eorum ve consignareno Arcinbaldo et Antonio Piloso, suo compagno, li quali volemo debiate acceptare e metere e tenere aut in la citadella aut in lo castello, dove vi parirà stiano melio per più segureza, retenendoli soto tal guarda che non possano fare fuga. Et a questo habiate bona advertentia, per quanto havite cara la gratia nostra. Volemo preterea che, domandandove alcuni de li predicti Iacomo Filippo, Zentile et Laurentio li prenominati Arcimbaldo e Antonio Piloso, ge gli debiate dare et assignare et dargli ogni adiuto et favore che ve rechederano per condure quelli là dove li havemo ordinato”. A proposito di Lorenzo da Orvieto, nel verso della carta 80 del Registro 44 la missiva citata in precedenza a Ludovico di Savoia è seguita da una datata 23 settembre con lo stesso destinatario, che viene avvisato dell’invio del “dilectum familiarem nostrum Laurentium de Urbeveteri”. A questo punto riteniamo necessario considerare il verso della carta 347 del Registro 38. Nella seconda lettera, diretta “Capitaneo iustitie Mediolani”, datata 22 settembre e inviata da Lodi, si legge: “Siamo contenti et volemo che non debiate fare novitate alcuna ne la persona de Iacomo Bellono, barbero destenuto presso vuy ad instantia del reverendissimo monsignore arcivescovo, finché seremo lì et haverete altro da nuy in commissione”. La missiva pare del tutto innocua, tuttavia essa non è seguita da un’altra lettera, bensì solo dall’indicazione del destinatario depennato “Laurentio de Urbeveteri”, ossia colui che secondo la missiva “Capitaneo citadelle et castellano Novarie” doveva consegnare “Arcinbaldo et Antonio Piloso” a Novara insieme a “Iacomo Filipo Malumbra” e “Zentile de la Molara”. Il riferimento in essa a “Iacomo Bellono, barbero”, detenuto presso il capitano di giustizia di Milano, pare pertanto alquanto sibillino e lo diventa ancora di più se si considera che la lettera successiva al destinatario depennato è diretta “Marco de Tortis, potestati Novarie”, ossia appunto la città dove dovevano essere portati “Arcinbaldo et Antonio Piloso”. Riteniamo pertanto possa essere utile proseguire nell’approfondimento. Nella missiva al podestà di Novara, datata anch’essa 22 settembre e inviata da Lodi, è scritto: “Mandiamo da ti Laurenzo de Berardino, nostro famiglio presente exhibitore, per el dicto de certi testimonii ne la materia che da luy intenderai. Pertanto volemo per quanto hay cara la gratia nostra debii exequire quanto esso Laurenzo te dirà, il che tucto faray in scripto et cum participatione del advocato et del sindico de la Camera nostra lì”. Il fatto che in essa si parli di una persona il cui nome è “Laurenzo”, ossia lo stesso di Lorenzo da Orvieto, insospettisce ancora di più, anche alla luce della lettera seguente, diretta “Domino episcopo Mutine ac Consiglio nostro secreto”, sempre datata 22 settembre e spedita da Lodi. In essa si legge: “Vederiti quanto ne scriveno Pedro Cota et domino Sillano per sue lettere de dì XX del presente circa el non havere havuto risposta dal governatore de Vercelli per le differentie de quelle confine”. Nelle parole che precedono l’aggettivo possessivo “sue” non pare corretto, perché le “lettere” sono state scritte da due persone, per cui l’aggettivo dovrebbe essere “loro”. L’impressione che si ricava è che si voglia far intendere che si è in presenza di due soggetti che in realtà sono uno solo e il punto centrale sembra essere il riferimento al “barbero”, termine da considerare un’allusione ad Antonio Peloso, da identificarsi con Arcimbaldo. L’ipotesi pare confermata dall’esame di alcune missive. Il 23 settembre Giovanni Giappano scrive da Milano: “Quando me partì da la signoria vostra, Lorenzo de Berardino, secundo l’ordine preso, dovea venire a Milano cum mi per andare una cum Gentile da la Mollara per lo facto de Arcimbaldo et secundo che esso Lorenzo me disse gli besognava andare fino a San Columbano a tore alcune cose necessarie, dovendo andare fuora del paese, et che heri matina infallanter vignaria qui, et tamen né heri né hogi, fino a questa hora XIIII°, non è mai venuto. Non so se la signoria vostra l’abbia facto retardare et che gli sia intervenuto qualche sinistro o quel che se sia. Fino heri Gentile, per anticipare tempo, andò ad Vigevano et da lì non se partirà né farà cosa alcuna mentre che dicto Lorenzo non gionga là, perché le lettere et la instructione sonno facte in persona de tuti dui, como fo ordinato”. Quello che si può inferire è che il 23 settembre, “fino a questa hora XIIII°”, “Lorenzo de Berardino” non si sia presentato a Milano perché il duca, come risulta nella missiva al podestà di Novara datata 22 settembre citata sopra, lo aveva inviato appunto a Novara. In alcune lettere, però, questo fatto produce ambiguità piuttosto significative. Il 24 settembre Giovanni Giappano invia un’altra missiva da Milano in cui scrive quanto segue: “Da Gentile da la Mollara in questa hora ho ricevuta la lettera quale mando a la vostra signoria qui alligata cum uno mazo in el quale, secundo lui mi scrive, è incluso lo examine de Arcimboldo, facto per lui solo perché Lorenzo tardava ad andare. […] aviso la vostra signoria come ale XVIII hore si partì de qui Iacobo Malumbra et Laurentio et ad ogni modo hogi seranno ad Vigievano. Et così mi, fina questa matina, per uno cavallaro ad posta avisai Gentile che non se movisse de lì, perché li dicti Iacobo et Laurentio questa sera serebbeno là”. Come si può notare, viene utilizzato lo stesso nome nelle forme “Lorenzo” e “Laurentio”, ma esso non può che riferirsi a due persone diverse. “Lorenzo”, infatti, è “Lorenzo de Berardino” di cui parlava Giovanni Giappano nella sua lettera del 23 settembre, precisando che “hogi, fino a questa hora XIIII°, non è mai venuto”: evidentemente, benché lo stesso Giappano precisasse che “Fino heri Gentile, per anticipare tempo, andò ad Vigevano et da lì non se partirà né farà cosa alcuna mentre che dicto Lorenzo non gionga là, perché le lettere et la instructione sonno facte in persona de tuti dui, como fo ordinato”, alla fine, poiché “Lorenzo tardava ad andare”, Gentile della Molara deve avere deciso di fare da solo “lo examine de Arcimboldo”, che infatti risulta effettuato il 23 settembre da Gentile della Molara “in castro Viglevani”, come risulta dal documento che appunto contiene l’”examinacio”; “Laurenzo” è invece Lorenzo da Orvieto. L’ambiguità è presente anche nella lettera del 24 settembre inviata da Milano da Giacomo Filippo Malombra, nella quale egli scrive che la sua “comissione” “è de non dare Arcimbaldo senza quela ratificatione de domino Thomase da Rieto, avisando la vostra signoria che Zintile è già partito cum cummissione et instructione a luy fata e data per Iohanne Giappano, la qual è da dare et assignare Arcimbaldo cum primum lo haverà examinato et non fa mentione de ratificatione da essere domandata etc., benché la comissione non sia pur in luy solo, ma etiam in Laurenzo. Pur, dubitando non volesse procedere luy solo per parere activo, io et Laurenzo gli coremo et, se possibille è, gli volamo dreto”. Anche in questo caso il nome “Laurenzo” non può che riferirsi a due persone differenti. Il primo “Laurenzo”, infatti, è “Lorenzo de Berardino”, di cui parlava Giovanni Giappano nella sua missiva del 23 settembre, precisando che “le lettere et la instructione sonno facte in persona de tuti dui”, ossia appunto “Lorenzo de Berardino” e Gentile della Molara; il secondo “Laurenzo” è invece Lorenzo da Orvieto. Per sottolineare la differenza fra i due “Laurenzo”, la lettera “L” del primo è resa graficamente in modo diverso rispetto a quella del secondo: a parte il fatto che essa pare scritta su una “B”, la linea orizzontale che la compone è infatti sensibilmente allungata. La lettera di Giacomo Filippo Malombra pone però anche un altro problema. Quanto infatti egli scrive che la sua “comissione” “è de non dare Arcimbaldo senza quela ratificatione de domino Thomase da Rieto, avisando la vostra signoria che Zintile è già partito cum cummissione et instructione a luy fata e data per Iohanne Giappano, la qual è da dare et assignare Arcimbaldo cum primum lo haverà examinato et non fa mentione de ratificatione da essere domandata”, contrasta di nuovo con quello che è scritto nell’istruzione dello stesso Giacomo Filippo Malombra, nella quale si legge che, una volta ottenuta la ratificazione “libera del contracto facto in la facenda d’esso domino Thomase”, Francesco Sforza vuole che egli ritorni a Vercelli e da lì scriva a Gentile della Molara “ch’el conduca a Verceli e lo consigni in mane de chi ordinarà la sua signoria”. In ogni caso, a parte questa considerazione, la missiva del 25 settembre inviata “Ex arce Viglevani” da “Laurentius, Gentilis, Iacobus” pare confermare quanto affermato sopra in merito al nome Lorenzo. In essa si legge: “Heri giongesemo qua nuy, Laurentio e Iacomo, a bon hora et, siando mi Zintile venuto prima, mandato molto in freta per Iohanne Giappano in nome de vostra excellentia, subito a bona fede, per anticipare el tempo, examinay Arcimbaldo più diligentemente che sape o pote segondo el tenore de la instrucione a me data et mandaila cum mia lettera sigillata a la vostra clementia”. Nel prosieguo della missiva si legge: “Nunc, non perché la instrucione de Iacomo Malumbra è più copiosa e contene molto più parte, havimo rehauto a nuy el prefato Arcimbaldo et fatolo protestare et afermare quanto haveva già ditto et ultra l’havimo domandato de quanto se contene in la dita instrucione de Iacomo generalmente, particularmente e cum molta diligentia, non gli lasando mancare alcuna cosa. Et luy ha ditto quanto vederà la vostra signoria per la inclusa, autenticata in modo che faria fede et in forma de instrumento, protestando luy e iurando, como ben appare, che tuto dice per la mera e pura veritate. Et cussì mostra nel parlare suo dire voluntera per compiacere ala vostra excellentia, ala qual quanto più pò se ricomanda. E molto se realegra”. Riguardo alle parole sopra riportate occorre notare che subito dopo “Nunc” vi sono le lettere “no” con un segno abbreviativo. Il termine pare pertanto consistere nell’avverbio di negazione “non”. Quanto segue sembra quindi contraddittorio: prima si afferma “non perché la instructione de Iacomo Malumbra è più copiosa e contene molto più parte, havimo rehauto a nuy el prefato Arcimbaldo et fatolo protestare et afermare quanto haveva già ditto”, poi però si aggiunge “et ultra l’havimo domandato de quanto se contene in la dita instrucione de Iacomo generalmente, particularmente e cum molta diligentia, non gli lasando mancare alcuna cosa”. Inoltre, per quanto riguarda l’“instrucione de Iacomo”, rileviamo di nuovo in modo succinto che essa pone un problema: l’istruzione, infatti, non contiene alcuna domanda da porre ad Arcimbaldo. Viene quindi naturale chiedersi, anche alla luce della considerazione già fatte sopra, quale sia la reale istruzione di Giacomo Filippo Malombra cui ci si riferisce. Incuriosisce inoltre un altro aspetto, ossia che il cognome “Malumbra” non compare all’inizio della missiva alla prima occorrenza del nome “Iacomo”, bensì alla seconda in relazione alle parole contraddittorie citate rispetto all’istruzione. Pare quindi un modo per rilevare il carattere ambiguo del nome “Laurentio” che all’inizio della lettera accompagna “Iacomo”, non perché esso sia tale in questa missiva, ma perché lo era nelle precedenti, ossia quelle datate 24 settembre di Giovanni Giappano e Giacomo Filippo Malombra menzionate prima. In tale lettera, infatti, non ci si può che riferire a Lorenzo da Orvieto, come dimostra il fatto che nella “inclusa” citata, ossia il documento che contiene quelle che potremmo definire “professioni di verità” di Arcimbaldo e Antonio Peloso, datate rispettivamente 24 e 25 settembre, fra i presenti compare “Laurentius de Urbeveteri”. Alla luce di quanto appena scritto e considerato il termine “barbero” dal quale siamo partiti non si può che notare come risultino curiose le seguenti parole: “Et hase fato radere stando de bona volia, non sapendo né corgendose luy che breviter haverà a portar litterre al vegio duca de Savoya alo inferno”, come il fatto che subito dopo si accenni ad Antonio Peloso: “Havimo anchora fato parlare Antonio Peloso, homo veramente, a nostro comprehendere, inocentissimo e puro e neto, devoto amico de Dio et del ben vire, bench’el se sia trovato anchora luy a queste noce. Dio li facia misericordia. Et, se nuy olsasemo e non dubitasemo falire, ricomandarisemo questo homo ala vostra gratia e clementia, perché se dice e comprehendese che a Centallo ha fato più bene che male”. Quindi si legge: “Nuy havimo tolto el dito de questi in quello modo che sta et non gli havimo metuto le intorogatione como se sole fare, dicendose interogatus de tali re etc., perché ne è parso più honesto torerlo in questa forma, per non mostrare che la vostra signoria havesse fato fare questa interogatione”. La lettera volge quindi al termine con le seguenti parole: “In questa hora montarimo a cavalo cum costoro per condurli a Novara et io, Iacomo, andarò alquanto inanti ad apparigiarli logiamento in castelo o citadella”. Sorge però un problema. In un’altra missiva, dopo avere scritto “Mo se partimo” prima della data “Ex arce Viglevani, XXV° septembris 1458”, Giacomo Filippo Malombra aggiunge: “Post scripta. Signore. Siando nuy per condure Antonio Peloso asieme cum Arcimbaldo, el castelano qua ha reveduto e relete tute le litterre qual gli ha scrite la vostra signoria in el fato de questi presoni et trova che la vostra signoria ge li consigna tuti duy per lettere sottoscrite de sua mane et la lettera qual gli scrive Iohanne Giappano in nome de vostra signoria in lo folio signato a Lodi non richiede se non Arcimbaldo, ex quo non havimo potuto far cussì bel verso al castelano che ce habia voluto dare Antonio, il perché bisognarà la vostra signoria gli ne scriva, dovendose menare via, altramente non lo darà. Nuy se ne andemo cum Arcimbaldo”. L’inconveniente è confermato in una lettera sempre datata 25 settembre “Ex vestra rocca Viglevani” nella quale “notarius Iacobus” scrive: “Ser Iaco[u]o Malumbra, Gentile dela Molara et Laurenzo de Urvieto me hanno requesto gli debia consignare Arcimbaldo et Antonio Piloso per man[d]a[r]l[o] via dove la vostra signoria gli ha commiso et, perché in la lectera de la signoria vostra si contene solum debia assignare Arcimbaldo et non fa mencione veruna di Antonio Piloso, et, quando me foro consignati per una vostra lectera, me havete commandato non le debia consignare ad veruno senza lectera subtoscripta de vostra propria mano, ho consignato lo dicto Arcimbaldo et Antonio Peloso no, per non errare. Et pertanto, si la vostra signoria vole se assigni a veruno, la prego se digni advisarme cum la vostra subscripcione”. Prima di procedere, vorremmo segnalare due aspetti curiosi dal punto di vista grafico della missiva sopra riportata. Innanzitutto alla fine della prima riga non è scritto né “Iacomo” né “Iacobo”: considerando i nomi successivi, fra le due “o” vi è o la “u” di “Malumbra” e “Laurenzo” oppure la “v” di “Urvieto”. Viene da chiedersi se non si voglia in questo modo ricordare l’ambiguità del nome “Laurenzo” di Lorenzo da Orvieto, con il quale nelle due lettere datate 24 settembre citate in precedenza di Giovanni Giappano e Giacomo Filippo Malombra ci si riferiva in realtà a due persone diverse. Inoltre alla fine della terza riga, subito dopo avere citato “Arcimbaldo et Antonio Piloso”, è scritto “manal” con un segno abbreviativo e una lettera finale di non facile lettura. Il buon senso suggerisce che il modo più ovvio di sciogliere il segno abbreviativo dovrebbe indurre a ottenere “mandarl”. Al proposito, però, bisogna fare un’osservazione. In questa maniera esso si riferirebbe a due lettere non successive, ossia la “d” e la “r”. Di solito, invece, nella missiva un simile segno abbreviativo viene impiegato per indicare la mancanza di una lettera o di due lettere successive, come nelle parole alla fine del testo “prego” e “sempre”. È pertanto più che probabile che in questo modo si voglia dare risalto alla parola e soprattutto al fatto che, come si è detto, l’ultima lettera è di non agevole lettura: di certo non si tratta di una “i”, come dovrebbe essere, perché presenta una sorta di svolazzo orizzontale non tipico di questa lettera; potrebbe essere una “e”, tuttavia rispetto alle altre “e” essa presenta una sorta di piccola pancia che fa piuttosto pensare a una “o” scritta particolarmente male, nonostante lo svolazzo orizzontale menzionato sopra, che in effetti farebbe pensare a una “e”. Quindi, cercando di riassumere, da una parte vi sono “Iacouo” o “Iacovo”, che paiono rimandare a “Laurenzo de Urvieto” e soprattutto al suo nome, che nelle due missive citate sopra si riferisce in modo ambiguo a due persone diverse, dall’altra all’opposto abbiamo molto probabilmente “mandarlo”, scorretto perché riferito ad “Arcimbaldo et Antonio Piloso”, come se si volesse suggerire che questi ultimi sono in realtà un’unica persona. In ogni caso, tralasciando queste considerazioni, Lorenzo da Orvieto, Gentile della Molara e Giacomo Filippo Malombra scrivono di nuovo il 25 settembre, ma questa volta da Novara, segnalando che “Havimo anchora avisato la vostra clementia che Notariacomo non ce ha voluto dare Antonio Peloso, perché la vostra signoria non ge ne ha scrito, ma solamente de Arcimbaldo, el quale havimo conduto qua a Novara e consignato in citadela al capitaneo. Et seguirimo l’ordine dato. Resta che, piacendo ala vostra signoria, essa scriva al castelano de Vigevene che ce dia anchora Antonio Peloso, como gli havimo richesto, aut che lo mandi aut che lo consigni al al podestate de Vigevano aut a Gentile, che de qui andarà a Vegevene per condurlo qua”. Al proposito in una lettera di Lanfranco Guarimberti del 26 settembre da Novara si legge: “Veduto quanto la illustrissima signoria vostra scrive al .. castellano de Novara e a mi come li nobili Iacomo Filippo Malumbra, Zentile dela Molara et Laurentio de Orvieto ne consignarano Arcimbaldo et Antonio Piloso, respondendo a essa illustre signoria, dico che i dicti hanno consignato qui solamente Arcimbaldo e quello hanno dato a mi, el quale retinerò socto tal guardia che non porà far fuga. Et de questo ne staga de bona voglia la illustre signoria vostra, benché non gli sia in questa cittadella debita presone. Farò mio debito et obedirò tucto quello me comanda. Ceterum, al’altra parte scrive essa illustre excellentia che, domandandome i dicti Iacomo Filippo, Zentil et Laurentio li prenominati Arcimbaldo et Antonio ge gli debiamo dare, io cussì farò de Arcimbaldo et alloro darò ogni adiuto e favore me recercherano per condurlo là dove la prelibata illustre signoria vostra l’à ordinato”. Nello stesso giorno Lanfranco Guarimberti scrive una seconda missiva “Ex cittadella novariensi […] hora secunda noctis” nel cui primo capoverso si legge: “Questa matina, respondendo, scripsi ala excellentia vostra como hier sera me fo consignato Arcimbaldo per Iacomo Malombra e compagni e che de lui faria bona guardia etc. E, perché essa illustre signoria me scrivea che ad omne requisicione deli suprascripti devesse alloro dare et consignare el prenominato Arcimbaldo etc., mo novamente per lo canzellero del magnifico messer Alloysi Bollaro per un’altra vostra essa illustre signoria me comanda che non debia consignare dicto Arcimbaldo se non havrò altra nova lettera dala excellentia vostra soctoscripta de soa mano propria. E cussì obedirò et tenerò stricto, secundo essa excellentia me scrive”. Sempre il 26 settembre Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra scrivono da Vercelli di essersi ritrovati con Michele Canali, “el qual era in aspectacione cum molto desiderio de havere Arcimbaldo, et subito ne domandò se havevemo conduto Arcimbaldo, segondo le promesse a luy fate per vostra excellentia, et subsequenter inmediate ne domandò se nuy l’havevemo examinato. Gli resposemo che Arcimbaldo era qui apreso et che in due hore l’haverimo qua, perché era a Novara. Domandone anchora d’Antonio Peloso, al qual dicessemo la veritate, cioè che non, ma che hozi o domane gli seria conduto, et gli narrassemo lo errore de la litterra de vostra signoria, che non parlava al castelano se non d’Arcimbaldo, quamvisdio la mente de vostra excellentia fusse de tuti duy. Ala parte se nuy havevemo examinato Arcimbaldo, gli resposeno de non et che non havevemo comissione da la vostra clementia de ciò. Luy rispose quod bene erat, perché ben gli haveva prommisso vostra celsitudine de non farlo examinare. Pur inteso luy e veduto che non havevemo conduto qua li pregioni, como luy credeva et era voce nel populo, qual era usito la cità per vederlo, tuto rimase dolente, stupefato, desperato e malcontento, dicendo che questo non era quelo gli haveva prommesso cussì giaramente la vostra signoria et ch’el parirà uno busardo al suo signore, havendoli dito tante bone cose de la vostra excellentia quante ha et acertatolo che vostra signoria infalanter et senza scropulo alcuno gli mandaria li pregioni. Et, segondo el suo dire, crede luy che questo non haverli conducti siano arte, che altro sia in la penna. Et multa dixit. Et, como quasi fusse desperato, mostrava volere montare a cavalo e venire ala vostra celsitudine. Io gli respose sempre humanamente ch’el non se dovesse turbare né credere per alcuno modo che in questa cosa se vada se non realiter et che in due hore faria venire li pregioni et ch’el non se doveria perhò tanto maraviliare de la mia honesta domanda de la retificatione, la qual non è cussì stravagante dal proposito né è deshonesta, anci ragionevole per le ragione allegate et che me rendeva certissimo ch’el suo signore non se ne piliarà tanta maravilia per le ragione prealegate”. Innanzitutto, come si può notare, la domanda di Michele Canali “se havevemo conduto Arcimbaldo, segondo le promesse a luy fate per vostra excellentia” contrasta con l’istruzione ducale per Giacomo Filippo Malombra, secondo la quale, come abbiamo già rilevato, la consegna deve essere effettuata da Gentile della Molara, al quale però, in base alla lettera datata 24 settembre dello stesso Giacomo Filippo Malombra, Giovanni Giappano risulta avere affidato un’istruzione dal contenuto piuttosto diverso rispetto a quella del medesimo Giacomo Filippo Malombra. Inoltre in merito alla consegna di Antonio Peloso si dice che “dicessemo la veritate, cioè che non, ma che hozi o domane gli seria conduto, et gli narrassemo lo errore de la litterra de vostra signoria, che non parlava al castelano se non d’Arcimbaldo, quamvisdio la mente de vostra excellentia fusse de tuti duy”. Che tuttavia l’”errore de la litterra de vostra signoria” sia alquanto sospetto lo suggerisce il testo che segue subito dopo relativo alla “parte se nuy havevemo examinato Arcimbaldo”, quando si dice “gli resposeno de non et che non havevemo comissione da la vostra clementia de ciò. Luy respose quod bene erat, perché ben gli haveva prommisso vostra celsitudine de non farlo examinare”. In realtà, come sappiamo, il 24 settembre Giovanni Giappano aveva scritto da Milano così: “Da Gentile da la Mollara in questa hora ho ricevuta la lettera quale mando a la vostra signoria qui alligata cum uno mazo in el quale, secundo lui mi scrive, è incluso lo examine de Arcimboldo”, che era stata interrogato il 23 settembre da Gentile della Molara “in castro Viglevani”. Che Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra non potessero non sapere che l’interrogatorio di Arcimbaldo era già stato effettuato è confermato dalla missiva già citata inviata “Ex arce Viglevani” da entrambi insieme a Gentile della Molara il 25 settembre nella quale si legge: “Heri giongesemo qua nuy, Laurentio e Iacomo, a bon hora et, siando mi Zintile venuto prima, mandato molto in freta per Iohanne Giappano in nome de vostra excellentia, subito a bona fede, per anticipare el tempo, examinay Arcimbaldo più diligentemente che sape o pote, segondo el tenore de la instrucione a me data”. Come si ricorderà, poi, nel prosieguo della missiva si precisava che “havimo rehauto a nuy el prefato Arcimbaldo et fatolo protestare et afermare quanto haveva già ditto et ultra l’havimo domandato de quanto se contene in la dita instrucione de Iacomo generalmente, particularmente e cum molta diligentia, non gli lasando mancare alcuna cosa. Et luy ha ditto quanto vederà la vostra signoria per la inclusa, autenticata in modo che faria fede et in forma de instrumento, protestando luy e iurando, como ben appare, che tuto dice per la mera e pura veritate”. Tornando alla missiva di Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra del 26 settembre da Vercelli in cui riferiscono del loro incontro con Michele Canali, come si è visto, a un certo punto essi risultano dirgli: “Gli resposemo che Arcimbaldo era qui apreso et che in due hore l’haverimo qua”. Il concetto è poi ribadito più avanti con le seguenti parole: “Io gli respose sempre humanamente ch’el non se dovesse turbare né credere per alcuno modo che in questa cosa se vada se non realiter et che in due hore faria venire li pregioni et ch’el non se doveria perhò tanto maraviliare de la mia honesta domanda de la retificatione, la qual non è cussì stravagante dal proposito né è deshonesta, anci ragionevele per le ragione allegate et che me rendeva certissimo ch’el suo signore non se ne piliarà tanta maravilia per le ragione prealegate”. Come si può notare, prima viene utilizzato il verbo “resposemo” alla prima persona plurale rispetto al solo “Arcimbaldo”, poi invece il verbo “respose” alla prima persona singolare in relazione alla parola “pregioni” al plurale. Inoltre il verbo “respose” è preceduto dalla seconda occorrenza nella lettera del pronome personale “Io”, ma l’identificazione di quest’ultimo non è per nulla scontata: se infatti subito all’inizio della missiva è scritto “Siamo gionti qua a Verceli io, Laurenzo, e Iacomo”, l’“Io” prima di “respose” è posto in relazione anche alla “domanda de la retificatione” concernente Tommaso da Rieti, che in base all’”Instructio” cui si è accennato sopra riguarda “Iacomo” e non “Laurenzo”. L’ambiguità è resa ancora più evidente dal fatto che poco dopo il passo citato sopra è scritto: “siamo rimasti in compositione de andare damatina un poco nanti di luy e mi, Iacomo, ad Turino”. Non si capisce pertanto perché non si sia precisato prima, in occasione della seconda occorrenza del pronome personale “Io”, che esso era riferito a “Iacomo” e non a “Laurenzo”, come per maggiore chiarezza sarebbe stato più opportuno. Il sospetto, che riteniamo piuttosto fondato, è quello già esposto, ossia che si voglia far intendere che, mentre in due missive precedenti di Giovanni Giappano e Giacomo Filippo Malombra datate 24 settembre il nome Lorenzo era utilizzato in modo ambiguo per riferirsi in realtà a due persone diverse, aspetto molto probabilmente confermato anche in una lettera del 25 settembre di “notarius Iacobus”, all’opposto i “pregioni”, ossia Arcimbaldo e Antonio Peloso, debbano essere considerati un’unica persona, aspetto sottolineato anche dal fatto già rilevato che essi sono in relazione con il verbo alla prima persona singolare “respose”, mentre in precedenza il verbo alla prima persona plurale “resposemo” era subito seguito dal nome del solo Arcimbaldo. Comunque, anche in questo caso tralasciando tali considerazioni, mentre prima si legge che la consegna a Vercelli “in due hore” di Arcimbaldo o dei “pregioni” dipende dalla “retificatione” da parte di Ludovico di Savoia, poi si leggono queste parole, dal senso nettamente diverso, e di cui ne abbiamo già menzionata una parte: “siamo rimasti in compositione de andare damatina un poco nanti di luy e mi, Iacomo, ad Turino. Et forsi lasarimo qui Laurencio, per dare più a vedere ad esso duca che gli volimo dare li pregioni, havendo lasato qua uno de quelli de vostra signoria per questa cagione. Et cum questo dice domino Michele ch’esso duca melio crederà la cosa e manco ne starà umbroxa la sua signoria. Et io forse gli consentirò a questo”. Il quadro si complica ulteriormente se si considera la seguente parte della missiva di Iob da Palazzo datata 27 settembre e inviata da Centallo: “È stato qua doy comissari dil duca di Savoia, i quay ano parlato cum ser Honorato, oratore di maiestà dil re, et cum ser Aluisse Bolero et anogli ditto che vostra signoria remete Arcimbaldo alo dicto ducha. Et in questa ano habuto grande admiratione, unde ano parlato cum mi, il quale ho risposto che non credo niente, perché credo la signoria vostra non farea niente senza farni noticia ala maiestà dil re et cossì a ser Honorato et a ser Aluisse. Anchora loro dicano non credere questo et che apena lo crederano quando lo vederano. Pura in queste parte se ne fa uno grande parlare”. Più avanti Iob da Palazzo aggiunge: “Io comprendo ben questo et questo non dico per dare leze ala signoria vostra, che, se vostra signoria fa iusticia del dito Arcimbaldo et dil compagno, voy obligati tuto questo payse per la signoria vostra e per li figloli da esser servitori e schiavi”. A questo punto si verifica un nuovo inconveniente riguardo alla ratificazione concernente Tommaso da Rieti da parte di Ludovico di Sapregionivoia. In una lettera datata 29 settembre e inviata da Torino, infatti, Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra scrivono: “Non replicando quello havimo scrito ala vostra clementia da Vigevene, Novara e Verceli, io, Laurenzo, hozi, stando nuy ala messa, vene uno cavalaro de vostra excellentia cum una lettera a me, Laurenzo, dirrectiva sopra el fatto tanto de alcuni cavali etc. Et, domandando nuy al cavalaro se haveva altre lettere, ce rispose de non et ce dise in grande secreto che bene haveva, quando s’è partiti da Milano, uno fasseto de litterre dirrective a Zintile et a nuy, ma che, havendo luy trovato in via el predito Zentile, qual veneva a Milano, gli dede le litterre et luy le apriti, le lese et se le retene, non dicendo altro se non che ce dicesse che nuy dovessemo soprasedere aut tenere la cosa in suspenso et andarci lentamente, per lo qual dire fin a mo restamo, non havendo nuy altra lettera, restiamo molto perplexi, stupefati, dubiosi e dolenti, non sapendo nuy qual sia melio: o procedere segondo la commissione nostra aut restare a parole simplice, avisando la vostra signoria che, havendo nuy la posta et afermato de andare ala sua excellentia dopoi la sua missa, no ne è parso senza scandalo de potere restare de andarci et cussì gli siamo andati, cum proposito perhò de metere qualche tempo in mezo, se havessemo potuto cum honore, ma tale è stata la humana recoligentia el dolce amore ch’el ce ha mostrato, le melliflue parole e gratissima risposta ch’el ce ha data, che non sapimo como fare, se sua signoria remane in proposito de quanto ce ha ditto, che non vegnamo ale conclusione. Nam, ultra lo honoratissimo parlare ha fato de vostra excellentia et le infinite proferte, ha dito volere far la retificatione nel fato de domino Thomase, etiam s’el non gli fusse obligata la sua signoria, et questo per compiacere voluntera ala excellentia vostra, cioè: ‘A mon cusin carissimo etc.’, per dire como dice la sua signoria”. Riguardo a quanto sopra riportato, notiamo en passant come il pronome personale “io” seguito dal nome “Laurenzo”, entrambi depennati e preceduti da “Verceli”, rammentino piuttosto da vicino la lettera del 26 settembre di Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra, prima menzionata, all’inizio della quale si leggeva: “Siamo gionti qua a Verceli io, Laurenzo, e Iacomo”, e in cui la seconda occorrenza di un ambiguo “Io”, che però non poteva che riferirsi a “Iacomo” e non a “Laurenzo”, pareva confermare il sospetto che i “pregioni” ai quali si accennava poco dopo, ossia Arcimbaldo e Antonio Peloso, fossero in realtà un’unica persona. Nella missiva del 29 settembre riteniamo pertanto che molto probabilmente con “io, Laurenzo” depennati si intenda appunto ricordare la lettera di tre giorni prima con le sue ambigue caratteristiche. In ogni caso, trascurando come in precedenza il tema relativo alla reale identità di Arcimbaldo e Antonio Peloso, torniamo alla missiva del 29 settembre. Più avanti si legge: “Credimo etiamdio che la sua signoria farà la retificatione come ditto. Se adoncha queste cose seguirano, como credimo, dicimo a nostro credere, non potrimo se non exequire la commissione nostra segondo la instructione che cussì ne comanda et ne pariria essere digni de reprehensione se lasassemo de exequire la commissione per le parole ne manda a dire Zentile, le quale non metimo perhò per niente, anci per quelle, dove forse haverissemo fato quatro milia per hora ala ritornata nostra per dare li pregioni, ne farimo pur tre o due, et hoc per aspectare qualche intellecto de le parole de Zintile. His omnibus attentis, pregamo e supplicamo, genibus flexis, ala vostra clementia che se degni avisarci se havimo a declinare in alcuna cosa da la commissione nostra o non, avisando la vostra excellentia che qua e per tuto questo paese se sta in molta expectacione che sia fato iustitia de questo Arcimbaldo, el qual fi tenuto el maior ribaldo periculoso del mondo, che non haveva compagnia se non de ladri, briachi, rufiani e traditori, homicidiarii, robatori […] Non havendo nuy altro in contrario, procederimo ultra ala dacione de Arcimbaldo et anche de Antonio Peloso, s’el serà a Novara”. Riguardo al testo della lettera proposto sopra bisogna rilevare che Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra prima parlano di “commissione nostra”, quindi scrivono: “Credimo etiamdio che la sua signoria farà la retificatione come ditto. Se adoncha queste cose seguriano, como credimo, dicimo a nostro credere, non potrimo se non exequire la commissione nostra segondo la instructione che cussì ne comanda et ne pariria essere digni de reprensione se lasassemo de exequire la commissione per le parole ne manda a dire Zentile”, ossia che “nuy dovessemo soprasedere aut tenere la cosa in suspenso et andarci lentamente”, poi parlano di nuovo di “commissione nostra”, infine si legge: “Non havendo nuy altro in contrario, procederimo ultra ala dacione de Arcimbaldo et anche de Antonio Peloso, s’el serà a Novara”. Come si può notare, si parla “di instructione che cussì ne comanda”, ma in realtà l’istruzione del 22 settembre riguarda solo Giacomo Filippo Malombra, che infatti il 23 settembre scrive: “Ego […] andarò ad exequire quanto me ha commesso l’excellentia vostra”. È vero che nella sua missiva del 24 dello stesso mese si legge: “Pur, dubitando non volesse procedere luy [Gentile della Molara] solo per parere activo, io et Laurenzo gli coremo et, se possibille è, gli volamo dreto”, ma poi in una lettera del 25 settembre di Lorenzo da Orvieto, Gentile della Molara e Giacomo Filippo Malombra si legge: “ultra l’havimo [Arcimbaldo] domandato de quanto se contene in la dita instrucione de Iacomo”. L’istruzione concerne pertanto solo Giacomo Filippo Malombra, anche se abbiamo già rilevato i non pochi problemi che la riguardano. Non può pertanto che lasciare perplessi il riferimento a una “instructione che cussì ne comanda”, ossia “ala dacione de Arcimbaldo et anche de Antonio Peloso, s’el serà a Novara”, tanto più se si considera che nell’istruzione di Giacomo Filippo Malombra viene menzionato solo Arcimbaldo e che in base a essa la consegna a Vercelli doveva essere effettuata da Gentile della Molara, il quale però nella missiva in esame di Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra, dopo avere letto “litterre dirrective” a lui “et a nuy”, risulta dire che “nuy dovessemo soprasedere aut tenere la cosa in suspenso et andarci lentamente”. In ogni caso quali fossero le “litterre dirrective” di cui sopra non è dato sapere. Sta di fatto che il 2 ottobre, “Ex cittadelle Novarie”, data topica in cui spicca l’errato microtoponimo “cittadelle”, che dovrebbe essere “cittadella”, Gentile della Molara scrive: “Mando a vostra illustre signoria la examinatione facta ad Arzimbaldo, quale trovo essere nel primo preposito et non sbariare de cosa alcuna, ma, perché nel examinare cerch’al stato de vostra illustrissima signoria vederete la resposta essere de importantia et da farne gran caso, me pare per omni via vostra prefata illustrissima signoria el voglia intendere, che per zerto ve dirrà cose che a vostra signoria serrando ultra modo grate havere intese, secundo comprendo nel so parlare […] per questo el capitanio de cita[de]lla et mi mandamo un famillio a posta con deliberatione fin a vostra resposta non pilliaremo de Arzimbaldo altro partito. Quando ben Iacomo Malombra venesse o mandasse ch’el se devesse assignare, dal qual fin in mo no ho cosa alcuna, piacendo a vostra illustre signoria intendere dicto Arzimbaldo, mi pilliarò modo honestissimo condurlo in castel porta Zobia, che no’l saperà homo che viva, o dove meglio a vostra signoria piacerà”. Lo stesso 2 ottobre Ludovico di Savoia scrive a Francesco Sforza: “Litteras vestras credentiales in personam nobilis Iacobi Filippi Malambram, cancellarii vestri, nobis delatas recepimus, cuius relatione audita eidem ratificationem compromissi in causa spectabilis domini Thome de Ariete dedimus requisitam in forma sufficienti. Et cum litteris vestris, relatione etiam spectabilis consiliarii nostri domini Michaelis de Cavalibus, nobis per vos responsum fuerit quod illos rebelles nostros Archymbaldum et Antonium Pilloxum ad nos remittebatis per dictum Iacobum Filippum et consotium in civitate nostra Vercellarum presentandos et hactenus eos non consignaverunt, rogamus ex corde ut remittantur et consignentur iuxta pollicita”. Innanzitutto può essere il caso di rilevare come anche la missiva di Ludovico di Savoia sia problematica rispetto all’istruzione del 22 settembre precedente di Giacomo Filippo Malombra. Dopo avere ascoltato la relazione di quest’ultimo, il duca sabaudo scrive infatti di avere firmato la ratificazione “compromissi in causa spectabilis domini Thome de Ariete”. Poi però Ludovico di Savoia aggiunge che “cum litteris vestris, relatione etiam spectabilis consiliarii nostri domini Michaelis de Cavalibus”, gli era stata promessa la consegna di Arcimbaldo e Antonio Peloso. Nell’istruzione, tuttavia, come si ricorderà, si legge che “per honore nostro la signoria sua volia fare la retificatione libera del contracto facto in la facenda d’esso domino Thomase […] la quale hauta […] voliamo che tu retorni a Verceli et de lì scrivi a Zintile ch’el conduca a Verceli e lo consigni in mane de chi ordinarà la sua signoria”. Quindi verso la fine è scritto: “non volendo pur la sua signoria fare la ratificatione come ditto, non volimo che tu gli daghi Arcimbaldo per cosa del mondo”. Stupisce pertanto che il duca sabaudo, dopo avere accennato alla “relatio” di Giacomo Filippo Malombra, la quale riteniamo consista nella sua istruzione datata 22 settembre, e alla ratificazione da parte sua della questione inerente Tommaso da Rieti, non riferisca nulla in merito alla consegna dei prigionieri, come era scritto appunto nell’istruzione, in cui per la verità si parlava solo di Arcimbaldo, dello stesso Giacomo Filippo Malombra, che al proposito qualcosa, per quanto limitato, dovrà pure aver detto. Ludovico di Savoia si riferisce invece a essa citando “litteris” dello stesso Francesco Sforza e la relazione di Michele Canali, secondo le quali l’invio a Vercelli di Arcimbaldo e Antonio Peloso sarebbe dovuto avvenire “per dictum Iacobum Filippum et consotium in civitate nostra Vercellarum presentandos”. Quali siano le “litteris” del duca di Milano non è dato sapere. È invece possibile immaginare qualcosa della relazione di Michele Canali grazie alla missiva di Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra inviata da Vercelli il 26 settembre nella quale prima è scritto: “subito ne domandò se havevemo conduto Arcimbaldo, segondo le promesse a luy fate per vostra excellentia”, e poi si legge: “Pur inteso luy e veduto che non havevemo conduto qua li pregioni, como luy credeva […] tuto rimase dolente, stupefato, desperato e malcontento, dicendo che questo non era quelo gli haveva prommesso cussì giaramente la vostra signoria et ch’el parirà uno busardo al suo signore, havendoli dito tante bone cose de la vostra excellentia quante ha et acertatolo che vostra signoria infalanter et senza scropulo alcuno gli mandaria li pregioni”. Le parole che precedono fanno pensare all’”instructione” cui Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra accennano nella loro lettera del 29 settembre da Torino, quando scrivono: “Credimo etiamdio che la sua signoria farà la retificatione come ditto. Se adoncha queste cose seguriano, como credimo, dicimo a nostro credere, non potrimo se non exequire la commissione nostra segondo la instructione che cussì ne comanda”, ossia “ala dacione de Arcimbaldo et anche de Antonio Peloso, s’el serà a Novara”. L’istruzione per Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra pare dunque consistere nel consegnare a Vercelli i prigionieri una volta che Ludovico di Savoia abbia fatto la ratificazione in merito a Tommaso da Rieti. Pertanto il “consotium” cui accenna il duca sabaudo non può che essere Lorenzo da Orvieto. Tuttavia, occorre notare come questa istruzione, di cui si sa ben poco oltre quanto si è scritto sopra, sia ben diversa dall’istruzione datata 22 settembre di Giacomo Antonio Malombra cui riteniamo il duca sabaudo accenni quando scrive “cuius relazione audita” riferendosi appunto a Giacomo Antonio Malombra. È pertanto inevitabile domandarsi di nuovo, come si è già fatto sopra, in cosa consista in realtà l’istruzione di Giacomo Filippo Malombra, perché l’unico punto su cui finora pare esservi certezza è la richiesta della ratificazione da parte di Ludovico di Savoia in merito alla questione di Tommaso da Rieti. Procediamo però con altre osservazioni. Come si può notare, nella missiva di Ludovico di Savoia è scritto “Litteras vestras credentiales in personam nobilis Iacobi Filippi Malambram, cancellarii vestri, nobis delatas recepimus” con l’errato “Malambram” al posto per esempio del “Malumbre” che si trova nell’istruzione del 22 settembre e del “Malumbram” che si legge nella missiva del Registro 44 con la stessa data nella quale si annunciava a Ludovico di Savoia l’invio presso di lui appunto di Giacomo Filippo Malombra. Tralasciando le lettere finali “am” dello sbagliato caso accusativo, il cui intento sembra consistere nel sottolineare le identiche errate lettere “am” precedenti all’interno del cognome, proprio queste ultime paiono interessanti, perché sembrano voler evidenziare il termine “ombra”, che risulta per così dire celato dallo sbaglio. Inoltre nelle parole “relatione etiam spectabilis consiliarii nostri domini Michaelis de Cavalibus” non può sfuggire l’errato “Cavalibus” o Caualibus” al posto di “Canalibus” con una “v” o una “u” scritta al posto della “n”, vale a dire in sostanza con una lettera rovesciata rispetto a quella che sarebbe stata corretta. Che non possa trattarsi di una “n” lo conferma l’osservazione delle altre “n” presenti nella missiva e il modo in cui lo stesso cognome è scritto in altre lettere di Ludovico di Savoia. Lascia inoltre perplessi il fatto che si dica “ad nos remittebatis per dictum Iacobum Filippum et consotium” senza precisare che quest’ultimo è Lorenzo da Orvieto, considerato che la missiva datata 23 settembre del Registro 44 in cui si avvisa del suo invio segue quella riguardante Giacomo Filippo Malombra. Bisogna poi segnalare che subito dopo il passo sopra riportato si legge: “Insu[per] [in]formavimus dictum Iacubum Filippum” con l’errato “Iacubum” al posto di “Iacobum”. In ogni caso pare che, nonostante il duca sabaudo abbia firmato la ratificazione di cui sopra, Arcimbaldo e Antonio Peloso non siano stati consegnati a Vercelli. D’altra parte, come si è visto prima, nella missiva datata 2 ottobre “Ex cittadelle Novarie” Gentile della Molara scrive: “Quando ben Iacomo Malombra venesse o mandasse ch’el se devesse assignare, dal qual fin in mo no ho cosa alcuna”. Il mancato invio a Vercelli non deve stupire, perché Giacomo Filippo Malombra e Lorenzo da Orvieto sono in attesa di informazioni da parte del duca di Milano. Nella loro lettera del 29 settembre, infatti, scrivevano: “pregamo e supplicamo, genibus flexis, ala vostra clementia che se degni avisarci se havimo a declinare in alcuna cosa da la commissione nostra o non”. Il 2 ottobre non hanno effettuato la consegna perché la risposta di Francesco Sforza ai suoi due inviati è proprio datata 2 ottobre e in essa si legge: “Questa matina havemo recevuto la vostra lettera de dì XXVIIII° del passato facta a Turino per la quale restiamo advisati de quanto in essa se contene. Et, respondendovi a la parte de le parole che vi dixe el cavallaro per parte de Zentile, che dovesti soprasedere o vero tenere la cosa in suspeso et andare lentamente, dicimo che ne meravigliamo grandemente che Zentile habia mandato a dire tal parole, perché da nuy el non ha havuto commissione alcuna, né a bocha né in scripto, de simile cosa, et, benché nuy siamo certi che vuy haverete exequito integramente la commessione che havete da nuy in consignare Arcimbaldo ad quello illustrissimo signor duca ogni volta che la signoria sua habia facto la ratificatione nel facto de domino Thomaso de Aricte, nientedimanco volemo che, se per caso vuy fusti dubiosi per la dicta ambasiata de Zentile in exequire quanto è dicto et tenesti la cosa in mane per havere da nuy chiareza, debiate consignare dicto Arcimbaldo al prefato signore, havendo facta sua signoria la ratificatione predicta et havuta, come semo certi che l’haverete havuta per lo scrivere vostro”. Alla fine della missiva si trova un post scriptum che inizia in questo modo: “Come ve scrivemo ne la littera, nostra intentione è et cossì volemo debiate exequire la commissione havete da nuy ad unguem in consignare Arcimbaldo et el compagno senza altra exceptione”. In realtà nella “littera” non si accenna in alcun modo al “compagno”, senza dire che quest’ultimo dovrebbe trovarsi ancora a Vigevano. Il 3 ottobre Gentile della Molara scrive “Ex cittadella Novarie” a Cicco Simonetta: “Mando allo illustrissimo nostro signore lo examino ha facto Arcimbaldo, sugillato et subscripto in bona forma secundo la magnificentia vostra viderà, et trovo haver dicto esso Arcimbaldo el suo dicto così qui come in Centallo. Credo seria bene ad confortare el prefato illustre signore che volesse haver dicto Arcimbaldo da lui per le cose et respecto scrivo a essa signoria”. Stupisce il verbo al tempo presente “Mando”, considerato che il giorno precedente Gentile della Molara si era rivolto al duca di Milano sempre utilizzando “Mando”, ossia in questo modo: “Mando a vostra illustre signoria la examinatione facta ad Arzimbaldo”. Il problema costituito dal tempo del verbo è sottolineato nella data, che è “die III sep octobris M° CCCC° LVIII” con le lettere “sep” depennate, a sottolineare appunto che il numero “III” indicante il giorno del mese non deve lasciare indifferenti. Lo stesso 3 ottobre Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra ricevono la missiva del duca di Milano e scrivono: “Hoxi al tardo, siando nuy spazati […] nel fato de la retificatione […] havevamo deliberato e concluso venire et exequire punctualiter, iuxta posse, le commissione nostre, ma veramente, non obstante che a nuy non parese havere errato, ma fato li comandamenti de vostra excellentia, pur venevamo de mala volia e dubiosi per la imbasata ne mandò Zintile, non pensando nuy che may se fusse mosto a quella senza commissione de la vostra clementia. Et ecce è gionto uno cavalaro cum litterre de la vostra signoria declarative de la mente sua e non ponto aliene da la commissione nostra, le qual troppo sono state a tempo: et primo per nuy, che ne hano fato revivisere et essere alegri de havere fato quello che havimo fato cum bona diligentia e fede; secundo perché questo illustrissimo signore et tuto el suo consilio ne hano fato grande festa et alegreza et molte cose ne hano dito et molto extimatola per li respecti che nuy diremo ala vostra clementia et cum instantia ne hano domandato la copia, la qual gli havimo concessa. Non poteva venire melio a tempo et infinitamente ringraciamo la vostra excellentia che ce habia levato de la mente nostra tanto scrupolo quanto ce haveva metuto altri. Andarimo adoncha a far la consignatione de li pregioni segondo l’ordine et mandarimo poco più expeditamente inanti el presente cavalaro, a ciò che, se Antonio Peloso anchora non fusse conduto da Vegieveno a Novara, la vostra clementia ge lo possa mandare”. Quando la situazione sembra prossima a risolversi, nel verso della carta 358 del Registro delle Missive 38 vi è una lettera molto ambigua diretta “Gentili de la Molaria, familiari nostro”, datata 5 ottobre e inviata da Milano, in cui si legge: “Lo illustre signore Gullielmo de Monferà mandarà lì uno memoriale de alcune cose sopra le quale vorà fosse examinato Arcimbaldo, però ti commettiamo et volemo che, havuto el dicto memoriale, subito sopra esso debii examinare lo dicto Arcimbaldo solemnemente in presentia de notaro, non ponendo però ad tortura […] Per questo non ve mutamo però la commissione et ordeni haveti de consignare dicto Arcimbaldo ad quelli del signor duca de Savoya, ymo, facto questo examine, lo consignariti secondo lo tenore d’esse nostre lettere ultime drizate ad ti, Zentile, ale quale se referimo”. Si noti innanzitutto che Francesco Sforza cita solo Arcimbaldo e non Antonio Peloso. Poi le “nostre lettere ultime drizate ad ti, Zentile” dovrebbero essere quelle cui accennano Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra nella loro missiva del 29 settembre, quando scrivono: “domandando nuy al cavalaro se haveva altre lettere, ce rispose de non et ce dise in grande secreto che bene haveva, quando s’è partiti da Milano, uno fasseto de litterre dirrective a Zintile et a nuy, ma che, havendo luy trovato in via el predito Zentile, qual veneva a Milano, gli dede le litterre et luy le apriti, le lese et se le retene, non dicendo altro se non che ce dicesse che nuy dovessemo soprasedere aut tenere la cosa in suspenso et andarci lentamente”. Abbiamo già rilevato sopra che non è dato sapere quali siano “le ‘litterre’ lette da Gentile della Molara” cui si riferiscono i due inviati ducali. Inoltre, come si ricorderà, nella sua minuta del 2 ottobre diretta a Lorenzo da Orvieto e Giacomo Filippo Malombra Francesco Sforza scrive: “respondendovi a la parte de le parole che vi dixe el cavallaro per parte de Zentile, che dovesti soprasedere o vero tenere la cosa in suspeso et andare lentamente, dicimo che ne meravigliamo grandemente che Zentile habia mandato a dire tal parole, perché da nuy el non ha havuto commissione alcuna, né a bocha né in scripto, de simile cosa”. Non si capisce quindi a quali “nostre lettere ultime drizate ad ti, Zentile” comprese fra il 2 e il 5 ottobre possa riferirsi il duca di Milano nella sua missiva dello stesso 5 ottobre presente nel Registro 38.

Molto bella la lettera diretta al duca di Borgogna, presso il quale si trovava il delfino, datata 25 febbraio 1459 presente nel Registro delle Missive 44 che riguarda la missione di Giovanni Gariboldi, che sappiamo come è stata trattata in una certa edizione di fonti di decenni fa (e non dico altro). Essa è la prima lettera registrata nel recto della carta con il numero 127, peccato che in un primo momento sia stato scritto il numero 126 e poi il 6 è stato corretto in 7. Si vuole in questo modo attirare l’attenzione sulla carta precedente, all’inizio del cui verso si trova una pseudolettera priva di data diretta “Iohanni Bechio de Calvisano, potestati Bulgari”. Anche in questo caso peccato che il testo, in modo alquanto sibillino, sia solo “Inteso quanto per”. Per comprendere la faccenda, è necessario notare che in quel periodo nel Registro delle Missive 38 il duca risulta scrivere più volte “Potestati Bulgari” in merito alla vicenda di Giuliano da Calvisano, ex podestà di “Bulgari”, ucciso da Eusebio da Laglio, che si trova in mano al commissario di Vercelli. Nello stesso Registro 38 vi è una lettera diretta appunto “Potestati Bulgari” curiosamente con due date, ossia 25 e 26 febbraio 1459, in cui invece di “Calvisano” si legge “Clavisano”, volendo far capire che la “chiave” per comprendere la vicenda sta nella lettera a Ludovico di Savoia cui si accenna nella stessa missiva, che però si trova nel recto della carta 126 del Registro 44, nel cui verso all’inizio, come scritto, si trova il sibillino mozzicone di lettera riportato sopra. In questa missiva al duca di Savoia datata 18 febbraio 1459 la vicenda di Eusebio da Laglio, assassino di Giuliano da Calvisano, “olim officialis nostri”, si incrocia con quella di Antonio Peloso, che era in mano al duca di Milano e che Ludovico di Savoia voleva gli fosse consegnato. Si legge infatti: “si vestra forte dominatio id [ossia la consegna di Eusebio da Laglio] facere distulit propter causam Antonii Pilosi”. A questo punto, cercando di essere essenziali e di limitarci ai rapporti fra “grandi”, per così dire, e ricordando che un lettore potrebbe provenire dal Registro delle Missive 38, si arriva a una lettera di Gerardo Colli copiata nel Registro 44 alle carte 135v-136r e datata 20 marzo 1459 dalla quale risulta che Ludovico di Savoia “dixit che era contento che vostra signoria facesse de dicto Peloxo como li pariva et piaciva”, aggiungendo “quod erat paratus remittere quello era ad Vercelle in prexone”, vale a dire Eusebio da Laglio. Subito dopo la lettera ricopiata di Gerardo Colli, alle carte 136v-137r vi è una missiva datata 5 aprile (e sottolineo “5 aprile”) diretta “Illustrissimo domino delfino vienensi”, che in sostanza viene avvisato dell’invio a lui di Antonio Peloso. In realtà, come dimostra la carta numerata 127, in cui però prima è stato scritto 126 e quindi il 6 è stato corretto in 7, volendo così rimandare alla carta 126, è tutta una finzione: si vuole far capire che il delfino, il duca di Borgogna, Francesco Sforza e Ludovico di Savoia sono d’accordo e che chi tira le fila del tutto è il delfino, cui Antonio Peloso viene inviato. Può essere il caso di notare che per contrasto nel recto della carta 125, ossia la carta che precede la 126 in cui vi è la missiva al duca di Savoia di cui si è scritto sopra, vi è una lettera diretta “Serenissimo .. regi francorum” e datata 17 febbraio 1459 in cui in sostanza il duca avvisa Carlo VII di avere ricevuto i suoi ambasciatori “Iohannes de Maynsi” e “Gulielmus de Thoreau”. Alla fine si legge “quemadmodum ex ipsius domini Iohannis scriptis, dicti vero Gulielmi relationibus”, perché Jean d’Amancier doveva andare a Venezia, dove peraltro morì (e in modo alquanto imprevedibile nel 1460 il re di Francia risulta considerare responsabile della sua morte Ludovico Robaudi/Robaldi, segretario del governatore francese di Asti, ma lasciamo perdere questo argomento, perché si va troppo oltre). Può essere il caso di notare che alla carte 124v-125r la missiva che precede quella a Carlo VII datata 16 febbraio è diretta “Blasio de Gradi”. Essa pare del tutto innocua, ma in realtà la precedente lettera in cui si parla di Biagio Gradi è una missiva diretta “Serenissimo domino Henrico, Dei gratia regi Anglie”, presente alle carte 116r-116v e datata 10 gennaio 1459 (giorno in cui un anno prima il duca aveva inviato le dieci prese di “polvere” a Corradino Giorgi). Poi nel verso della carta 118 vi è una missiva diretta “Commissario Vercellarum” riguardante appunto l’omicidio di Giuliano da Calvisano commesso da Eusebio da Laglio. In questo momento non sono in grado di trarre conclusioni, però il tutto è alquanto sibillino, soprattutto perché, tralasciando la lettera diretta “Lancialoto Bossio” anch’essa datata 10 gennaio che nel recto della carta 116 viene prima della missiva a Enrico VI e che presenta caratteristiche non da poco, le due carte precedenti la stessa 116 sono la 114 e la 115 strappate dal Registro 44 e che si trovano nel Codice 1595 dell’Archivio Sforzesco, nelle quali sono presenti documenti piuttosto interessanti, come l'”Instrutione data a Giovanne Gariboldo sopra facti de Provosto Borromeo” datata per errore 3 gennaio 1458, data che mi pare piuttosto significativa considerate le due missive datate 10 gennaio 1459 nel recto della carta 116, ossia quella per Lancillotto Bossi ed Enrico VI. Pensavo di approfondire la questione dell’associazione di Eusebio da Laglio, prigioniero a Vercelli, e Antonio Peloso, nelle mani del duca di Milano, ma mi pare di avere già scritto abbastanza. Dico solo che la seconda missiva nel recto della carta 127 del Registro 44, nella quale all’inizio si trova la lettera al duca di Borgogna da cui sono partito, è diretta “Carulo de Carcaranis” e datata 27 febbraio 1459. In essa si legge: “Benché siamo certi havereti inteso certo scalamento se cercha fare in le parte dellà per alcuni giotti et tristi quali vanno cerchando vivere per simile vie, nondimeno ve ricordiamo statti attento et vigile al facto vostro, perché uno simile de Arcimbaldo non vi facessi damno como feci luy ad domino Aluise Bollari”. In realtà dal contesto in cui è inserita la missiva a “Carulo de Carcaranis” è chiaro che si tratta di un modo per far capire che si sta facendo in modo di tirare fuori dai pasticci Arcimbaldo d’Abzat, anche se non è di immediata comprensione il come. Può essere il caso di evidenziare che all’inizio l’omicida Eusebio da Laglio sembra in mano al podestà di “Bulgari”, ossia di un uomo di Francesco Sforza, poi invece viene fuori che è prigioniero del commissario di Vercelli, vale a dire di un uomo di Ludovico di Savoia. La dinamica degli eventi ricorda quella della cattura proprio di Arcimbaldo da parte di Ambrosino da Lunghignana nel precedente agosto del 1458, poi preso dagli uomini di Ludovico di Savoia (non si capisce bene se dopo un accordo con lo stesso Ambrosino), quindi il duca sabaudo restituisce a Francesco Sforza Arcimbaldo, solo che gli consegna pure questo Antonio Peloso. Quindi il duca di Milano restituisce a Ludovico di Savoia Arcimbaldo, ma trattiene Antonio Peloso, che il duca sabaudo continuerà a richiedere, salvo poi nel marzo del 1459 cedere a Francesco Sforza, come si è scritto sopra, consegnandogli anche l’omicida Eusebio da Laglio, che tratteneva a Vercelli. Quale sia stata la sorte di Arcimbaldo non è scritto da nessuna parte, tuttavia quanto si legge nella lettera diretta a Ludovico Bolleri datata 11 ottobre 1458 e presente nel verso della carta 87 del Registro delle Missive 44, ossia “A la parte che ne rechiedeti che vi vogliamo fare dare la testa de Arcimbaldo et uno pezo del corpo suo, dicemo che se rendemo certi che, se la vostra magnificentia lo havesse rechiesto al .. duca de Savoya dicto Arcimbaldo vivo non che morto né in peze, la soa signoria ve ne haveria compiaciuto, perché la fosse stata certa che non gli havesti facto troppo careze et che l’havesti lassato andare. Pure, nondimeno, volendone havere qualche pezo, se rendemo certi che ad ogni vostra rechiesta vi ne serà compiaciuto”, è talmente eccessivo e assurdo che fa capire che ad Arcimbaldo non è accaduto proprio nulla e che molto probabilmente la sua sorte è legata alla vicenda di Eusebio da Laglio/Antonio Peloso, senza dire che vi è un ulteriore problema, ossia il fatto che non è ben chiaro se Arcimbaldo fosse la stessa persona che veniva chiamata Abbè (negli interrogatori lui parla del’Abbè come di un’altra persona), che alla fine di marzo del 1458 viene fatto prigioniero dal marchese di Saluzzo, il quale poi mi pare lo liberi due anni più tardi, anche se sembra venga quasi subito catturato dal governatore di Asti su mandato del re di Francia perché creava problemi. Benché gli storici (…) dicano il contrario, sono propenso a ritenere Arcimbaldo e l’Abbè due persone diverse. Inoltre sono certo che ad Arcimbaldo non sia accaduto nulla e che, come scritto sopra, la sua sorte sia legata alla conclusione della vicenda Eusebio da Laglio/Antonio Peloso. La ciccia significativa è che comunque, a conclusione di tutto questo tira e molla, nell’aprile del 1459 Antonio Peloso, a prescindere da chi fosse, sia stata inviato al delfino. Al lettore che leggeva tutto ciò nel Registro delle Missive 44 provenendo dal Registro 38 non sfuggiva di sicuro l’avvertimento che gli si voleva inviare.

Accennare a Ernesto Sestan e ai problemi posti dai documenti riguardanti Provosto Borromeo nella sua pubblicazione dei Carteggi diplomatici fra Milano sforzesca e la Borgogna. Come spiegheremo, per far tornare i conti rispetto all’“Instructio data a Giovanne Gariboldo sopra facti de Provosto Borromeo”, presente nel verso di una carta numerata 114 e nel recto di una con il numero 115 (entrambe strappate dal Registro delle Missive 44) ed erroneamente datata 3 gennaio 1458, perché l’anno sarebbe il 1459, lo studioso non ha pubblicato la lettera qui sotto diretta “Domino Filippo, duci Burgundie”.

Come data dell’“Instructio” Sestan segnala il 3 gennaio 1458, non precisando che la missiva successiva, collegata alla stessa “Instructio”, è datata 3 gennaio 1459. All’inizio di quest’ultima, scritta nel recto della carta 115 e diretta al duca di Borgogna e, come si legge alla fine del testo, “in simili forma” a Ludovico di Savoia, al delfino Luigi e al maresciallo di Borgogna, è infatti scritto “Mittimus ad excellentiam vestram dilectum familiarem et civem nostrum mediolanensem Iohannem de Gariboldis, harum exhibitorem, pro re quadam super qua nonnulla nostro nomine illi explicabit”.

Si noti che a differenza di altri documenti Sestan ha pubblicato la lettera a pagina 65 non segnalando i tre destinatari indicati in calce alla missiva. Può essere il caso di osservare che nell’indicazione del delfino come destinatario la parola “primogenito” si trova come riquadrata una riga sotto rispetto alle altre parole, alla stessa altezza della riga nella quale come destinatario è indicato il maresciallo di Borgogna, cui è riferito l’aggettivo “nro” privo di segno abbreviativo. Inoltre, come è possibile vedere nelle immagini sotto, nel recto e nel verso della successiva carta 116, appartenente al Registro 44, vi è una missiva diretta “Serenissimo domino Henrico, Dei gratia regi Anglie”, datata “X ianuarii 1459”, quindi come il documento sulla polvere di un anno prima, al termine della quale in modo piuttosto insolito la sigla “Io” per “Iohannes” del secondo cancelliere risulta leggermente più in alto dell’abbreviazione “Iri” del primo cancelliere “Irius”, disposta pertanto al contrario rispetto a come dovrebbe essere.

Accennare a Paul M. Kendall e Vincenti Ilardi in merito ai rapporti fra il delfino e Francesco Sforza nei primi mesi del 1459. Qui si può anticipare che nella nota 1 a pagina 268 di Dispatches with Related Documents of Milanese Ambassadors in France and Burgundy, 1450-1483 i due studiosi scrivono: “In the course of the year 1459, the Dauphin and the Duke of Milan had been exchanging messages with a view to establishing some sort of formal tie. The surviving evidence is rather enigmatic, but it appears that the Dauphin initiated this move, using as intermediary a somewhat mysterious figure, Tristan de Mainmont [Sforza to the Dauphin, Milan, May 25, 1459, Reg. Missive 44, fol. 153r]”. In realtà la missiva diretta al delfino si trova alla fine del recto della seconda carta numerata 153. In effetti stupisce che Kendall e Ilardi si siano limitati a scrivere che “The surviving evidence [degli scambi di messaggi tra Francesco Sforza e il delfino] is rather enigmatic” e non abbiano notato che la carta 153 è seguita da una numerata 154 e che dopo si trovano altre due carte numerate 153 e 154, senza dire che, facendo un piccolo e non faticoso passo indietro, nel verso della carta 136 e nel recto della carta 137 i due studiosi avrebbero trovato la lettera al delfino datata 5 aprile 1459 riguardante l’invio presso di lui di Antonio Peloso. Può essere il caso di precisare che per via delle caratteristiche del numero 5 delle carte 150 e 154, che è un 5, pur non potendosi negare una qualche somiglianza con il 3, e del numero 3 della carta 153, che è senza dubbio un 3, la carta 153 bis, in cui vi è la missiva per il delfino Luigi, potrebbe essere numerata anche 155, perché il secondo e il terzo numero, che paiono identici, sono più simili al 5 delle carte 150 e 154 che al 3 della carta 153. Tuttavia, in teoria, assomigliando il 5 in questione anche a un 3, come si è detto, non si potrebbe escludere l’improbabile numero di carta 133.

Sarebbe pertanto necessario un attento esame del Registro delle Missive 38. Certo non può essere considerato particolarmente soddisfacente quanto scrive Franca Leverotti alle pagine 180-181 de Diplomazia e governo dello stato. I “famigli cavalcanti” di Francesco Sforza (1450-1466) a proposito di Corradino Giorgi prendendo spunto da alcune carte di tale Registro: trascurando le imprecisioni, la sostanza è che nel suo testo in modo alquanto bizzarro la studiosa riporta l’esatto contrario di quanto si può leggere nelle carte in cui si parla dell’ambasciatore ducale inviato in Savoia, ma di questo tratteremo in un altro momento (ora può essere sufficiente confrontare quanto scritto qui nella nota 1 con le missive dirette al Consiglio segreto pubblicate sotto).

Rilevare come a partire dalla nota 197 a pagina 82 di Franca Leverotti, nella quale fra l’altro a causa di un refuso si indica il Registro delle Missive 30 e in cui la studiosa anticipa quanto poi sbagliando scriverà alle pagine 180-81, Catherine Fletcher a pagina 84 di Diplomacy in Renaissance Rome. The Rise of the Resident Ambassador non solo menziona l’errata lettura di Franca Leverotti, ma a sua volta inventa di sana pianta che “the secret council of Milan sought to send one Corradino Giorgi to the court of France”, che è l’esatto contrario di quanto è scritto nel Registro 38, nel quale si legge che “per voy ne fo laudato el mandare solamente al prefato duca et non ala prefata maiestà” (si vedano la terza e la quarta immagine subito qui sopra).

Cerchiamo ora di riassumere: con la sua Resurrezione il delfino Luigi ha liberato Ludovico di Savoia e si è alleato con Francesco Sforza, quindi si fa capire al lettore che la sua Ascensione al trono non è lontana, con tutti gli avvertimenti politici del caso, sia nel presente sia una volta che egli sarà divenuto re. Nel presente gli effetti dell’attività del delfino non si limitano tuttavia ai due appena menzionati. Come detto, il duca di Milano e quello sabaudo fingono di essere in contrasto, ma in realtà si stanno alleando; Alfonso d’Aragona (e con lui Callisto III) finge di intervenire a favore di Francesco Sforza contro Ludovico di Savoia, ma in realtà è d’accordo con entrambi i duchi. Si arriva così all’informazione contenuta nella lettera datata 8 giugno di Antonio da Cardano, l’ambasciatore inviato al posto di Corradino Giorgi, che nella “storia alla rovescia” apparentemente fallisce la sua missione (come si ricorderà, nella minuta del 13 maggio Cicco Simonetta gli scrive: “pare siati stato delezato lì, però che cosa ve sia stata promessa et dicta lì et che voi habiati scripto qua non è mandata ad executione”), ossia che “Guillielmo di signori de Antesano, prexo ha Taurino, che vene de presente dal Delfinato, ha intexo da Gabriel de Bernezio, signore de Targi, quale è camererio e del Consilio dela maiestà del re de Franzia e che andava dal re de Franza per parte de monsegnore de Giaton, gubernatore del Delfinato, che dito .. gubernatore sa che lo .. duca de Borgogna, lo re de Inglitera, la maiestà del re de Aragona e lo .. duca de Savoya hano fato liga insema et che adesso l’ambasaria del .. duca de Savoya va Milano per fare liga cum l’illustrissimo signore duca de Milano a destructione del re de Franza”. Anche se di questa informazione tratteremo in modo dettagliato in un altro momento, qui preme rilevare che si tratta di ben più di una voce: in una minuta di Giacomo Ventura, podestà delle località toscane di Campi e Signa, datata 4 luglio e diretta a un destinatario non precisato si legge infatti che “Per la morte del re [d’Aragona] è finita la Lega di Borghogna et è d’accordo col re di Francia. Et a facti del dalphyno hanno preso buona forma”, mentre in una lettera del 9 luglio lo stesso Ventura riferisce al duca di Milano che “Borgogna, che è in bonissima dispositione con la sacra maestà del re di Francia per la morte del re da Raona, suo collegato, di che perde riputatione assai, ora di miglior voglia viverrà. Inghilterra in tribulationi si trova”. Anche per la notizia riportata nella missiva di Antonio da Cardano vale dunque l’assioma espresso da Cesare Segre secondo cui “un messaggio è tanto più informativo quanto meno prevedibile”. Si consideri inoltre che la lettera dell’8 giugno in cui essa si trova è la penultima inviata da Antonio da Cardano (l’ultima è datata 13 giugno). Risultano pertanto quanto mai pertinenti le parole che si possono leggere alle pagine 37-38 de Avviamento all’analisi del testo letterario: “sono stati […] studiati i modi […] di trattare l’inizio e la conclusione delle composizioni […]: nel complesso, essi mostrano la cura di presentare e, rispettivamente, concludere il mondo […] istituito nel testo stesso, già indicando in partenza il tipo di sviluppo che è lecito attendersi, e viceversa sottolineando, sul finire, la tonalità con cui si vuole che sia rimeditato tutto lo sviluppo testuale”. L’informazione quindi conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che il racconto che la precede si configura come una “storia alla rovescia“, nel caso fosse necessario da esibire, in modo da avvertire Carlo VII (e i suoi potenziali alleati) che per le sue prossime mosse in politica estera, rispetto sia al ducato di Savoia sia al regno di Napoli, avrebbe dovuto tenere conto della Lega di Borgogna. Di quest’ultima incuriosisce senza dubbio la beffarda “storia alla rovescia” con cui si intende rivelarla, ma non la sua stipulazione. Alle pagine 158-159 de The Italian League, Francesco Sforza, and Charles VII (1454-1461) Vincent Ilardi scrive infatti: “It will be recalled that during 1456 Louis’ relations with his father had deteriorated to such an extent that the former had been forced to leave Dauphiné and take refuge at Genappe in Brabant under the protection of the Duke of Burgundy. From his new headquarters, Louis kept in contact with all the enemies of the king, and particularly with the Yorkist leaders in England – the Duke of York and the war hero, the Earl of Warwick – who wished to dethrone the semi-demented Lancastrian King, Henry VI, and his unpopular queen, Margaret of Anjou, daughter of René. The War of the Roses, as this struggle is commonly known, greatly affected the lingering Anglo-French conflict, for the Lancastrians advocated a more moderate policy towards France while the Yorkists championed a more aggressive prosecution of the war. Under these circumstances it is not surprising to find that Charles VII was in full sympathy with the Lancastrian party headed by the Angevin queen and the Duke of Somerset”. A pagina 163 lo studioso aggiunge: “It appears then that by the summer of 1460 the Duke of Milan had succeeded in encircling France with a chain of allies and friends which included Edward IV in England, the dauphin and the Duke of Burgundy in France, his supporter Antonio di Romagnano in Savoy, and John II in Aragon. By the same token, Charles VII could count on the traditional ally of France against England, Scotland; the Lancastrian party in England; and the King of Castile. The Neapolitan war had become a factor in a European struggle for power, a fact that has not been sufficiently realized by historians”. La Lega di Borgogna anticipa dunque quanto secondo Vincent Ilardi sarebbe avvenuto “by the summer of 1460”. In ogni caso, come accennato, di essa tratteremo in modo più dettagliato in un altro momento, quando rispetto alla stessa Lega approfondiremo anche le parole sopra riportate dello studioso americano. Qui ci limitiamo a osservare che evidentemente quanto scrive Vincent Ilardi pare in contraddizione con la presenza nella Lega di Borgogna del “re de Inglitera”, ossia di Enrico VI: esamineremo anche tale aspetto.

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Una spiegazione sul perché la Pasqua sia così importante nella documentazione in esame [da completare]

Nel testo che segue cercheremo di spiegare il motivo per cui nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi, suo ambasciatore in Savoia fra la fine del 1457 e i primi cinque mesi del 1458, ma per la verità non solo in essa, siano così importanti la Pasqua e quindi la Resurrezione di Gesù insieme ad altri eventi legati alla sua vita (dalla Trasfigurazione all’Ascensione), come mai a sottolineare appunto questa rilevanza fra i tre libri richiesti dal duca sabaudo a quello di Milano vi sia la Bibbia e perché venga instaurata un’identificazione fra Cristo e il delfino Luigi, in esilio presso il duca di Borgogna e fortemente ostile al padre Carlo VII. Come detto più volte, la corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi si configura come una “storia alla rovescia”, un falso quindi, che doveva essere esibito agli ambasciatori del re di Francia e veneziani eventualmente giunti a Milano al fine di inviare una serie di avvertimenti politici, come dimostra il fatto che ai ff. 323v-324r del Registro delle Missive 34 è presente una lettera diretta all’ambasciatore prossimo alla partenza per la Savoia in cui Corradino Giorgi viene nominato al contrario, ossia “Georgio de Conradinis parte Cichi“. Si consideri, inoltre, per non lasciare spazio a dubbi, che la lettera successiva del Registro 34 è nientedimeno che diretta a Carlo VII, ma non è questo che ora vogliamo approfondire, anche se è necessario chiarire che, per quanto si sia in presenza di una “storia alla rovescia”, essa lascia trasparire quanto accaduto in quel periodo, vale a dire che grazie all’intervento del delfino Luigi e di Francesco Sforza Ludovico di Savoia si è sottratto dalla condizione di “subiectione” rispetto al re di Francia. Il momento in cui nel consiglio sabaudo il partito anti-Carlo VII prende il sopravvento è il 28 marzo 1458, come scritto chiaramente in una missiva di Corradino Giorgi datata proprio 28 marzo, tuttavia i suoi rappresentanti non potevano muoversi liberamente, perché la parte avversa, per quanto in difficoltà, soprattutto per via delle cattive condizioni di salute del re, era pur sempre presente e continuava la sua occhiuta sorveglianza. Non era dunque possibile agire come se niente fosse: non si poteva liberare di punto in bianco Ludovico Bolleri (il personaggio fatto imprigionare da Carlo VII, che dà mandato al filofrancese maresciallo di Savoia Jean de Seyssel di catturarlo in quanto egli faceva da tramite fra suo figlio, Francesco Sforza e altri) e non era possibile per il duca sabaudo inviare a Milano ambasciatori a trattare liberamente un’alleanza con Francesco Sforza. Fu così necessario simulare contrasti: Ludovico Bolleri viene liberato un mese dopo, il 28 aprile, ma in base a condizioni che il duca di Milano non è disposto ad accettare e addirittura nell’aprile del 1458 il duca sabaudo attacca altre terre dello stesso Ludovico Bolleri e di Onorato Lascaris, conte di Tenda. Per comprendere la finzione complessiva, si consideri che questi ultimi due personaggi non erano solo vicini politicamente a Francesco Sforza, ma in una lettera di Angelo Acciaioli datata 19 aprile e diretta al duca di Milano vengono definiti senza mezzi termini “amici” del delfino. In sostanza il duca di Savoia attacca i suoi liberatori, ma questo passaggio è necessario per via della presenza dei filofrancesi, le “guardie” del documento intitolo “Lo modo da dare la polvere da fare dormire le guardie etc.“, che al livello di Ludovico Bolleri si configurano senza dubbio come i suoi carcerieri, ma al livello di Ludovico di Savoia alludono appunto ai filofrancesi del partito guidato da Jean de Seyssel. E non doveva trattarsi di “guardie” particolarmente benevole con i propri avversari: in una minuta del 6 aprile 1458 Francesco Sforza non accoglie la richiesta del sabaudo “Claudio de Langino” di una “lettera de familiarità” che gli permettesse di recarsi a Milano per trattare dell’alleanza con il duca perché fra gli altri motivi ne potrebbe derivare per lui “scandalo e periculo”. Inoltre nella copia di una lettera a Cicco Simonetta datata 20 marzo Pietro Beccaria, dopo avere riportato parti di un colloquio molto interessante con l’arcivescovo di Sant’Antonio di Vienne, nel Delfinato, amico sia del delfino sia di Ludovico Bolleri, conclude pregando che “queste cose non passeno vostra magnificentia, maxime che siano havute dal dicto monsignore, il quale seria in pericolo della vita quando se sapesse che per luy se revelassero queste nove”. Il clima politico complessivo pare dunque piuttosto chiaro. Ma veniamo al tema iniziale: come mai il delfino Luigi viene identificato con Cristo, dando alla Resurrezione un significato di liberazione? Per rispondere a questa domanda, è necessario considerare che negli anni precedenti vi erano già stati tentativi di avvicinamento fra il delfino, Ludovico di Savoia e Francesco Sforza. In una lettera datata 20 febbraio 1455 il figlio di Carlo VII, che non era ancora in esilio presso il duca di Borgogna, ma risiedeva nel Delfinato comunque ben lontano dal padre, avvisa Francesco Sforza dell’invio a Milano del cipriota Guiotino de Nores, molto vicino ad Anna di Cipro, moglie di Ludovico di Savoia, con l’incarico di parlare al duca di vari argomenti, fra i quali il matrimonio fra Maria, figlia di Ludovico di Savoia, e suo figlio Galeazzo Maria. Il 15 marzo il delfino scrive di nuovo al duca di Milano che Guiotino de Nores riferirà a voce altri temi. La reazione del re di Francia però non si fa attendere ed è anzi pressoché immediata. Il 18 marzo Carlo VII manda infatti a Milano Guglielmo Toreau, suo notaio e segretario, al quale è affidato il compito di riferire su vari argomenti secondo l’istruzione a lui data. Della lettera del re di Francia è presente presso l’Archivio di Stato di Milano l’originale, poi c’è la copia semplice coeva che si può vedere alla pagina 91v del Codice 1595 dell’Archivio Sforzesco il quale si trova alla Biblioteca nazionale di Francia. Sempre presso l’Archivio di Milano è reperibile la traduzione in italiano dell’istruzione originale in francese, che è andata perduta. Inoltre alle pagine 91v-92r-92v del citato Codice 1595 si trova una copia registrata della traduzione dell’istruzione. All’inizio della traduzione presente presso l’Archivio di Milano, peraltro quasi del tutto identica a quella nel Codice 1595, si descrive lo stato insoddisfacente dei rapporti fra Carlo VII e suo figlio Luigi, quindi si legge che “el prefato signore re è stato avisato che alcuni, che non voriano puncto che lo dicto monsignore lo delfino se reducesse ad bona obedientia del prefato re, come ragionevolmente è tenuto de fare, se sforzano de trovare maynera de condure et tractare certe lighe, pacti et intelligentie tra monsignore delfino, lo dicto conte [Francesco Sforza] et altri de le parte de là”. Verso la fine dell’istruzione si precisa che “lo predicto nostro signore re desideraria ben sapere la veritate in la materia soprascripta, per havere tale aviso et, s’el è bisognio, per dare tale provisione quale vederà essere da fare, perché lo re ha bene intentione de disponere al piacere de Dio talmente sue facende che quelli che voriano sotto umbra de le dicte lighe o altramente intraprendere de fare qualche cosa a sua displicentia et in suo preiudicio non gli avrano puncto davantagio”. Il una minuta datata 12 aprile, di cui vi è la copia registrata alle pagine 92v-93r del Codice 1595, il duca di Milano scrive a Carlo VII quanto segue: “Intellexi ea que vir egregius magister Guilielmus Toreau, maiestatis vestre secretarius, quem vestra serenissima maiestas cum suis credentialibus litteris et quadam instructione huc misit, plane mihi exposuit, ob que eadem vestra serenitas suspicari videtur quod ego intelligentiam atque ligam ineam et faciam cum illustrissimo domino delfino, primogenito vestro. Breviter ergo respondendo, eandem vestram celsitudinem aviso atque certifico quod, cum intelligam et plane comprehendam eandem ligam et intelligentiam molestam fore celsitudini vestre, ego eam nullatenus inirem neque facerem”. Per comprendere chi siano quegli “altri de le parte de là” cui si accenna nella traduzione dell’istruzione per Guglielmo Toreau sopra riportata, bisogna attendere il 23 luglio, quando Francesco Sforza, rispondendo a una lettera dell’8 dello stesso mese del medesimo Guglielmo Toreau, gli scrive: “Suadit in calce litterarum suarum vestra nobilitas ei relatum esse quod confederationes inite et concluse fuerunt inter illustrissimum dominum delphinum et ducem Sabaudie et nos, de quo a nobis certior reddi desiderat. Pro cuius rey delucidatione dicimus et affirmamus vobis nullas confederationes seu intelligentias nobis esse cum ipso domino delphino, nisi quod eum singulari amore et honore prosequimur, intuitu et contemplatione serenissime maiestatis regis patris sui. Cum illustri domino duce Sabaudie nobis est pax, amicitia et fraternitas, et inter ipsum et nos nihil novi est. Nec enim inmutata est nobis ea sententia quam multis efficacissimis rationibus vobis declaravimus, nec unquam accidere poterit ut a fide et devotione nostra in serenissimam regiam maiestatem et christianissimam domum suam aliqua via flectamur. Qui autem aliter vobis dixerint, longe aberrant et falluntur. Itaque intrepide et indubitanter sacre regie maiestati hec omnia referre poteritis, ita ut intelligat nos illum esse serenitatis sue servitorem qui semper fuimus et de nobis et statu nostro agere et disponere posse non secus ac de rebus suis propriis”. Con gli “altri de le parte de là” ci si riferisce dunque a Ludovico di Savoia. Pare dunque che nel 1455, almeno fino a luglio, siamo al punto in cui ci si sarebbe trovati poco più tardi, vale a dire tra la fine del 1457 e i primi mesi del 1458. Torniamo però alle due traduzioni in italiano dell’istruzione per Guglielmo Toreau. Vi è un altro aspetto molto interessante oltre al contenuto, ossia il fatto che nella datazione di entrambi i documenti è adoperato lo stile della Pasqua (detto anche francese): la data riportata è infatti “XVIII de marzo 1454”, non 1455. Secondo lo stile della Pasqua l’anno comincia dal giorno di Pasqua, posticipando sullo stile moderno, al quale corrisponde da Pasqua al 31 dicembre. Nel 1455 la Pasqua cadde il 6 aprile, per cui secondo lo stile francese il 18 marzo si era ancora nel 1454. Si potrebbe obiettare che le due istruzioni sono traduzioni e non il documento originale. Tuttavia, per questo motivo non si può certo ipotizzare che l’indicazione dell’anno “1454” non fosse presente nell’originale e sia stata introdotta di sua volontà dal traduttore. In realtà la presenza dello stile della Pasqua è estremamente significativa, perché vuol dire che aveva colpito appunto il traduttore, che pertanto lo aveva riportato senza “innovare”, per così dire. In base alla consultazione di un buon numero di carteggi del periodo tra Milano e la Francia riteniamo ragionevole affermare che le traduzioni dell’istruzione di Guglielmo Toreau siano gli unici documenti in cui si segue lo stile della Pasqua. Diviene quindi inevitabile domandarsi la ragione di questa particolarità. La ragione pare piuttosto chiara: Carlo VII vuole far capire al duca di Milano e a chi per lui che in Francia si è ancora nell’anno “vecchio”, ossia nel “suo” tempo, e che per l’anno nuovo, vale a dire per l’epoca di Luigi incoronato re e le sue novità, compresa l’alleanza con Francesco Sforza e Ludovico di Savoia, vi è molto da aspettare e che lui si opporrà a queste ultime in ogni modo. Non è certo un caso se pochi mesi più tardi le “guardie” entreranno in azione arrestando Guiotino de Nores e i ciprioti presenti alla corte del duca sabaudo. Lo stile della Pasqua dell’istruzione di Guglielmo Toreau del 18 marzo spiega come mai fra il 1457 e il 1458 Francesco Sforza e il delfino Luigi decidano di puntare sull’identificazione fra lo stesso delfino e Cristo. Lo spunto è stato offerto dallo stesso Carlo VII e il messaggio in risposta al re di Francia è chiaro: è arrivata la Pasqua, è iniziato l’anno nuovo, la resurrezione del Delfino, naturalmente solo simbolica, libera Ludovico di Savoia dalla prigionia in cui si trova e libera pure Francesco Sforza, che rischia di trovarsi schiacciato dall’alleanza fra Carlo VII e Venezia. Si spiegano così anche i riferimenti alla Domenica delle Palme, alla Trasfigurazione, al Getsemani e all’Ascensione. Vi è tuttavia di più. Come detto, l’istruzione di Guglielmo Tureau è del 18 marzo, ma Toreau è uno dei due ambasciatori inviati da Carlo VII nel febbraio del 1458 a chiedere a Ludovico di Savoia la consegna di Ludovico Bolleri, che poi non verrà dato loro. Il 18 aprile 1458 Corradino Giorgi scrive: “Ho intexo quanto sce grava la signoria vostra de mi non habia visitati questi signori ambasciatori del re de Franza quali erano qui he la iniuntione me fa la signoria vostra, la qual statim haverea exequita sce gli fosano stati, ma erano zà partiti, como ha potuto intendere la signoria vostra per una mia data a desdoto del passato”, ma sbaglia la data, perché la lettera cui si riferisce è del 28 marzo. In questo modo il 18 aprile, riferendosi agli ambasciatori, di cui fa parte Guglielmo Toreau, Corradino Giorgi si riferisce all’istruzione dello stesso Guglielmo Toreau del 18 marzo “1454” con lo stile della Pasqua di tre anni prima. L’errore di datazione della lettera del 18 aprile 1458 non è quindi solo un modo per attirare l’attenzione sulla missiva del 28 marzo, che peraltro inizia subito dicendo: “Sapia la signoria vostra che li ambaxadori del re di Franza sono partiti e malcontenti“, quindi con un chiaro riferimento a Guglielmo Toreau. Si noti poi che quest’ultimo venne a Milano alla fine di novembre del 1458, restandovi fino alla fine di febbraio del 1459, e certo ebbe modo di visionare la documentazione che lo riguardava e di sicuro non gli mancavano gli elementi per capirne il senso. Si consideri poi che la lettera del 28 marzo prosegue così: “la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato“, ma il 28 marzo è il giorno della Pasqua del 1456, ossia l’anno in cui ad agosto il delfino andò in esilio presso il duca di Borgogna. L’anno 1456, iniziato secondo lo stile della Pasqua il 28 marzo, aveva avuto un significato importante per il delfino e con la lettera del 28 marzo 1458 in cui si riferisce che il partito filofrancese di Jean de Seyssel “non guberna più” si vuole stabilire un’associazione proprio con il 1456. Infine, poiché, come abbiamo detto, è la stessa istruzione di Guglielmo Toreau del 18 marzo 1454 con la sua data particolare con lo stile della Pasqua a offrire lo spunto per l’identificazione Cristo/delfino presente nella corrispondenza di Francesco Sforza con il suo ambasciatore in Savoia tra la fine del 1457 e i primi mesi del 1458, risulterà meno arbitrario che si ritenga significativo il fatto che la consegna delle dieci “prese” con la loro “storia alla rovescia” avvenga l’11 maggio, giorno in cui nel 1458 cadeva l’Ascensione di Gesù. Si vuole in questo modo alludere all’ascesa del delfino Luigi al trono, ma non a fianco del padre, come si dice per Cristo nel Credo niceno-costantinopolitano, bensì nel caso del delfino al posto del padre, dopo la morte di quest’ultimo. A supporto di quanto esposto finora vi sono ulteriori elementi, ma li approfondiremo in un altro testo.

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La simulazione delle aggressioni militari sabaude nell’aprile del 1458 [da completare]

Come si è scritto nel testo intitolato Il reale scopo di una “differentia” simulata, “il 28 marzo [1458] il partito ostile al gruppo filofrancese di Jean de Seyssel sopravanza quest’ultimo grazie all’appoggio del delfino e del duca di Milano, con il quale Ludovico di Savoia si sta alleando. Pochi giorni più tardi lo stesso duca sabaudo attacca alcune terre di Ludovico Bolleri e di Onorato Lascaris, nientemeno che ‘amici del dalphino’ e ‘aderenti et recommendati’ di Francesco Sforza nella Lega italica. Non vi è tuttavia nulla di particolarmente inspiegabile in questi eventi: si tratta infatti di operazioni concordate, di una simulazione, necessaria per creare i presupposti per l’invio degli ambasciatori di Ludovico di Savoia a Milano senza creare eccessivi sospetti nelle ‘guardie filofrancesi'”. Riteniamo che un buon punto di partenza per comprendere la finzione sia costituito dalla corrispondenza di Francesco Sforza con Nicodemo Tranchedini, suo ambasciatore a Firenze. In una lettera di quest’ultimo datata 19 aprile si può leggere: “Hogi, terzo dì, a sera hebi la vostra de 13 circa al’insulto facto per lo illustre .. ducha de Savoya contra quelli vostri confederati et recomandati etc., la quale mostray quella medesima sera al magnifico Cosimo. Heri matina de suo parere la mostray ad questa excelsa .. Signoria, dala quale post multa hebi questa conclusione: che non expectavano questa novità dal canto del prefato .. duca né da verun altro canto, essendo le cose dela universale pace et Ligha de Italia nel’assecto et accordo che sono et ligate in modo che non se poriano megliorare, et che gli dolia esso .. duca se fosse mosso tanto inconsideratamente ad non mostrare de extimare le obligatione sono in dicta pace et Liga et consequenter le potentie de dicta Liga […], ma che piacia ale loro signorie che vostra celsitudine se fosse iustificata et havessessi arechata la honestà dal canto vostro et contra el prefato .. duca, il perché, et per rispecto ancora che reputano essere unum et idem cum vostra illustrissima signoria, non dubitavano che questo populo ve aiutaria et concoreria ad vendicare questa iniuria non altramente che se fosse facta particularmente ad questa Republica et che hogi haveriano la Pratica, la quale non dubitavano de trovare in questo medesimo proposito, poy me responderiano più fundatamente. Resposi che, quando fossi al conspecto de qualunch’altra .. Signoria o signore, farey maiore instantia de questa materia che non facia cum loro, che so sete in optime dispositione ad sieme, et anche non dubitano che questo caso ale fiate poria intervenire a loro et che ve fariano quella risposta voriano dala vostra sublimità, accadendo el bixogno etc. Questa matina hanno havuta la Pratica, quale è ussita in quest’hora. Per alcuni de loro so’ avisato mo mo che è stato favellato et recordato in vostro favore ut nil melius et che siate aiutato al possibile et ultra so vorano avisare Cosimo de tuto, poy me responderano et io de tuto avisarò vostra illustrissima signoria. Cosimo me disse a principio che haverey questa risposta et che gli seria parso havessino avisato luy o me de quel ve fossivo contintato in questo principio, o de mandare ambaxatore o altro, et seriassi facto et de novo me recordò quello ve scripsi ad questi dì per sua parte, cioè che non andiate in su le generalità cum luy né cum questo populo, ma che, quando volete più una cosa che un’altra, me ne avisiate in secreto, per avanzare tempo, et farassi de bona voglia, perché sete amato et reverito qua ad bon seno […] Ex Florentia, raptim 19 aprilis 1458 circa nonas”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217130.jpgIn una missiva del giorno successivo, ossia del 20 aprile, Nicodemo Tranchedini scrive quanto segue: “Heri avisay vostra sublimità del’aviso havevo dato ad questa excelsa Signoria dela inquietatione, turbatione et insulto dato per lo illustre .. signore .. duca de Savoya ad quelli vostri recomandati et adherenti etc. et como questa .. Signoria havia risposto molto gratamente et honorevelmente verso vostra illustrissima signoria, ma che, per servare li ordeni loro, haviano deliberato preponere tuto ad una loro Pratica de homini da bene per potervi rispondere più substancialmente e dissi ancora como heri haviano havuta dicta Pratica et che da tuti gli era stato ricordato havessero cura al facto vostro quanto che al loro medesimo etc. Questa matina li .. signori mandarono per me et de novo repigliarono le parole de hogi terzo dì et cum summa affectione me fecero questa conclusione: che havevano havuta la Pratica deli più scelti homini de questa città, quali tuti concorditer haviano ricordato che omne speranza de questo populo è nel sapere et potere de vostra celsitudine et per questo, etiam perché l’amicicia vostra et loro è senza veruna lesione o macula o fictione, consigliavano che ad verun modo se patesse al prefato .. duca né a verun altro alcun vostro mancamento, ymo senza verun riservo se havesse cura al facto vostro como a principale scudo et tutella de questa repubblica et libertà et che, bixognando, ad omne vostra posta se venisse ad tute quelle provisione ve paressero necessarie per salveza del’honore et stato vostro, quali reputavano loro proprii, et che cossì me respondevano, accertando vostra celsitudine che ad questo non haverate a durare fatica veruna, ma solo dire faciassi cossì et fariassi, presertim vedendo ve havete arechata omne honestà et iustificatione dal canto vostro et che hano facta tanta prova del desiderio et vostra bona dispositione al quieto vivere et stabilimento dela universale Liga et pace de Italia che non possono credere ve movessino nisi lacessito et provocato non che da una ma molte iniurie. Io so, .. signore, per havervi servito longo tempo, quanto solete recordare et commandare ali servitori vostri che in simile risposte non vogliano mettere né minuire, ma solo avisare dele proprie parole usano quelli le hano ad fare. Da mo accerto vostra sublimità che, volendovi scrivere cum quanta affectione et liberalità questa .. Signoria me ha facta questa risposta, me seria dificile et non ne crederey ussire cum doy foglii de carta. Et poy che hebero dicto bon pezzo et in modo che non se ce poria fare gionta, me fecero quest’altra conclusione: ‘Noy diramo più circa questi effecti et a satisfactione del desiderio del .. signore vostro, se non che sapiamo è certo dela nostra bona dispositione verso de luy et ch’el se persuade habiamo ad concorere ad tute le voglie sue, como quelli che dala felice memoria del .. signore suo patre fomo benissimo serviti et da luy ut nil melius, et che intendiamo non havere a dubitare de persona finché ce intendiamo bene ad sieme et che anche questa nostra intelligentia habia ad fare stare col pede al segno qualunche cercasse perturbare et molestare la quiete de Italia’. Io resposi regraciando le loro .. signorie al meglio me fo possibile etc.”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217131.jpgIl 20 aprile Nicodemo Tranchedini scrive anche un post scriptum che contiene un passaggio piuttosto sibillino, ma vi accenneremo più avanti, perché al momento non sarebbe possibile comprenderne il reale significato. Non ci pare in ogni caso necessario parafrasare il testo delle due lettere riportate sopra, ma di rivolgere l’attenzione alla minuta di Francesco Sforza datata 27 aprile e diretta al suo ambasciatore a Firenze. Essa presenta un capoverso iniziale, seguito da un post scriptum diviso in tre capoversi di cui l’ultimo brevissimo. La minuta non è ignota agli studiosi. Pia Sacchi Orlandini accenna a essa nella nota 8 alla pagina 62 di Quattro anni di storia genovese (1454-1458) alla luce dei documenti sforzeschi. Nel testo della studiosa riferito alla minuta si legge che “soprattutto gli [al francese e angioino duca di Calabria] crearono difficoltà i nobili genovesi che, sino all’ultimo, non sembravano decisi ad obbligarsi per la somma da versare al doge”. Quest’ultima informazione si trova nel secondo capoverso del post scriptum, dedicato soprattutto ai “facti de Zenova”, e il suo incipit è il seguente: “Preterea, credemo che presto giongerà lì monsignore de Modena, quale mandamo ad Napoli, et serà con Cosimo et con ti et vi dirà ad bocca pienamente quanto li havemo commisso, maxime circa li facti de Zenova”. La notizia riportata da Pia Sacchi Orlandini si trova poco più avanti, preceduta, per essere precisi, dal seguente testo: “Appresso ser Leonardo, canzellero del duxe, ce ha monstrata una lettera gli scrive el duxe, cavata de zifra, la quale contiene queste parole formale”. Non si vuole negare l’importanza dell’informazione né negare che essa non sia vera, tuttavia nella minuta ci pare decisamente più interessante quanto la precede, vale a dire il capoverso iniziale e il primo capoverso del post scriptum. Riportiamo entrambi qui di seguito: “Questi dì recevemo una tua lettera del penultimo del passato per la quale ne avisaste del parentato contracto fra Olivero, figliolo del spectabile miser Azo, marchese Malaspina da Mulazo, et Lunesina, tua figliola, la qual cosa ne è stata molto grata et havemone havuto piacere assay. Parne che tu l’habii locata bene et honorevolmente et in persona ad nuy gratissima, perché nuy havemo carissimo el prefato miser Azo et le sue cose, sì per essere nostro .. adherente et recomandato, sì per l’amore et affectione ch’el ne porta luy et la casa sua, como largamente te dixemo alhora, quando prima ne facesti mentione, essendo qua con nuy. Per tuo rispecto, etiandio, li dovemo havere et haveremo più cari et così gli scrivemo opportunamente per queste alligate, como tu vederay, siché per ogni respecto el ne piace et te ne commendiamo. Tu say che per lo passato te havemo amato et havuto caro et cercato de farte honore et bene et così debbi essere certo faremo per lo venire et tanto più quanto che la fede et l’opera tua meritano più. […] Post scriptum. Havemo inteso quanto ne scrivi per le tue de dì XX del presente: havere consultato col magnifico Cosimo et poy conferito con quella excelsa Signoria circa quelle novità fa el .. duca de Savoya contra quelli nostri .. adherenti et recommandati et le humanissime et liberalissiime risposte ne fa quella Signoria circa questa materia. Volemo che tu la ringratii per nostra parte quanto te sii possibile et l’avisi como havemo mandato dipoy ad lo prefato duca de Savoia ad dirgli ch’el vogli revocare quelle gente et le offese da quelli nostri perché nuy non procediamo più ultra et, così revocandole, non haveramo ad fare altro, ma quando questo non se faci alhora te aviseremo de quello ne parirà de rechiedere da quella Signoria. Et questo havemo voluto fare per più iustificatione dal canto nostro, conferendo però prima tutto col magnifico Cosimo et governandote como parirà ad luy sii meglio”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012714080.jpgDedichiamo ora la nostra attenzione al primo capoverso del post scriptum. Nella sua prima parte si legge: “Havemo inteso quanto ne scrivi per le tue de dì XX del presente: havere consultato col magnifico Cosimo et poy conferito con quella excelsa Signoria circa quelle novità fa el .. duca de Savoya contra quelli nostri .. adherenti et recommandati et le humanissime et liberalissiime risposte ne fa quella Signoria circa questa materia”. Queste parole pongono seri problemi. In primo luogo non è nella lettera del 20 aprile che Nicodemo Tranchedini riferisce di “havere consultato col magnifico Cosimo et poy conferito con quella excelsa Signoria circa quelle novità fa el .. duca de Savoya contra quelli nostri .. adherenti et recommandati et le humanissime et liberalissiime risposte ne fa quella Signoria circa questa materia”, bensì in quella del 19 aprile, nella quale, come si è visto sopra, si legge: “Hogi, terzo dì, a sera hebi la vostra de 13 circa al’insulto facto per lo illustre .. ducha de Savoya contra quelli vostri confederati et recomandati etc., la quale mostray quella medesima sera al magnifico Cosimo. Heri matina de suo parere la mostray ad questa excelsa .. Signoria, dala quale post multa hebi questa conclusione”. Seguono quindi le parole della “conclusione”. Francesco Sforza compie dunque un errore di datazione, in quanto è alla lettera del 19 aprile che egli si riferisce, come conferma il fatto che nella missiva del 20 dello stesso mese Nicodemo Tranchedini non accenna in alcun modo a Cosimo de’ Medici, menzionandolo invece nel post scriptum del 20 aprile, ma non in relazione alle “novità fa el .. duca de Savoya contra quelli nostri .. adherenti et recommandati”. Riteniamo che lo sbaglio del duca di Milano serva per preparare il lettore all’errore ben più rilevante che segue poco dopo. Nella sua minuta del 27 aprile Francesco Sforza prosegue infatti in questo modo: “Volemo che tu la ringratii per nostra parte quanto te sii possibile et l’avisi como havemo mandato dipoy ad lo prefato duca de Savoia ad dirgli ch’el vogli revocare quelle gente et le offese da quelli nostri perché nuy non procediamo più ultra et, così revocandole, non haveramo ad fare altro”. Occorre rilevare che si è in presenza di una significativa inversione cronologica: a differenza di quanto scritto nella minuta, infatti, prima, ossia il 7 aprile, Francesco Sforza scrisse a Corradino Giorgi, suo ambasciatore in Savoia, di “confortare et pregare la signoria soa che […] voglia subito fare retrare le […] zente dal’impresa et revocare ogni novità facta et non impazarse deli nostri adherenti et recommendati, certificando la signoria soa che, non lo facendolo, questa serà l’ultima instantia che gli ne faciamo et senza più parolle, ma con effecto, provederemo ala salute et defesa deli adherenti et recommendati nostri con quelli megliori modi ne sarano possibili”, poi il 13 aprile informò i suoi ambasciatori presso i maggiori Stati della Lega italica di quanto stava accadendo con Ludovico di Savoia.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012811371_0001.jpg

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Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020442.jpgInfatti, come si è visto sopra, nella sua lettera del 19 aprile Nicodemo Tranchedini scrive che “Hogi, terzo dì, a sera hebi la vostra de 13 circa al’insulto facto per lo illustre .. ducha de Savoya contra quelli vostri confederati et recomandati etc.”. La ragione dell’inversione cronologica consiste nel fatto che si vuole fare intendere al lettore quanto avvenuto in realtà, che in parte consiste proprio in ciò che è scritto, ossia che Francesco Sforza ha avvisato Nicodemo Tranchedini di qualcosa che chiariremo riguardo l'”insulto” del duca di Savoia “contra quelli vostri confederati et recomandati etc.” non il 13 aprile, quando pare informare i suoi ambasciatori presso le maggiori potenze della Lega italica del comportamento del duca sabaudo, bensì prima del 7 dello stesso mese, giorno in cui scrive a Corradino Giorgi nella “storia alla rovescia”; quindi nella minuta del 27 aprile commette l’errore “rivelatore” di scrivere “Volemo che […] l’avisi como havemo mandato dipoy ad lo prefato duca de Savoia ad dirgli ch’el vogli revocare quelle gente et le offese da quelli nostri perché nuy non procediamo più ultra et, così revocandole, non haveramo ad fare altro”, che si giustifica appunto perché in realtà Francesco Sforza ha scritto a Nicodemo Tranchedini una lettera prima del 7 aprile. Quest’ultima missiva non ci è pervenuta e appartiene a quella “corrispondenza sommersa” cui si è accennato anche altrove e di cui si lascia intendere l’esistenza nella parte finale della lettera del 19 aprile dell’ambasciatore a Firenze quando egli scrive: “Cosimo me disse a principio che haverey questa risposta [dalla Signoria] et che gli seria parso havessivo avisato luy o me de quel ve fossivo contintato in questo principio, o de mandare ambaxatore o altro, et seriassi facto et de novo me recordò quello ve scripsi ad questi dì per sua parte, cioè che non andiate in su le generalità cum luy né cum questo populo, ma che, quando volete più una cosa che un’altra, me ne avisiate in secreto, per avanzare tempo, et farassi de bona voglia, perché sete amato et reverito qua ad bon seno”. L’accenno sibillino al fatto che “avisiate in secreto, per avanzare tempo”, tanto più contenuto in una missiva alla quale poi nella sua minuta del 27 aprile Francesco Sforza si riferisce in modo errato, assegnandola al 20 aprile, ossia all’opposto per così dire “in ritardo”, dato che la missiva è del giorno precedente, serve appunto per permettere al lettore di inferire che esiste una “corrispondenza sommersa” e che dunque il duca di Milano, “per avanzare tempo”, ha avvisato Nicodemo Tranchedini prima del 7 aprile. A questo punto sarebbe necessario cercare di capire quando, prima del 7 aprile, potrebbe essere stato avvisato l’ambasciatore a Firenze e quale tipo di informazioni gli siano state fornite. Prima, però, preferiamo proseguire la nostra passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo ambasciatore a Firenze. In una sua lettera datata 1 maggio Nicodemo Tranchedini avvisa il duca di Milano della ricezione della sua missiva datata 27 aprile scrivendo: “Heri sera hebi la vostra de 27 del passato”. Quanto ci pare importante rilevare qui è che nel quinto capoverso della lettera l’ambasciatore scrive che secondo alcune missive provenienti da Napoli cui ha accennato in precedenza “è ch’el nostro Antonio da Trezzo fa grandissima alegreza et butta el re ad celo perché soa mayestà ha dicto che vi conforti ad non patere la iniuria ve ha facta el .. duca de Savoya et che da soa mayestà heverete omne favore quando bixognarà”. Questo accenno all’ambasciatore a Napoli ci consente di abbandonare per un attimo la corrispondenza Milano-Firenze per dedicarci a quella Milano-Napoli. L’informazione fornita da Nicodemo Tranchedini nella sua lettera dell’1 maggio trova conferma in una missiva di Antonio da Trezzo datata 27 aprile nella quale si legge: “Tornato la sera a Capua, trovai uno cavallaro cum lettere de vostra celsitudine de dì XIIII° ad mi directive, le quale narrano le novitate facte per lo illustre .. duca de Savoya contra meser Aluyse Bollera, quelli da Cocona’ et li conti de Tenda, per le quale, tornato in campo, fui cum la prefata maiestà, alla quale, exposto quanto la prefata signoria vostra per dicte lettere me comanda, essa, inteso el tuto, me respose che la excellentia vostra liberamente attenda a fare quanto gli pare contra el prefato .. duca de Savoya, che sua maiestà non ne receverà displicentia alcuna, ymo, bisognando, ve prestaria ayuto et favore. Et subiunxe che scriveria ad esso signore .. duca in bona forma. Et così commisse a Talamancha che scrivesse, come per le alligate la excellentia vostra vederà, dele quale ve mando la copia inclusa, le quale lettere, per non essere expedite, non ho potuto mandare più presto” (a proposito di queste parole nella nota 1 alla pagina 621 di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive, appoggiandosi a Lo stato sabaudo da Amedeo III a Emanuele Filiberto, I: (1451-1467) di Ferdinando Gabotto: “Dopo la cattura di Bolleri […] Abzat attaccò e saccheggiò Tenda, imprigionando il conte Onorato Lascaris”. In realtà, come dimostra la copia dell’epistola del conte di Tenda pubblicata più in basso, quanto riportato non corrisponde al vero). Per il momento non è il caso di esaminare i problemi che presentano le parole “trovai uno cavallaro cum lettere de vostra celsitudine de dì XIIII° ad mi directive”: ci limitiamo ad anticipare che non solo l’ambasciatore sforzesco non precisa se si tratti del mese “presente” o “passato”, ma sbaglia anche la data della lettera cui si riferisce, che è il 13 aprile, come scrive anche Nicodemo Tranchedini nella sua missiva del 19 aprile riportata sopra. Qui ci preme rilevare che, nella sua minuta del 19 maggio diretta ad Antonio da Trezzo in cui segnala la ricezione della missiva del re, il duca di Milano scrive: “Hebbemo la tua lettera de dì 17 del passato con quella scrive la maiestà del signor re al duca de Savoya per la novità ch’el fa contro questi nostri adherenti et la copia d’essa inclusa alla nostra. Inteso el tutto, rimasemo molto satisfacti et mandassimo dicta lettera regia al prefato signore duca de Savoya, siché volemo ne ringratii summamente la maiestà del signore re de quanto ella te ha dicto et scritto per nuy al dicto duca”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012714070.jpgFrancesco Sforza sbaglia la data della lettera del suo ambasciatore a Napoli cui è allegata la missiva di Alfonso d’Aragona: essa infatti non è del 17 aprile, bensì del 27 dello stesso mese. L’errore ha due finalità. La prima consiste nel far intendere al lettore che la lettera del re, di cui noi abbiamo una copia datata 25 aprile, è arrivata a Milano in tempo per essere inviata all’inizio di maggio con la “storia alla rovescia” delle “prese” a Corradino Giorgi, ambasciatore sforzesco in Savoia. Senza entrare nello specifico del testo della copia in nostro possesso, possiamo senza dubbio affermare che, per quanto concerne la sua data, Alfonso d’Aragona si è prestato ai beffardi giochi epistolari, se è consentita l’espressione, del duca di Milano (nella nota 6 alla pagina 28 del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli, posta a commento di una missiva di Antonio da Trezzo del 15 luglio 1458, Francesco Senatore spiega, basandosi su Lo stato sabaudo da Amedeo III a Emanuele Filiberto, I: (1451-1467) di Ferdinando Gabotto: “Alfonso il Magnanimo aveva scritto a Ludovico, duca di Savoia, esortandolo a mantenere salda la pace con Milano nonostante le tensioni causate dal giuramento di fedeltà prestato dai conti di Cocconato al duca di Milano prima di essere sciolti dal giuramento al duca di Savoia”. Bisogna precisare che nella copia della lettera del sovrano non si menzionano in alcun modo i conti di Cocconato).

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217141.jpg

Quando infatti nella minuta del 19 maggio Francesco Sforza scrive: “mandassimo dicta lettera regia al prefato signore duca de Savoya”, pare riferirsi alla minuta del 12 maggio che ha come destinatario Corradino Giorgi nel cui incipit si legge: “Postremo te mandiamo queste lettere quale scrive la sanctità de nostro Signore et altre che scrive la maiestà del signore re de Ragona ad quello illustre signore duca”, ma in realtà, come detto, la minuta, in cui vengono riferite alcune ricezioni, ossia “prese”, delle missive dell’ambasciatore sforzesco in Savoia, è stata inviata all’inizio di maggio con la “storia alla rovescia” delle “prese”.  Come si è già visto sopra nel caso di Nicodemo Tranchedini, anche l’errore commesso dal duca di Milano nella sua minuta del 19 maggio di attribuire la lettera del 27 aprile al 17 dello stesso mese permette di inferire l’esistenza di una “corrispondenza sommersa”. Si arriva così alla seconda finalità dello sbaglio di Francesco Sforza. Poiché la missiva del re risulta allegata a una lettera di Antonio da Trezzo datata 17 aprile, è evidente che quest’ultima non può essere considerata in risposta alla missiva di Francesco Sforza in nostro possesso datata 13 aprile inviata ai suoi ambasciatori presso le maggiori potenze della Lega italica, ma deve essere necessariamente la risposta a una lettera del duca di Milano anch’essa appartenente alla “corrispondenza sommersa” precedente non solo il 13 aprile, ma anche il 7 dello stesso mese, data della minuta recante come destinatario Ludovico di Savoia, considerato l’intervallo di 12 giorni che intercorre tra il 27 aprile e l’8 maggio, quando si simula, come vedremo più avanti, che sia stata ricevuta la missiva di Alfonso d’Aragona. Se dunque nel caso di Nicodemo Tranchedini si è visto che Francesco Sforza lo ha avvisato prima del 7 aprile riguardo a qualcosa di inerente Ludovico di Savoia, allo stesso modo il duca di Milano ha informato dello stesso tema Antonio da Trezzo prima del medesimo 7 aprile. Per capire quando Francesco Sforza ha avvisato il suo ambasciatore a Napoli, vengono in nostro soccorso le parole sibilline che abbiamo rilevato sopra, ossia “trovai uno cavallaro cum lettere de vostra celsitudine de dì XIIII° ad mi directive”. Prima di esaminare queste ultime, torniamo alla corrispondenza Milano-Firenze. Si arriva così alla minuta del duca di Milano datata 4 maggio e che reca come destinatari Boccaccino Alamanni e Nicodemo Tranchedini. In essa all’inizio si legge: “Per l’altre nostre haverite inteso quanto sii seguito per lo illustre signore duca de Savoya contro quelli nostri adherenti et recommandati et terre loro, cioè miser Aluise Boleri, conti de Tenda et gentilhomini de Coconato, et li modi quali fin ad qui ha servati et serva et le bone parole ha usate in volere desistere, che sono state contrarie ad li effecti, et denique del torre la rocha del luogho de Demonte, che era del dicto miser Aluyse”. Le parole “Per l’altre nostre haverite inteso quanto sii seguito per lo illustre signore duca de Savoya contro quelli nostri adherenti et recommandati et terre loro, cioè miser Aluise Boleri, conti de Tenda et gentilhomini de Coconato” si riferiscono alla lettera di cui nella sua missiva datata 19 aprile Nicodemo Tranchedini scrive: “Hogi, terzo dì, a sera hebi la vostra de 13 circa al’insulto facto per lo illustre .. ducha de Savoya contra quelli vostri confederati et recomandati etc.”. Le parole successive “et li modi quali fin ad qui ha servati et serva et le bone parole ha usate in volere desistere, che sono state contrarie ad li effecti, et denique del torre la rocha del luogho de Demonte, che era del dicto miser Aluyse” non trovano invece riscontro in alcun documento che si trovi nella corrispondenza Milano-Firenze ed è pertanto necessario cercarlo altrove. Esso si trova nella corrispondenza Milano-Roma, ossia in una minuta datata 3 maggio dell’epistolario tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto, che tuttavia, come vedremo, presenta una sorpresa non da poco e peraltro non inedita. Essa reca due destinatari: uno all’inizio, che è “Domino Octoni de Carreto”, e uno alla fine, dove si legge: “In simili forma scriptum fuit Nicodemo de Pontremulo”. Il testo è il seguente: “Vuy devete havere inteso quello ve havemo scripto delle novitate fatte per lo illustrissimo signore duca de Savoya contra el magnifico domino Ludovico Bollero et domino Honorato conte de Tenda, nostri adherenti et recommendati, in havere destenuto lo dicto domino Ludovico et toltoli le terre soe et mandatoli el campo ad casa, demonstrando de fare el simile contra le terre d’esso domino Honorato. Havendo dapoi nuy facto intendere al prefato signore duca ch’el faceva contra l’honore suo et contra li capituli della pace et Liga universale de Italia, ha demonstrato et scriptone et factone scrivere che lo voleva relaxare et revocare le zente soe dalla impresa, dimonstrando questa novità essere facta contra la mente et ordinatione, et niente è sequito. Imo havemo inteso che le gente del prefato duca hano tolto la rocha, Demonte, di lochi principali che havesse esso domino Ludovico, como intenderete per la introclusa copia de lettera d’esso domino Honorato”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012714071.jpgNelle parole sopra riportate ci si riferisce a cinque documenti diversi. La parte “Vuy devete havere inteso quello ve havemo scripto delle novitate fatte per lo illustrissimo signore duca de Savoya contra el magnifico domino Ludovico Bollero et domino Honorato conte de Tenda, nostri adherenti et recommendati, in havere destenuto lo dicto domino Ludovico et toltoli le terre soe et mandatoli el campo ad casa, demonstrando de fare el simile contra le terre d’esso domino Honorato” allude alla lettera cui si è più volte accennato datata 13 aprile che il duca di Milano inviò agli ambasciatori presso i maggiori Stati della Lega italica e della quale Ottone del Carretto segnala la ricezione in una sua missiva del 21 aprile (si veda il testo intitolato Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto). Le parole che seguono “Havendo dapoi nuy facto intendere al prefato signore duca ch’el faceva contra l’honore suo et contra li capituli della pace et liga universale de Italia” si riferiscono invece alla lettera datata 7 aprile che Francesco Sforza scrisse a Corradino Giorgi, suo ambasciatore in Savoia, di cui si è parlato in relazione alla minuta ducale del 27 aprile che reca come destinatario Nicodemo Tranchedini. La parte “ha demonstrato et scriptone et factone scrivere che lo voleva relaxare et revocare le zente soe dalla impresa, dimonstrando questa novità essere facta contra la mente et ordinatione” si riferisce alla lettera di Ludovico di Savoia datata 17 aprile e alla missiva di Corradino Giorgi del 18 aprile.

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Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012811370.jpgInfine le parole “et niente è sequito. Imo havemo inteso che le gente del prefato duca hano tolto la rocha, Demonte, di lochi principali che havesse esso domino Ludovico, como intenderete per la introclusa copia de lettera d’esso domino Honorato” alludono a una lettera di Onorato Lascaris, conte di Tenda, di cui vi è la copia datata 25 aprile.

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Le osservazioni da fare in merito a quanto sopra riportato non sarebbero poche. Limitiamoci tuttavia a quella più evidente, ossia all’inversione cronologica identica a quella riscontrata nella minuta del 27 aprile che reca come destinatario Nicodemo Tranchedini. A differenza di quanto scritto nella minuta del 3 maggio i cui destinatari sono Ottone del Carretto e di nuovo Nicodemo Tranchedini, infatti, prima, ossia il 7 aprile, Francesco Sforza scrisse a Corradino Giorgi in Savoia, poi il 13 aprile informò i suoi ambasciatori presso i maggiori Stati della Lega italica di quanto stava accadendo con Ludovico di Savoia. Anche in questo caso la ragione dell’inversione cronologica consiste nel fatto che si vuole fare intendere al lettore quanto avvenuto in realtà, ossia che Francesco Sforza ha avvisato Ottone del Carretto di qualcosa riguardante il comportamento del duca di Savoia non il 13 aprile, quando pare informare i suoi ambasciatori presso le maggiori potenze della Lega Italica, bensì prima del 7 dello stesso mese, giorno in cui scrive a Corradino Giorgi nella “storia alla rovescia”; quindi nella minuta del 3 maggio commette di nuovo l’errore “rivelatore” di scrivere “Havendo dapoi nuy facto intendere al prefato signore duca ch’el faceva contra l’honore suo et contra li capituli della pace et liga universale de Italia”, che si giustifica appunto perché in realtà Francesco Sforza ha scritto a Ottone del Carretto (e a Nicodemo Tranchedini) una lettera prima del 7 aprile, appartenente anch’essa a quella “corrispondenza sommersa” cui si è accennato più volte. L’inversione cronologica per la quale il duca di Milano risulta avere avvisato il suo ambasciatore a Roma riguardo a Ludovico di Savoia prima del 7 aprile è particolarmente importante. Come si ricorderà, all’inizio della minuta del 12 maggio che ha come destinatario Corradino Giorgi Francesco Sforza scrive: “Postremo te mandiamo queste lettere quale scrive la sanctità de nostro Signore et altre che scrive la maiestà del signore re de Ragona ad quello illustre signore duca”. Della missiva del sovrano d’Aragona abbiamo già trattato. Vediamo ora di parlare della bolla di Callisto III. Essa è datata 1 maggio 1458. In una lettera datata 2 maggio Ottone del Carretto scrive: “Sua sanctità […] ordinò se fecesse ala maiestà del re et ali altri principali dela Liga lettere apostolice III, bullis plumbeis clausis, et un’altra al duca de Savoia, in quella forma che vederà vostra excellencia per le incluse copie”. In una successiva missiva del 3 maggio dell’ambasciatore si legge: “Per altre mie heri mandate deve essere avisata vostra illustre signoria dela provisione fatta per la sanctità de nostro Signore in scrivere a questi principali dela Liga et manday la copia dela bolla directiva ala maiestà del re d’Aragona et in simili forma, mutatis mutandis, se scrive ala illustre signoria de Venetia et a quella de Fiorenza. Manday ancora la copia dela bolla directiva alo illustre duca de Savoya. Hora mando a vostra excellencia, in forma autentica, la bolla directiva al prefato duca et un’altra ad essa vostra excellencia in la qual deveno essere le copie de tutte le predicte bolle”. Poi il 7 maggio Ottone del Carretto scrive cinque lettere, che non pare il caso di approfondire qui. Si arriva così alla minuta di Francesco Sforza del 19 maggio nella quale si legge: “Havemo recevuto le vostre lettere de dì II et VII del presente insieme con le bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya con le copie dele altre scrive nostro Signore ad la maiestà de re de Ragona et al prefato duca de Savoya, al quale havemo mandate la sua per proprio messo”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012714062.jpgCome si può notare, non viene segnalata la ricezione della lettera datata 3 maggio cui erano effettivamente allegate “le bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya”. Come nel caso visto sopra della lettera del re d’Aragona, si vuol far intendere al lettore che la bolla di papa Callisto III diretta al duca sabaudo, benché datata 1° maggio, è arrivata a Milano in tempo per essere inviata a Corradino Giorgi in Savoia all’inizio di maggio con la “storia alla rovescia” delle “prese”. Quando nella minuta del 19 maggio il duca di Milano scrive: “havemo mandate la sua [bolla di Ludovico di Savoia] per proprio messo”, pare riferirsi alla minuta già citata del 12 maggio che ha come destinatario Corradino Giorgi, ma in realtà, come detto prima, quest’ultima minuta è stata inviata all’inizio di maggio con la “storia alla rovescia” delle “prese”. Per un approfondimento dell’argomento si veda la parte iniziale del testo intitolato Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto, rispetto al quale, come si vedrà, nella precedente corrispondenza fra il duca di Milano e l’ambasciatore a Roma vi è una significativa minuta diretta a Ottone del Carretto con l’errata data “1458, Mediolani, die aprilis”, senza l’indicazione del giorno del mese, che insieme a un’altra minuta datata “Mediolani, die XIII aprilis 1458” (all’inizio della quale si racconta di una “beffa”) determina una situazione per così dire speculare rispetto a quella descritta nel suddetto testo a partire dalla minuta ducale del 19 maggio. Un indizio rivelatore rispetto a quanto scritto sopra in merito ad Alfonso d’Aragona e Callisto III viene dalle minute ducali entrambe datate 19 maggio aventi come destinatari rispettivamente Antonio da Trezzo e Ottone del Carretto. Si sarà notato che, rispondendo al primo ambasciatore, Francesco Sforza utilizza il passato remoto, scrivendo “Hebbemo la tua lettera de dì 17 del passato con quella scrive la maiestà del signor re al duca de Savoya”; replicando al secondo, invece, ricorre al passato prossimo: “Havemo recevuto le vostre lettere de dì II et VII del presente insieme con le bolle apostoliche directive ad nuy et al .. duca de Savoya”. Come spiegato nel testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione, la minuta ducale datata 8 maggio recante cinque destinatari, con la quale Francesco Sforza mandò “inclusa la copia de lettere quale novamente ce scriveno li nobili da Cochonato”, permette di affermare che nella “storia alla rovescia” si simuli che lo stesso 8 maggio il duca di Milano abbia ricevuto la missiva del sovrano e che le bolle del papa, inviate il 3 dello stesso mese, siano state ricevute entro il 12 maggio, data della minuta avente come destinatario Corradino Giorgi in cui si segnala l’invio all’ambasciatore in Savoia della lettera del re e della bolla del pontefice. In sostanza nei documenti successivi Antonio da Trezzo non segnala la ricezione della missiva ricavata dalla minuta datata 8 maggio. Si finge pertanto che nella stessa minuta il suo nome sia stato depennato dopo la redazione dell’originale, poi però non spedito in seguito alla ricezione della missiva di Alfonso d’Aragona, la quale fece sì che non si ritenne più necessario informare il sovrano dello sviluppo degli avvenimenti con il duca sabaudo.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012714072-1.jpgA conferma di quanto appena scritto, nel primo capoverso di un’epistola datata 23 maggio dell’ambasciatore a Napoli (non pubblicata nel I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli di Francesco Senatore) si legge: “A XXI del presente recevete lettere de la excellentia vostra de dì VII cum certe copie de lettere mandate per lo magnifico signor miser Michelle alla vostra signoria […] A XXII recevete altre lettere de dì X cum le incluse originale et copie de quelle de lo illustre duxe de Zenoa ad ser Leonardo”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-01-27-a-10.06.17.pngInoltre, all’inizio del quarto capoverso della missiva precedente del 22 maggio lo stesso inviato aveva segnalato la ricezione dell’epistola del 10 maggio, ma non di quella del 7, scrivendo quanto segue: “Questa matina hebbe lettere de vostra excellentia de dì X”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-01-27-a-10.09.30.png

Pare piuttosto evidente che la missiva ricavata dalla minuta ducale dell’8 maggio non sia stata ricevuta, in quanto non spedita in seguito alla ricezione delle lettera di Alfonso d’Aragona: nel caso fosse giunta a Napoli, infatti, ne sarebbe stata segnalata la ricezione nella lettera del 22 maggio o del 23 dello stesso mese. È il caso di precisare che la minuta della missiva del 7 maggio di cui Antonio da Trezzo segnala la ricezione reca in realtà due date: la prima del 7 dello stesso mese per la lettera vera e propria, la seconda dell’8 maggio per la “zedola”.

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Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012714061.jpgL’importanza di quest’ultima minuta consiste nel fatto che essa reca come destinatari anche inviati residenti in altre città, fra cui Ottone del Carretto, che in una missiva datata 19 maggio segnala la ricezione della relativa epistola da solo, anche se la missiva era diretta anche al vescovo di Modena Giacomo Antonio Della Torre, scrivendo all’inizio del primo capoverso quanto segue: “Ho ricevute questi dì lettere de vostra excellencia dele cose de Genoa date a dì VIII et a X de questo […]”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-01-27-a-10.17.16.pngPoi verso la fine dello stesso capoverso l’ambasciatore a Roma aggiunge: “Questa sera ho havute altre lettere de vostra excellencia de XII del presente pur in queste cose de Genoa”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-01-27-a-10.19.13.pngInoltre, nel secondo capoverso Ottone del Carretto segnala anche la ricezione della missiva tratta dalla minuta ducale dell’8 maggio relativa ai signori di Cocconato: “Ho ancora fatto noticia ala sanctità de nostro Signore dele novità fatte per lo illustre duca de Savoia ali gientilhomeni da Cochona’ et se ne dà maraviglia assay et parelli che vostra excellencia habbi havuta patientia grande et li sia ormay ben licito deffendere li suoy”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-01-27-a-10.20.53.pngCome si sarà notato, per evidenziare che Antonio da Trezzo non segnala la ricezione della missiva relativa “ali gientilhomeni da Cochona’” datata 8 maggio, nell’ultimo capoverso segnalato l’ambasciatore a Roma non riferisce la data della missiva cui si riferisce, ma solo il suo tema, aggiungendo il rema “se ne dà maraviglia assay et parelli che vostra excellencia habbi havuta patientia grande et li sia ormay ben licito deffendere li suoy”, mentre, riferendo la data della lettera che l’inviato a Napoli attribuisce al 7 maggio, l’attribuisce proprio all’8 maggio, che non è la data della lettera vera e propria, bensì quella della “zedola”, in modo diverso quindi rispetto ad Antonio da Trezzo. Si sarà compreso che in questa fase per via dell’invio da Napoli e da Roma di documenti allegati le corrispondenze di Francesco Sforza rispettivamente con Antonio da Trezzo e Ottone del Carretto è come se si incrociassero, diversamente dalla fase di poco precedente nella quale a incrociarsi sono gli epistolari del duca di Milano con Nicodemo Tranchedini e Ottone del Carretto. Tale incrocio è confermato da due lettere che alle pagine 635-636 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore considera far parte per così dire di un unico documento con due date diverse, ossia il “24 e 25 maggio 1458” (lo studioso scrive: “ASM, SPE, Napoli, 198, 131, 133. Originale autografo. Allegato a 133”), benché la data del 25 maggio non sia in effetti del tutto chiara, tanto è vero che la datazione moderna assegnata è “1458 maggio 26”.

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In ogni caso, dando per buona l’interpretazione di Francesco Senatore, anche perché nella missiva con la data “die XXIIII° maii 1458“ subito dopo è scritto: “Tardarò ad mandare queste lettere per vedere come starà el re domane”, in quest’ultima missiva si legge quanto segue: “Heri sera al tarde recevete lettera de la excellentia vostra de dì XII del presente, per le quale essa significa el figliolo del .. duca Renato havere fornito la cità et forteze de Savona et così el castelleto de Zenoa”.

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In nota lo studioso segnala che la missiva “de la excellentia vostra de dì XII del presente” sarebbe “Non pervenutaci”, tuttavia la minuta da cui essa è stata tratta non si trova nella cartella Napoli 198, bensì in Roma 47. Caso più unico che raro rispetto all’argomento trattato, in essa come destinatari risultano insolitamente associati solo Ottone del Carretto e Antonio da Trezzo e, fatto appunto molto significativo, si legge quanto segue: “Continuando in avisarvi de le cose sentimo de Zenova, hogi havemo havuto noticia como el duca de Calabria figliolo del re Renato ha mandato ad fornire la cità et forteze de Savona. In quest’hora etiamdio sono venute qua lettere da Nove che scrive esso duca ad alcuni di suoy sono in quella terra como el ha etiamdio fornito el castelletto de Zenova”. Naturalmente, dopo l’indicazione “In simili forma, mutatis mutandis, Antonio de Tritio”, sono aggiunte le parole “et dicatur el figliolo del duca Renato”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012811371_0002.jpgQuello che pare interessante è il rapporto speculare esistente fra le missive di Antonio da Trezzo datate 24 e 25 maggio e la lettera di Ottone del Carretto del 19 dello stesso mese. Nel primo caso, infatti, per segnalare la ricezione della lettera di Francesco Sforza datata 12 maggio, si ricorre in sostanza a due missive inviate a Milano insieme, la cui relazione è tale che Francesco Senatore le considera un unico documento; nel secondo, invece, la ricezione della lettera del 12 maggio avviene in una missiva, quella del 19 maggio, nella quale si segnala anche la ricezione di due lettere datate 8 maggio: per una, però, come si è visto, non si riferisce la data della missiva vera e propria, ma quella della “zedula”; dell’altra, invece, non è indicata la data in modo esplicito, ma il suo tema, che permette di risalire alla data della lettera cui si allude, ossia appunto quella relativa ai signori di Cocconato dell’8 maggio. L’incrocio fra la corrispondenza di Francesco Sforza con Antonio da Trezzo e Ottone del Carretto non permette tuttavia di giustificare i diversi tempi verbali adottati nelle due minute del 19 maggio, ossia il passato remoto per la missiva cui era allegata la lettera di Alfonso d’Aragona arrivata a Milano l’8 maggio e il passato prossimo per la missiva giunta nel capoluogo lombardo con bolla di Callisto III fra il 9 e il 12 maggio. Quello che si vuol far capire è che il passato remoto è una spia rivelatrice del fatto che entrambi i documenti sono arrivati a Milano prima dell’8 maggio, ossia tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, come permette di inferire la lettera cui era allegata la missiva del re, spedita il 17 aprile e non il 27 dello stesso mese se si calcola un intervallo di 12 giorni per la sua consegna. A questo punto, cercando di riassumere, riteniamo di poter affermare con certezza che una missiva riguardante lo sviluppo degli avvenimenti in Savoia sia stata inviata a Napoli, Firenze e Roma, come segnala in questi due ultimi casi l’avverbio “dapoy” nelle minute ducali del 27 aprile e del 3 maggio, non solo prima del 13 aprile, data della minuta diretta alle maggiori potenze della Lega Italica con la quale il duca di Milano riassume i suoi rapporti apparentemente non buoni con quello sabaudo, ma, come si è visto, anche prima del 7 aprile, data della minuta con cui Francesco Sforza scrive a Ludovico di Savoia in merito alle sue recenti iniziative militari. A proposito di “Dapoy”, prima di tornare a esaminare la corrispondenza Milano-Napoli, può essere il caso di compiere alcune osservazioni sulla minuta ducale già menzionata datata 4 maggio 1458 e inviata a Boccaccino Alamanni e Nicodemo Tranchedini, perché costituisce una sorta di rinforzo, ma, come si vedrà, non solo, rispetto all’avverbio di cui sopra. Nella minuta si legge infatti: “Per l’altre nostre haverite inteso quanto sii seguito per lo illustre signore duca de Savoya contro quelli nostri adherenti et recommandati et terre loro, cioè miser Aluise Boleri, conti de Tenda et gentilhomini de Coconato, et li modi quali fin ad qui ha servati et serva et le bone parole ha usate in volere desistere, che sono state contrarie ad li effecti, et denique del torre la rocha del luogho de Demonte, che era del dicto miser Aluyse”, parole che si riferiscono prima alla minuta ducale del 13 aprile, con la quale, come noto, si avvisano le potenza delle Lega Italica dei rapporti apparentemente non buoni tra Francesco Sforza e Ludovico di Savoia, poi alla minuta datata 3 maggio diretta a Ottone del Carretto e Nicodemo Tranchedini. “Dapoy”, precisa il duca di Milano, “scritte l’altre lettere, è giunto qui uno Antonello Pagano, secretario del serenissimo re Renato”. Non si capisce a quali “altre lettere” successive al 3 maggio possa riferirsi Francesco Sforza né si comprende perché, se l’ambasciatore è giunto a Milano il 3 o il 4 maggio, non si ricorra più chiaramente all’avverbio “ieri” oppure “oggi”. D’altra parte, poiché si dice che Antonello Pagano riparte “domane”, ossia il 5 maggio, non si può non rilevare l’inverosimile rapidità della sua missione.

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Nelle poche ore trascorse nel capoluogo lombardo non solo espose la sua ambasciata, ma riuscì pure ad accordarsi con Francesco Sforza, che quindi provvedeva a scrivere l’epistola presente verso la fine del recto della carta 22 del Registro delle Missive 44 di cui si è parlato nel testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione, importante non solo perché datata 4 maggio, giorno dell’attesa partenza di Giorgio Piossasco per Centallo, ma anche perché in essa sottilmente il defino Luigi si configura come il vero “re nato” da identificarsi con Cristo. In effetti questa efficienza, che senza alcun dubbio si può considerare eccessiva, suscita non poche perplessità. In realtà, è molto più verosimile che Antonello Pagano, il quale il 25 aprile, come segnalato nella copia di una lettera di Guglielmo di Monferrato con la stessa data, si trovava ad Asti, sia giunto a Milano prima dell’invio della missiva tratta dalla minuta avente come destinatari Ottone del Carretto e Nicodemo Tranchedini, ossia prima del 3 maggio. L’errore consiste pertanto nell’avere anticipato il riferimento alla perdita della rocca di Demonte, e quindi all’appena citata minuta con destinatari gli ambasciatori a Roma e a Firenze, e le parole “Dapoy scritte l’altre lettere” si riferiscono alla lettera tratta dalla minuta datata 27 aprile avente come destinatario Nicodemo Tranchedini. L’arrivo di Antonello Pagano a Milano avvenne il 28 o il 29 aprile, determinando il blocco temporaneo dell’invio a Pietro Gallarate di una missiva datata 28 aprile e contenuta nel verso della carta 19 e nel recto della carta 20, entrambe strappate dal Registro 44 (oggi conservate con la numerazione moderna 157 e 158 nel Codice 1595 dell’Archivio Sforzesco che si trova presso la Biblioteca nazionale di Francia), divenuto poi definitivo in seguito alla nascita di Ottaviano Sforza il 30 aprile, per la quale il duca di Milano scrive allo stesso Pietro da Gallarate una lettera datata appunto 30 aprile e presente nel recto della carta 21 del medesimo Registro 44: quest’ultimo evento e l’impressione che l’esito dell’ambasciata sarebbe stato un nuovo corso delle relazioni diplomatiche angioino-sforzesche resero infatti non più attuali alcune informazioni della lettera. Siamo pertanto di fronte a un’altra inversione cronologica, simile a quella presente nella minuta del 27 aprile per Nicodemo Tranchedini e a quella della minuta del 3 maggio per Ottone del Carretto e lo stesso Nicodemo Tranchedini, tutte segnalate dalla presenza dell’avverbio “dapoy”. Tuttavia, nell’ultimo caso della minuta datata 4 maggio riteniamo che rispetto alla sola inversione cronologica vi sia qualcosa di più, da mettere in relazione con la missiva di Pietro da Gallarate non inviata e con il contesto epistolare, per così dire, nel quale essa è inserita, temi su cui torneremo più avanti. Dopo avere ricordato che nella sua epistola datata 27 aprile 1458 in cui Antonio da Trezzo scrive “Tornato la sera a Capua, trovai uno cavallaro cum lettere de vostra celsitudine de dì XIIII° ad mi directive, le quale narrano le novitate facte per lo illustre .. duca de Savoya contra meser Aluyse Bollera, quelli da Cocona’ et li conti de Tenda” “non solo l’ambasciatore sforzesco non precisa se si tratti del mese ‘presente’ o ‘passato’, ma sbaglia anche la data della lettera cui si riferisce, che è il 13 aprile”, possiamo tornare alla corrispondenza Milano-Napoli. Considerato che la prima missiva di Antonio da Trezzo pubblicata alle pagine 375-376 del I volume di Dispacci Sforzeschi da Napoli di Francesco Senatore è datata 29 gennaio 1456, non si può senza alcun dubbio considerare un indizio irrilevante il fatto che la prima lettera nella quale nessun numero del giorno del mese è seguito dalla specificazione di quale mese si tratti è proprio quella datata 27 aprile citata che si trova alle pagine 621-623. Se infatti all’inizio del terzo capoverso sono riportate le parole menzionate sopra, nel primo si citano tre giorni del mese, ma di nuovo senza precisare se si tratti di quello “presente” o “passato”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020431.jpgLa ragione è piuttosto semplice. Si vuole far capire che non ci si riferisce al “XIIII°” del “presente”, data che peraltro, come si è visto, sarebbe sbagliata, bensì del “passato”. Esiste infatti una minuta di Francesco Sforza datata 14 marzo e diretta all’ambasciatore a Napoli all’inizio della quale si legge: “Havemo recevuto le tue lettere de dì XIIII et XVI del passato, con le quale erano quelle ce ha scritto de sua mano la maiestà del signore re et quelle de Bartholomeo de Recanate. Respondiamo ad la maiestà sua de nostra mano per le alligate, la copia de le quale te mandiamo qui inclusa”. La copia della minuta con destinatario Alfonso d’Aragona è datata 17 marzo.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020420.jpgIn una missiva datata 13 aprile “in regiis allogiamentis apud Turrim Sclavorum” Antonio da Trezzo riferisce che “In diversi dì ho recevuto lettere de vostra signoria date a XVII, XXIIII° et XXVIII del passato, et cum quelle una de mane vostra directiva alla serenissima maiestà del signore re”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020421.jpg

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020432.jpgL’ambasciatore a Napoli segnala dunque la ricezione di una missiva del duca di Milano “directiva alla serenissima maiestà del signore re”, ma non la ricezione della lettera cui essa era allegata, ossia quella del 14 marzo. Che si voglia attirare l’attenzione sulle epistole che Antonio da Trezzo riferisce di avere ricevuto nella sua missiva del 13 aprile è confermato dal fatto che la lettera del 19 dello stesso mese inizia con le parole “Per mie de dì 13 et 14 del presente date a Capua”, ma è in effetti arduo stabilire se il 3 di “13” assomigli più a un 2 o a un 3, come trascrive Francesco Senatore alla pagina 618 del I volume di Dispacci Sforzeschi da Napoli senza precisarlo in nota.

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In ogni caso, le motivazioni della dimenticanza dell’ambasciatore a Napoli riguardo alla ricezione della missiva ducale del 14 marzo sono due. Innanzitutto si vuole far comprendere che la richiesta ad Alfonso d’Aragona di intervenire con una lettera riguardo ai rapporti tra Francesco Sforza e Ludovico di Savoia risale al 14 marzo, quindi prima dell’inizio delle iniziative militari del duca sabaudo, volendo far capire che queste ultime sono state concordate e pertanto si tratta di simulazioni. La seconda ragione, dipendente dalla prima, ha a che fare con la “corrispondenza sommersa”. Si vuole far comprendere come la missiva del sovrano datata 25 aprile sia potuta arrivare a Milano allegata a una lettera del 17 dello stesso mese. La spiegazione è appunto che essa era stata richiesta sin dal precedente 14 marzo. Nella cartella Napoli 198 è poi presente una minuta il cui primo destinatario è Antonio da Trezzo e datata 26 marzo riguardante i fatti di Genova all’inizio della quale è scritto: “Da XVIIII° di del presente fin in questo dì, como tu haveray potuto intendere per quello te havemo scritto, l’armata dela maiestà del signore re è in sul porto de Zenova et, per quanto se intende, altro non è seguito, perché el mare né el vento non gli ha servito”. La minuta presenta altri tre destinatari, ossia Ottone del Carretto, Boccaccino Alamanni e Nicodemo Tranchedini. Nella parte che riguarda questi ultimi si legge quanto segue: “In questo dì havemo havuto lettere da Lanzaloto Bosso, date ad Zenova ad XXIII et XXIIII° del presente, de alcune cose sono seguite dapoy per l’altre ve scripsimo, dele quale lettere ve mandiamo la copia inclusa, aciò che del tutto ne possiate avisare la sanctità de nostro Signore et chi vi parirà”. L’accenno alle “lettere da Lanzaloto Bosso” è contenuto anche nella parte della minuta che riguarda l’ambasciatore a Napoli, anche se curiosamente in essa si legge “havemo lettere da Lanzaloto Bosso de dì XXIII et XXIIII° del presente”, vale a dire con il verbo “avere” al tempo presente e non al passato prossimo. Solo nella parte di minuta diretta ad Antonio da Trezzo è però scritto “Da XVIIII° di del presente fin in questo dì, como tu haveray potuto intendere per quello te havemo scritto”, specificando l’ultimo giorno nel quale si sarebbero inviate all’ambasciatore a Napoli informazioni riguardanti Genova. A questo punto è possibile fare alcune osservazioni. Innanzitutto è il caso di precisare che nessuno dei destinatari indicati segnala la ricezione di una missiva datata 26 marzo. L’obiezione che i documenti relativi siano andati perduti non può essere accolta, perché nella sua epistola del 13 aprile Antonio da Trezzo segnala di avere ricevuto lettere “date a XVII, XXIIII° et XXVIII del passato, et cum quelle una de mane vostra directiva alla serenissima maiestà del signore re”. È evidente che, se vi era una missiva in cui avrebbe dovuto segnalare la ricezione della lettera datata 26 marzo, era appunto quella del 13 aprile (nella nota 1 alla pagina 612 di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore scrive: “F. Sforza a da Trezzo, 17, 24, 26, 28.III,1458 […] Nelle lettere del 26 e del 28 F. Sforza comunicò la presenza al largo di Genova della flotta aragonese, ostacolata dal tempo cattivo, e il progresso nei preparativi di Giovanni d’Angiò per l’occupazione di Genova”. Come si può notare, lo studioso non osserva che Antonio da Trezzo non segnala la ricezione della lettera del duca di Milano del 26 marzo. Francesco Senatore precisa inoltre: “[F. Sforza] a A. d’Aragona 16.III.1458”. In realtà, la minuta con destinatario il re è datata 17 marzo, come dimostrano i due punti sovrascritti).

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Non esiste inoltre un documento che confermi che Francesco Sforza abbia inviato all’ambasciatore a Napoli una missiva da cui risulti che riguardo a Genova “Da XVIIII° di del presente fin in questo dì […] tu haveray potuto intendere per quello te havemo scritto”. Nella minuta ducale del 24 marzo, infatti, benché si parli di Genova, non si fornisce alcuna informazione e la precedente è datata 17 marzo. Queste considerazioni vanno di nuovo nella direzione di voler far capire che si è in presenza di una “corrispondenza sommersa”, tanto più se si considera che in modo speculare è possibile farle a partire da una minuta in nostro possesso di cui nessuno segnala la ricezione della relativa lettera. Il fatto che Antonio da Trezzo non scriva di avere ricevuto la missiva datata 26 marzo ha anche altre implicazioni. Prima di tutto è importante considerare la data della corrispettiva minuta. Il 26 marzo 1458 cadde infatti la Domenica delle Palme, che è la domenica che precede la Pasqua e apre la Settimana Santa e che costituisce un riferimento alla “geografia alla rovescia” (della quale si parla nel testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino) rispetto ai toponimi “Saselo” e “Buseria” con i loro riferimenti a una condizione per Ludovico di Savoia di “subiectione” il primo, perché legato a Jean de Seyssel, a capo del partito filo-Carlo VII nel ducato sabaudo, e di liberazione il secondo, in quanto in relazione con la Domenica delle Palme e la Resurrezione del Cristo/delfino (si veda al proposito il testo intitolato L’identificazione Cristo/delfino), che libera Ludovico di Savoia. Che il giorno 26 marzo con il suo riferimento alla Domenica delle Palme implichi un riferimento al concetto di liberazione è evidenziato dal fatto che la minuta con la stessa data precede l’ultima del 28 marzo di cui l’ambasciatore a Napoli segnala la ricezione della relativa lettera nella sua missiva datata 13 aprile, che in modo speculare richiama la prima minuta del 14 marzo. La relazione fra la minuta del 14 marzo e quella del 26 marzo dipende dal fatto che Antonio da Trezzo non scrive di avere ricevuto nessuna delle due corrispettive lettere. D’altra parte, come vedremo e come si è già evidenziato nel testo intitolato Il reale scopo di una “differentia” simulata, la data del 14 marzo ha implicazioni relative proprio alla liberazione del duca sabaudo. La minuta del 28 marzo richiama invece una missiva con  la stessa data di Corradino Giorgi da noi spesso citata in altri testi all’inizio della quale si legge: “la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore [Ludovico di Savoia] per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato”. Che Alfonso d’Aragona fosse, se non proprio implicato, di sicuro interessato alla liberazione del duca sabaudo, se non altro perché si trattava di un colpo inferto al re di Francia proprio mentre egli si apprestava a sostenere le rivendicazioni angioine in Italia, e che la sua epistola del 25 aprile debba essere intesa per così dire alla rovescia, ossia come un intervento in favore di Ludovico di Savoia e non a lui contrario, è confermato da un indizio contenuto nel recto della carta 10 (si noti il numero, da porre in relazione con la minuta ducale intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, nel cui primo capoverso si legge che “Le prese sono X”) del Registro delle Missive 44. La seconda lettera, infatti, non a caso datata “Mediolani, die XXVIII marcii 1458”, all’inizio della quale è scritto “Sicut intelligere debuistis, oportuit quod nuncius noster, quem nuper illuc miseramus pro liberatione salis nostri, deposuerit penes novum .. officialem salis ibidem ducatos septem pro credito quod habere pretendit officialis vetus cum Iohanne Francesco Torto, occasione certi salarii sui”, è diretta “Domino Franco Axer Vicecomiti”. Lette al contrario, le lettere “Axer” equivalgono a “rex A.”, con un riferimento ad Alfonso d’Aragona posto a fianco di “Franco”, nome il quale non può che richiamare Carlo VII.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020381.jpgA conferma dell’importanza della suddetta missiva vi sono alcune sue caratteristiche. Innanzitutto si noti che il nome del destinatario Franco Assereto Visconti che risulta in seguito alla correzione è piuttosto insolito. Nel verso della carta 1 è infatti scritto “Spectabili milite domino Franco Axereto de Vicecomitibus”, nel recto della carta 14 “Domino Franco .. Vicecomitibus de Axereto”, nel verso della carta 23 “Domino Franco de Asereto”, nel recto della carta 28 “Domino Franco de Axereto de Vicecomitibus”, nel verso della carta 29 “Domino Franco Axereto de Vicecomitibus (due occorrenze), nel verso della carta 34 “Domino Franco Axereto” e nel verso della carta 53 “Domino Franco de Vicecomitibus de Axereto”. La prima occorrenza simile a quella del recto della carta 10 si trova all’inizio del verso della carta 135 con “Domino Francho Vicecomitti” in una lettera datata 6 aprile 1459 che precede la copia di una missiva di Gerardo Colli presente nella seconda metà del verso della carta 135 e nel recto della carta 136 e datata “Taurini, die XX martii 1459”. Essa riguarda la questione che Francesco Sforza “Antonio Peloxo de iure non debebat remitti” e a un certo punto si legge: “vedando luy ch’el suo cancellero né lo suo Consiglio non sapeva respondere alli argumenti et raxone qual io li aduxeva, dixit che era contento che vostra signoria facesse de dicto Peloxo como li pariva et piaciva […] Postea vero me ha dicto che vole ch’io facia la Pasqua ad Torino, però che l’ha ad conferire con mi alcune cose. Io, per compiacerli, son stato contento”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020411.jpg

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020412.jpgAntonio Peloso è la persona che all’inizio di settembre del 1458 gli uomini del duca sabaudo avevano consegnato a Francesco Sforza insieme ad Arcimbaldo d’Abzat dopo che quest’ultimo era stato sottratto in circostanze poco chiare ad Ambrosino da Longhignana e che è lecito sospettare possa essere identificato con lo stesso Arcimbaldo d’Abzat (al proposito si veda la parte finale del testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione). In modo piuttosto sibillino la lettera successiva alla copia della missiva di Gerardo Colli, presente nel verso della carta 136 e all’inizio del recto della carta 137, è diretta “Illustrissimo domino delfino vienensi” e datata 5 aprile 1450 e riguarda proprio l’invio al delfino Luigi di Antonio Peloso.

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Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020410.jpgPer tornare alla missiva nel recto della carta 10, bisogna notare che all’inizio della decima riga l’infinito passivo “liberari” è preceduto da quelle che paiono essere due “l” depennate. Al proposito si noti che nella lettera all’inizio del verso della carta 10, diretta “Ser Venture de Montesicardo” e datata 31 marzo, si accenna all’imminente Pasqua: “Inteso quanto per una toa tu ne scrivi del facto di quella strata nova de la […] etc., dicemo, respondendoti, che per quella casone et anche per altre havemo ad parlare teco. Però volemo che mercorì o zobiadì inmediate sequenti a questa proxima festa de Pascha debii venire qua da nuy”. Inoltre, alla fine della penultima riga della missiva diretta “Domino Franco Axer Vicecomiti” è presente la precisazione abbreviata “ut supra”, che va quasi oltre il corpo della lettera finendo nel margine destro e che pare caratterizzata da una certa ambiguità, dovuta alla volontà di sottolineare la data della missiva. Se infatti si riferisce alle precedenti tre parole del testo “maxime extantibus satisdationibus”, essa sembra pleonastica. Se invece si riferisce alla data della missiva precedente, che si noti essere diretta “Domino magistro conventus Rhodi” e la cui data è appunto “die XXVIII marcii 1458”, allora a essere pleonastica è la data che la segue. La lettera è inoltre la prima del Registro 44 a presentare le sottoscrizione di tre cancellieri, ossia “Antonius”, “Iohannes” e “Cichus”, caratteristica piuttosto inconsueta secondo Francesco Senatore, il quale a pagina 104 di Uno mundo de carta scrive: “La sigla del registratore […] solo eccezionalmente viene riportata anche nei registri” (le due più solite sottoscrizioni riguardano “il cancelliere che ha redatto la minuta” e “quello che ha apposto la sua sottoscrizione autografa sull’originale”, il quale “in genere” è Cicco Simonetta). Una seconda missiva con le stesse tre sottoscrizioni si trova nella seconda parte del verso della carta 10. Esse sono disposte in modo del tutto simile rispetto alla prima lettera, solo che in quest’ultima vengono dopo “Mediolani, die XXVIII marcii 1458”, nella seconda, che è l’ultima del 28 marzo, dopo “Mediolani, XXVIII marcii 1458” senza il sostantivo “die”, in modo da dare risalto alla data cronica. È il caso di precisare che le due missive sono legate dallo stesso argomento, anche se la seconda è diretta “Potestati Gavii”, contiene un accenno all’“officio Sancti Georgii” assente nella prima ed è l’unica di tutte le lettere datate 28 marzo a non presentare la parola “die”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020382.jpgPer chiudere il discorso relativo al Registro delle Missive 44, che comunque potrebbe essere più ampio, rileviamo che alla fine del verso della carta 9, disposta quasi a specchio rispetto alla lettera diretta “Domino Franco Axer Vicecomiti”, si trova un’insolita nota redazionale che reca come intestazione la data topica e cronica. Essa è la seguente: “Mediolani, die XXVIII marcii 1458. Scriptum fuit domino Angelo Ravascherio, comiti Lavanie, ut apparet in libro, videlicet registro, Petri Antonii in folio 144. Et fuit error”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020380.jpgA fare da pendant a quanto sin qui scritto in merito all’idea di liberazione vi è la data topica della lettera del 13 aprile di Antonio da Trezzo nella quale egli non segnala di avere ricevuto una missiva datata 26 marzo mentre segnala la ricezione di una lettera del 28 marzo. Come si è detto, essa è significativamente “in regiis allogiamentis apud Turrim Sclavorum” e altrettanto significativamente, consultando l’Indice dei luoghi del I e del II volume di Dispacci sforzeschi da Napoli di Francesco Senatore, risulta essere l’unica occorrenza (d’altra parte, la stessa lettera di Alfonso d’Aragona del 25 aprile prima di “die XXV mensis aprilis MCCCC°LVIII” riporta la data cronica “apud Turrim Sclavorum”). Nella missiva del 13 aprile il concetto di “subiectione” è ribadito dal fatto che dopo la data e prima della firma dell’ambasciatore a Napoli è scritto quanto segue: “Dapoi la morte de la schiava del castellano de Castelnovo non è innovato altro de peste et credesse che d’altro male morisse”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822013020430.jpgL’importanza della suddetta data topica è confermata dal già citato inizio dell’epistola di Antonio da Trezzo datata 19 aprile, nel quale, come si ricorderà, si legge: “Per mie de dì 13 et 14 del presente date a Capua”. Occorre rilevare che il toponimo è puntuale se riferito alla missiva del 14 aprile, ma generico rispetto alla lettera del 13 dello stesso mese, soprattutto se si considera che nel testo di quella del giorno dopo è scritto “che martedì [sua maiestà] vegneria ad allozare presso la Torre de li Schiavi nel Mazone presso el fiume Vulturno (non si capisce perché per l’epistola del 14 aprile alla pagina 617 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore abbia indicato come data cronica “Gaeta”, quando poi nell’Indice dei documenti del II volume per numerose lettere ha indicato “Capua”).

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Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-01-30-a-21.50.01.pngNella medesima lettera del 13 aprile al concetto di “subiectione” espresso alla fine fa però da contraltare l’intestazione “Yesus” del documento, che rimanda al tema delle ricezioni avvenute e mancate delle missive ducali datate 26 e 28 marzo e quindi all’idea di liberazione. Si noti che nel I volume di Dispacci Sforzeschi da Napoli di Francesco Senatore vi sono tre lettere di Antonio da Trezzo recanti il nome “Yesus” all’inizio e la prima è proprio quella del 13 aprile. Specifichiamo che anche le altre due missive hanno a che fare con la vicenda di Ludovico Bolleri/Ludovico di Savoia/delfino Luigi (in latino “Ludovicus”, come spiegato nel testo intitolato Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto). La seconda è infatti del 3 maggio, festa dell’Invenzione della Croce e data della lettera di Corradino Giorgi in cui egli annuncia che il giorno successivo Giorgio Piossasco partirà per Centallo (si veda al proposito la parte iniziale del testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione); la terza è datata 17 maggio e nel settimo capoverso si legge quanto segue: “Essa maiestà ringratia la celsitudine vostra del’aviso gli dati de la natività del novo figliolo, del quale dice receve quella consolatione et piacere che s’el fosse nasciuto alla sua maiestà propria, perché tuti vostri figlioli ama come suoy”. Queste parole sono in risposta a un’epistola presente alla fine del verso della carta 28 del Registro delle Missive 42 che reca come primo destinatario “Magnifico Cosmo de Medicis” e il cui testo è il seguente: “Perché sapiamo per la mutua benivolentia et carità vostra che de ogni felicità nostra prenderite quello piacere et consolatione prendiamo noy medesmi, ve avisamo como la illustrissima madonna Bianca, nostra consorte, questa matina al levare del sole ha parturito uno putto maschio et per divina gratia secondo el caso sta bene et sono in bona convalescentia”. È poi aggiunto: “In simili forma, mutatis mutandis, infrascriptis, videlicet”. Seguono quindi nove destinatari, fra i quali vi sono “Nicodemo de Pontremulo”, “Domino Othoni de Carreto, Rome” e “Antonio de Tricio in Neapoli”. La suddetta missiva è significativamente preceduta da una datata 29 aprile diretta “Reverendissimo in Christo patri et domino patri nobis optimo, domino magistro Ospitalis Iherusalem et conventus Rhodi” il cui testo è il seguente: “Revendissime in Christo pater et domine pater optime. Proficiscenti magnifico nepoti nostro carissimo Roberto de Sanctoseverino, harum exhibitori, et lunga peregrinatione petenti ierosolimam caritatem ut sanctissimum Salvatori nostri sepulcrum visitet, commissimus nonnulla que amplissime dominationi vestre nostro nomine explicabit”. Segue una nota redazionale composta da tre parti e preceduta dalla data del 29 aprile: “Facte fuerunt littere credentiales in personam Caroli Bosii ituri Rodum et Yerusalem super facto milii dirrete: domino magistro Hospitalis Ierusalem et […] prioribis et proceribus conventus Rhodi; item domino Sergio de Sperando, admiragio Rhodi, et priori Sancte Eufemie” (è il caso di notare che nella prima occorrenza il toponimo “Ierusalem” è abbreviato in modo errato “Ylrm”, nella seconda invece correttamente “Irlem”).Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-01-30-a-17.09.20.pngA proposito del viaggio di Roberto Sanseverino può essere utile aprire una parentesi, perché nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Marchese da Varese, ambasciatore ducale a Venezia, esso si incrocia con la parte conclusiva di quello di Alessandro Sforza (al proposito si vedano i testi intitolati Marchese da Varese, tre lettere non autentiche, il viaggio di Alessandro Sforza e Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino). Nel secondo capoverso di una minuta datata 30 aprile il duca di Milano avvisa infatti l’ambasciatore a Venezia che “Roberto, nostro nepote, quale questa matina s’è partito de qui informato de quanto fin qui habiamo de novo, referirà da nostra parte el tutto ala prefata illustrissima signoria”: si noti che nel primo capoverso dello stesso documento Francesco Sforza riferisce che “questa matina in ortu solis […] la illustrissima madona Biancha, nostra consorte, ce ha parturito uno bello putto”; poi in una lettera del 2 maggio di Marchese da Varese si legge: “Mando alcune copie haute da soa signoria pur sopra fatti de Ungaria et sopra la ritornata del signore Alisandro”; il 5 dello stesso mese l’inviato del duca di Milano scrive: “Soa signoria me fece legere una lettera hauta dali rectori de Verona ch’el signore Alisandro doveva giongere lì, andare a Mantova et venire dala signoria vostra. Dapoy dicano haver parlato con uno Iacomo calzolaro, suo fameglio, lo quale gli à ditto ch’el non fa quella via, ch’el vene qui dritto a Venetia” (in effetti nella “Copia litterarum dominorum rectorum Verone” in nostro possesso, che è datata 25 aprile 1458 e cui si è accennato nei testi intitolati Marchese da Varese, tre lettere non autentiche, il viaggio di Alessandro Sforza e Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Trezzo, non si legge che Alessandro Sforza ha intenzione di tornare dal fratello, come approfondito nel primo dei due testi citati); quindi in una missiva di Marchese da Varese datata 7 maggio risulta scritto: “Pur questa matina soa signoria m’à fatta legere una lettera gli scrive lo podestà da Treviso ch’el signore Alisandro ieri gionse là. Oggi si ferma. Domane, lune 8, vene a Mestre. L’altro serà qui. Soa signoria ha mandato da me pur ditto ser Bertucio se io sento cosa nesuna del suo alogiare qui. Gli ò fatta risposta che, aspectando lo signore Ruberto, credo verrano quasi in medesmo dì. […] Scrivendo questa, è venuto inanze Angelo d’Atri, suo fameglio, mandato da me per consigliarse del suo alogiare”; l’8 maggio l’ambasciatore riferisce che “Lo magnifico miser Ruberto gionse qui, smontato in casa soa. Questa matina visitò lo principe et signoria, dala quale fo gratamente veduto”, aggiungendo poi: “Dapoy soa signoria me disse perché credeva che, alogiando qui lo signore Ruberto, lo signore Alisandro non gli porrea stare, che soa signoria gli à fatto aparecchiare a San Georgio Domane serà qui. Questo Angelo, suo fameglio, me dise, visitato ch’el abia lo principe et signoria, veduto qualche dì de queste giostre et feste, se ne verrà dala signoria vostra”; a questo punto segue la minuta ducale datata 11 maggio diretta a Marchese da Varese di cui si parla nella parte finale del testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino, nella quale Francesco Sforza scrive, riferendosi al fratello, “volemo […] per tore via ogni ombreza che potesse nascere in le mente de veruno, che luy per niente non debia venire qui, ma el se ne debia andare de deritura a Pesaro”; in una missiva dello stesso 11 maggio Marchese da Varese scrive: “Lo signore Alisandro gionse qui. Grande honore gli è fatto. Lo principe et signoria gli mandò scontro XII gentilomeni un bon pezo verso Mestre. Lo magnifico signore Ruberto, quisti soy gentilomeni et io similmente acompagnassemo fin a San Georgio, dove gli è aparechiato honorevolmente […] L’altro dì gli fece compagnia ala visitatione del principe et signoria. […] Dise volere venire dala signoria vostra partito de qui. […] Lo signore Ruberto […] partirà sabato XIII de nocte et andarà […] per tutti quigli lochi di Terra Sancta de Ierusalem del Salvatore”; il 12 maggio l’ambasciatore riferisce: “Ieri fossemo in Bucientoro ala compagnia del principe et signoria. Con grande triunpho et aparechio si andò sposare il mare, […] poy alo disnare insieme col principe, signoria et gentilomeni circa XL, secondo l’usanza, continuamente soa signoria in mezo deli signori Alisandro et Ruberto, in vero gratiosamente honorati et ben veduti et sempre con assay dolcieza con molti rasonamenti”; quindi in una minuta ducale datata 13 maggio si legge quanto segue: “Her sera recevessemo la toa lettera de dì 8 del presente per la quale restamo advisati de quanto expose Roberto, nostro nepote, ad quella illustrissima signoria et quanto tu etiamdio li dicesti in lo facto del duca de Savoya et delo allogiamento apparechiato in San Zorzo per Alexandro, nostro fratello, siché non accade dire altro, se non che de tucto te commendiamo de tucto. Ben te recordiamo che tu fazi l’ambaxiata ad Alexandro predicto secondo se contene in l’altra nostra lettera che te scripsimo sopra ciò mo è el terzo dì quando vedi ch’el voglia venire qui, come tu scrivi che quello Angelo d’Atri, suo famiglio, te ha dicto volergli venire”; in una missiva del 15 maggio Marchese da Varese scrive: “Anday dapoy a San Georgio dal signore Alisandro, col quale, doppo altri rasonamenti, con bon modo intray del partire suo et del camino ch’el pigliarea. Rispose ch’el […] poy ha a caro la venuta delo illustre duca de Modena domane qui per visitarlo, che dapoy partirà quanto più presto el possa, che de dritto el vole venire dala signoria vostra […]. Alora gli mostray la propria lettera che la signoria vostra m’à scripto. Luy stesso subito me disse che per la fede soa quasi ne stava suspeso de medesmo parere […] che mo, essendo accadute le cose di Gienova in questa forma, mezo mezo fra si stesso ne stava in bilancia et pur per lo debito suo gli pariva di dover venire, che mo, essendo chiaro dela intentione soa, vole che questa cosa si tenga molto secretta et per più secretto dise non volerne fare altra risposta ala vostra signoria, che per modo del mondo non vorrea essere casone de dargli nesuno carico [a proposito del termine “carico” si veda la parte finale del testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero], ch’el andarà a Pesaro secondo la comanda et, si volendo ch’el vada altrove, altrove andarà, et, si volendo ch’el vada in sul queste galee del Sepulcro insieme col signore Ruberto et quisti altri, ch’el gli andarà, tutto per fare cosa che gli piacia, che troppo viverea malcontento si facendo altramente”; infine in una minuta di Francesco Sforza datata 20 maggio si legge: “Al facto de Alexandro, nostro fratello, non te dicemo altro, perché semo certi che ala recevuta de questa el serà partito de lì et andato verso Pesaro, come scrips tu ne hay scripto”. Chiusa la parentesi e per chiudere anche il discorso relativo alla nascita di Ottaviano Sforza cui accenna Antonio da Trezzo nella sua lettera del 17 maggio, può essere il caso di rammentare quanto già scritto, ossia che a essa si accenna anche in una missiva del Registro 44 diretta a Pietro da Gallarate “datata […] 30 aprile e presente nel recto della carta 21”, la quale, come si è rilevato nel testo intitolato Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Ottone del Carretto, sottolineandone le implicazioni, per via della “s” di “ortus” depennata risulta collegata ad altre due missive dello stesso Registro 44. Ricordiamo che il suo testo è il seguente: “Per tua consolatione te advisamo como questa matina in ortus solis la illustrissima madonna Bianca, nostra consorte, ne ha parturito uno bello putto et così segondo el caso essa nostra consorte cum lo puto stano bene, per la Dio gratia, et sonno in bona convalesentia”. L’importanza di questa lettera dipende dal fatto che, come vedremo alla fine di questo testo, essa stessa e il contesto epistolare in cui è inserita è da porre in relazione con la Resurrezione del Cristo/delfino, che libera Ludovico di Savoia e in un certo senso libera anche Francesco Sforza. A questo punto possiamo passare a esaminare la corrispondenza Milano-Firenze. Come si ricorderà, nel primo capoverso del post scriptum della sua minuta datata 27 aprile Francesco Sforza sbaglia due volte: in primo luogo assegna al 20 aprile la lettera di Nicodemo Tranchedini che è del 19 dello stesso mese; poi, quando riassume le precedenti missive da lui inviate, compie una significativa e rivelatrice inversione cronologica, scrivendo che la lettera del 13 aprile precederebbe quella datata 7 aprile. A proposito del primo sbaglio abbiamo scritto che esso serve “per preparare il lettore all’errore ben più rilevante che segue poco dopo”. Tuttavia esso ha anche un’altra implicazione, ossia attirare l’attenzione sul post scriptum del 20 aprile, nel quale si accenna a Cosimo de’ Medici e che abbiamo detto contenere “un passaggio piuttosto sibillino”. Quest’ultimo è il seguente: “Heri sera hebi la vostra de 16 cum le copie da Zenoa de 14. […] È parso una meraviglia a Cosimo et meser Angelo che le lettere de 14 da Zenoa siano venute là poy qui in cinque dì”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217140.jpgDella “vostra de 16 cum le copie da Zenoa de 14” esiste la copia dell’originale, che approfondiremo più avanti. Il suo testo è il seguente: “Per continuare in darte aviso de quello alla zornata delle cose de Zenova, te mandiamo le incluse copie havute in quest’hora, le quale legerai al magnifico Cosimo, così ad misser Angelo, et te governaray como parirà alla sua magnificientia in questo facto, havendo cura che de queste littere non se cavino copie né fazano parangoni, per non mettere in periculo de scandolo quelli ne avisano fedelmente”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217121.jpgPer comprendere il suddetto “passaggio piuttosto sibillino”, bisogna ricordare che all’inizio della minuta del 27 aprile, non quindi nel successivo post scriptum, Francesco Sforza scrive: “Questi dì recevemo una tua lettera del penultimo del passato per la quale ne avisaste del parentato contracto fra Olivero, figliolo del spectabile miser Azo, marchese Malaspina da Mulazo, et Lunesina, tua figliola, la qual cosa ne è stata molto grata et havemone havuto piacere assay”. Come si noterà, il fatto che in una minuta datata 27 aprile si segnali che “Questi dì” è stata ricevuta una lettera del 30 marzo precedente pare smentire la rapidità per cui “a Cosimo et meser Angelo” sia “parso una meraviglia” “che le lettere de 14 da Zenoa siano venute là poy qui in cinque dì”. In realtà le cose stanno proprio come si afferma nel “passaggio piuttosto sibillino”, vale a dire che la “corrispondenza sommersa” fra il duca di Milano e il suo ambasciatore a Firenze o, per meglio dire, le “corrispondenze sommerse” tra Francesco Sforza e i suoi inviati a Firenze, Napoli, Roma e Venezia erano molto più fitte di quanto possa sembrare negli epistolari in nostro possesso, nel senso che le missive viaggiavano, per così dire, a una velocità molto più elevata, tanto è vero che esiste un’altra lettera datata 30 marzo di Nicodemo Tranchedini di cui il duca di Milano segnala la ricezione in una sua minuta del 5 aprile, fondamentale, come vedremo, anche per comprendere la corrispondenza Milano-Roma. All’inizio del terzo capoverso di quest’ultima si legge infatti: “Alle parte tu ne scrivi per queste ultime del penultimo del passato”; all’inizio della prima l’ambasciatore scrive invece: “Già sey dì fa Cosimo hebe una vostra de 14 del presente”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217120_0001.jpg

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Si arriva così alla minuta del 14 marzo di Francesco Sforza che reca come destinatario “Cosmo de Medicis de Florentia”, anch’essa dunque rivelatrice, come la minuta con la stessa data diretta ad Antonio da Trezzo cui è allegata una missiva per Alfonso d’Aragona datata 17 marzo, del fatto che “la richiesta” a Cosimo de’ Medici “di intervenire […] riguardo ai rapporti tra Francesco Sforza e Ludovico di Savoia risale al 14 marzo, quindi prima dell’inizio delle iniziative militari del duca sabaudo, volendo far capire che queste ultime sono state concordate e pertanto si tratta di simulazioni”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217110_0001-1.jpg

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217110_0002.jpgTale osservazione non deve stupire, perché, come si è notato a proposito dell’inversione cronologica commessa dal duca di Milano nella sua minuta del 27 aprile, con essa “si vuole fare intendere al lettore quanto avvenuto in realtà, che in parte consiste proprio in ciò che è scritto, ossia che Francesco Sforza ha avvisato Nicodemo Tranchedini […] riguardo l’‘insulto’ del duca di Savoia ‘contra quelli vostri confederati et re comandati etc.’ non il 13 aprile, quando pare informare i suoi ambasciatori presso le maggiori potenze della Lega italica del comportamento del duca sabaudo, bensì prima del 7 dello stesso mese, giorno in cui scrive a Corradino Giorgi nella ‘storia alla rovescia’; quindi nella minuta del 27 aprile commette l’errore ‘rivelatore’”. A questo punto possiamo proseguire con una considerazione in merito alla missiva di Nicodemo Tranchedini del 30 marzo di cui il duca di Milano segnala la ricezione nella sua minuta del 27 aprile scrivendo che “Questi dì recevemo una tua lettera […] per la quale ne avisaste del parentato contracto fra Olivero […] et Lunesina, tua figliola”. Limitandoci al momento alla minuta, non si può non rilevare come i nomi delle persone che si sposano paiono essere piuttosto significativi. “Lunesina” rimanda inequivocabilmente alla Luna, il cui primo plenilunio della stagione primaverile è determinante per stabilire la data della Pasqua. D’altra parte “Olivero” è in relazione con il sostantivo “olivo”. Se si cerca di approfondire, alla voce “Olivi (monte degli)” alle pagine 1199-1200 del Volume secondo del Dizionario della Bibbia di André-Marie Girard si legge: “Collina di Gerusalemme separata da quella del Tempio dalla valle del Cedron” […] Il Cristo […] vi passò certamente le notti che precedettero il suo arresto”. La voce seguente “Olivi (orto degli)” rimanda a “Getsemani”. Alla pagina 194 del Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte di James Hall questo microtoponimo rimanda alla voce “Preghiera nell’orto”, che si trova alla pagina 338, dove si legge: “Dopo l’Ultima Cena e subito prima del suo arresto, Gesù si ritirò a pregare sul monte degli Ulivi”. Tornando ad André-Marie Girard, alla voce “Getsemani”, che a sua volta si trova alle pagine 622-624 del Volume primo, è scritto: “I vangeli di Matteo e Marco citano questa località situandola con precisione, nella valle del Cedron, ai piedi del Monte degli Olivi. Giovanni osserva che in quella località, il cui nome significa ‘frantoio per le olive’, c’era un giardino”. Poi aggiunge: “Ivi Gesù passò in preghiera la notte dell’ ‘agonia’ che precedette il suo arresto che fu l’inizio della Passione. Uscendo dal Cenacolo dove aveva consumato il banchetto pasquale e istituito l’‘Eucarestia’, vi si recò insieme agli Undici”. A questo punto non si può non osservare che, considerato che nel 1458 la Pasqua fu celebrata il 2 aprile, l’Ultima Cena e la successiva “Preghiera nell’orto” chiamato Getsemani erano cadute proprio il 30 marzo, data della missiva di Nicodemo Tranchedini con la quale egli avvisa Francesco Sforza “del parentato contracto fra Olivero […] et Lunesina”. D’altra parte, se si legge quest’ultima, si scopre che “hogi tezo dì Olivero, primogenito d’esso messer Azo, sposò col nome de Dio Lunesina, mia figliola”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822020217111.jpg

Il matrimonio è dunque avvenuto il 28 marzo, che è proprio la data della lettera sopra citata di Corradino Giorgi in cui si accenna alla liberazione di Ludovico di Savoia scrivendo che “la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato”. Naturalmente non si vuole sostenere che le nozze siano state combinate, per così dire, ma semplicemente che per via delle implicazioni che avevano si è deciso di parlarne nella missiva di Nicodemo Tranchedini datata 30 marzo. Prima di proseguire esaminando la corrispondenza Milano-Roma, è opportuno approfondire due aspetti. Il primo riguarda la copia dell’originale citata sopra, datata 16 aprile e avente come destinatario “Nicodemo de Pontremulo”. Chi abbia una minima famigliarità con il Fondo Sforzesco non può non sapere che si tratta di un documento insolito. Certamente incuriosice che esistano anche due copie piuttosto simili dirette a Ottone del Carretto e Antonio da Trezzo. Nella prima si legge: “De tutto quello havemo inteso alla zornata delle cose de Zenova nuy te havemo continuamente scripto. Per hora non ne occorre altro de novo degno de aviso, se non quanto vederete per le copie incluse, le quali porrete legere alla sanctità de nostro Signore, dicendo alla sua sanctità che nuy de tutto quello havemo de hora in hora participamo con la sua sanctità, ma habbia cura che de queste littere non se cavino copie né fazano parangoni, per non fare scandolo ad quelli ne fano li avisi, facendone massaritia como ve parirà espediente”.

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Nella seconda è invece scritto così: “Como tu hai veduto, nuy continuamente te havemo dato aviso de quanto havemo havuto delle cose de Zenova, perché de tucto facessi notitia alla sacra maiestà del re. Novamente havemo havuto da Zenova et dal Finaro quanto vederai per le incluse et mandamote l’originale della littera de Biasio da Grado. Pertanto volemo debbii leg[er]e dicte lettere ad la prefata maiestà et fargli intedere quanto havemo nuy de qua fin in quest’hora, quantunche credemo la maiestà sua ne debbia havere più presto dellà, havendo però ti cura che de queste lettere non sia cavato copie né facto altro paragone, per non dare caricho ad quelli ne avisano con lo duxe, quale è periculoso, como tu say. Et avisarai la sua maiestà como, vedendo nuy le conditione passano de queste cose de Zenova, mandamo ad la sua maiestà lo reverendo monsignore vescovo de Modena, nostro consigliero, quale se partirà subito”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 20220204110000_00002.jpgCome si sarà notato, quest’ultima copia contiene un accenno al vescovo di Modena Giacomo Antonio Della Torre assente negli altri due documenti. Nella corrispondenza con Nicodemo Tranchedini e Ottone del Carretto il riferimento al vescovo di Modena compare infatti in due minute datate 22 aprile. Nella prima si legge: “In questi proximi dì passati havemo ricevuto alcune toe littere et inteso ad pieno quanto per quelle tu ne scrivi. Et, perché in esse se contenevano pure cose importante et et digne de molta consideratione et consultatione, non se siamo curati de farti presta resposta, ma, como già più dì fa haveamo deliberato de fare, zoè de elegere una persona digna da mandare in nome nostro ad quella excelsa Signoria, havemo electo el reverendo monsignore el veschovo de Modena, nostro consigliero, quale parte hozi per venirsene lì et anche andarà a Siena, Roma et Neapoli. Et da luy intenderay quello serà da fare” (si noti la congiunzione “et” ripetuta fra “cose importante” e “digne de molta consideratione”).Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 20220204110000_00003.jpgNella seconda risulta invece scritto così: “Havemo ricevuto le vostre littere de dì VI et XIII del presente et inteso quanto per quelle ne scriveti. Per adesso non vi facemo altra risposta particulare, però che per lo reverendo monsignore lo veschovo de Modena, nostro consigliero, quale mandiamo ala sanctità de nostro Signore et anche andarà fino ad Napoli et lo quale parte hozi de qui per venirsene via, voi intendereti quello havereti da fare circa le expeditione de più cose”. Tornando di nuove alle copie dell’originale, chi abbia una minima famigliarità con il Fondo Sforzesco troverà senza dubbio curioso che in tutte e tre si ricorra all’insolita espressione “non se […] fazano paragoni”. Quest’ultima precisazione, dai risvolti beffardi, ha un’implicazione minore e due maggiori collegate fra loro. L’implicazione minore riguarda l’apparente consiglio di non compiere paragoni fra i documenti all’interno delle corrispondenze con i singoli ambasciatori, con il quale in realtà si vuole comunicare l’esatto opposto. La prima implicazione maggiore concerne invece il suggerimento di non compiere paragoni fra gli epistolari di Francesco Sforza con i suoi inviati a Firenze, Roma e Napoli e la corrispondenza fra Milano e Venezia. Per comprenderla, è in primo luogo necessario ribadire che nella copia dell’originale con destinatario Antonio da Trezzo è presente l’accenno a Giacomo Antonio Della Torre, assente negli altri due documenti analoghi, particolarità con la quale si vuole sottolineare di fare caso proprio a come viene gestita l’informazione relativa al viaggio del vescovo di Modena nell’epistolario con Marchese da Varese. Innanzitutto bisogna notare che in quest’ultimo non si trova alcuna copia dell’originale, ma solo una normale minuta il cui testo è il seguente: “Havemo recevuto la toa lettera de dì X del presente con la copia inclusa dela lettera ha havuto quella illustre signoria dal suo secretario in Buda, contenente le conditione de Hungaria et quello se senteva del turcho, le qual cose ad noy sonno state molto grate ad intendere, del che volemo regratii sumamente essa illustre signoria, ala quale etiandio monstreray le copie incluse dele lettere che questa sera havemo recevuto de verso Zenoa, per le quale intenderà come la cosa de Franza molto se rescalda et molto e de quello che più oltra ne haveremo te ne daremo subito adviso. […]”. Segue quindi una “Poliza” in cui si legge: “S’el te paresse che la copia dela lettera de domino Iohanne dal Carretto non fusse da monstrare, non la mostrare. De Polo Mo”. Che “le copie incluse dele lettere che questa sera havemo recevuto de verso Zenoa”, di cui una è “de domino Iohanne dal Carretto”, siano le stesse inviate presso le altre tre potenze della Lega italica è confermato dal fatto che nella risposta fornita da Antonio da Trezzo nella sua missiva del 3 maggio si legge: “Inteso quanto la illustrissima signoria vostra me scrive per sue de dì XVI del passato, me so’ tranferito alla serenissima maiestà del re al Mazone et factoli intendere quanto in le lettere de meser Giohanne del Carreto et Biasio da Gradi se contenne et così significatoli la venuta qua del reverendo monsegnore lo .. vescovo de Modona etc.” Rispetto alla corrispondenza con Venezia il punto focale è proprio costituito da Giacomo Antonio della Torre, riguardo al quale non vi è alcuna minuta datata 16 o 22 aprile. Vi è invece una minuta datata 10 maggio all’inizio della quale si legge: “Expectando nuy che tu ne rispondesti circa quanto ordinassemo che te fusse scripto circ’al mandare che havemo facto del reverendo monsignore vescovo de Modena a la maiestà del re de Aragona, havemo trovato che la lettera che veniva a ti per dicta casone per errore è stata mandata verso Roma Cosimo Frenza, del che ne havemo preso despiacere per non essere adimpito quello che fu de intencione nostra, che ad quella illustrissima signoria tu dessi noticia de la casone de dicta mandata. Siché tu faray sopra de ciò la excusa nostra ad la prefata illustrissima signoria”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 20220204110000_00001.jpg

Precisato che nel testo pare non leggersi né “Firenza” né “Franza”, ma proprio “Frenza”, per comprendere appieno la minuta bisogna considerare quanto scritto nella parte iniziale del testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione, cui si rimanda perché sarebbe troppo lungo riproporla qui interamente. In questa sede possiamo riassumerla come segue, aggiungendo alcuni particolari. In risposta alla minuta ducale datata 7 aprile, più volte citata in questo testo, nella sua missiva del 18 dello stesso mese Corradino Giorgi, ambasciatore sforzesco in Savoia, scrive: “A dy XV del prescente ho recevuto queli doy libri [si tratta della Bibbia e del De natura animalium attribuito ad Alberto Magno] e una cum le lettere de vostra signoria, ale quale respondendo dicho ho prescentato ly suprascripti libri a questo illustrissimo signor, ly quali ly sono stati gratissimi et acceptatissimi, del che ne rende soa signoria gratie infinite a vostra signoria, offerendosse semper propitio et favorevele ad ogni cossa grata a vostra signoria, pregando quella che anchora vogla fare durare uno pocho de faticha a fare retrovare quelo Vincentio ‘De speculo ystoriali’ [si tratta dello Speculum Historiale di Vincenzo de Beauvais] e farali vostra signoria cossa molto gratissima. Poy ly feci l’ambasciata ho vero lamenta per parte de vostra signoria, monstrandoli le lettere me havea scripto vostra signoria circha quela materia, le quale intexe me fece questa resposta, videlicet che da quelo giorno al scequente non era longa distantia he che alora farebe vostra signoria restare bene contenta. Il dy scequente me fece dire che le insolentie facte contra domino Honorato, conte de Tenda, he cusì contra le altre terre de domino Aloysse Bollero erano facte contra et preter voluntatem suam et queli erano a quela impresa havevanno passati ly termini dely comandamenti e instrutione a lore dacte et che per evidentia de ciò mandava a farli retrare dale impresce […] per la executione dela revocatione de la gente he de le insolentie facte soa signoria manda el spectabile cavalero de Santo Iohanne, domino frate Georgio da Piozascho, comandatore e gubernatore de Vercelle, parente strecto de dicto domino Aloysse, lo quale anchora debe ponere campo intorno a Centallo a nome de dicto domino Aloysse e fare ogni cura e solicitudine de havere Arcimbaldo in le mane”.

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Il problema o, meglio, la simulazione del problema è che il 3 maggio Giorgio Piossasco non è ancora partito per Centallo. Corradino Giorgi scrive infatti: “Item oze ho intex uno ambaxadori signoria de Venetia esere stato dal re de Franza in forma de marchadante h retornato indreto, lo qual ha habuto dire havere concluso bona inteligentia fra lo prenominato re de Franza e la signoria de Venetia. Anchora se dice la predicta signoria de Venetia havere fornito Trento de consensu del vescho. XXX Item quelo frate Georgio del quale ho scripto ala signoria vostra deveva esere mandato a levare le ofese et metere campo a Centalo anchora non è partito, ma domane se parte he vene a quele parte per adinpire tuto quelo ho scripto ala signoria vostra questi dì passati”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 20220204110000_00006.jpgQuindi in una lettera datata 5 maggio si legge: “Ha potuto intendere vostra signoria per quanto scrisse per lo cavalaro […] che le novitate facte contra le altre terre de dicto domino Aloysse et del conte de Tenda eranno facte et ocorsse contra et preter voluntatem suam [di Ludovico di Savoia] et che cusì fosse mandava frate Zorzo da Piozascho per levare le offese etc. […] Ha potuto anchora intendere vostra signoria la liberatione de dicto domino Aloysse per altre mie. Ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui per andare ad exquire tuto quelo ho scripto a vostra signoria circha ali facti de domino Aloysse”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45821091214010.jpgSi noti l’inversione da “intendere vostra signoria”, espressione riferita alla precedente lettera del 30 aprile, a “vostra signoria intendere”, espressione riferita al tema della partenza di Giorgio Piossasco annunciata nella missiva del 3 maggio, inversione poi ripresa, come vedremo, da Francesco Sforza sotto forma di inversione cronologica in una sua minuta datata 12 maggio. Si osservi inoltre come nel testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione a proposito della missiva datata 5 maggio si sia notato che “la partenza di Giorgio Piossasco è segnalata in modo curioso, perché […] nella sua missiva del 3 maggio l’ambasciatore non scrive propriamente della ‘partita de fra Zorzo’, ma che il cavaliere gerosolimitano ‘anchora non è partito, ma domane se parte’, ossia che si sarebbe recato a Centallo il giorno successivo il 3 maggio, che è diverso. La ragione dipende dal fatto che la parziale ambiguità della lettera del 3 maggio di Corradino Giorgi consente a Francesco Sforza di evidenziare la propria fretta. Il duca di Milano, infatti, simulando di essere spazientito, non aspetta un giorno in più” e, per creare una prova esterna nella corrispondenza con Marchese da Varese (la seconda; la prima si trova alla fine del febbraio precedente), in una minuta datata 10 maggio, quindi non casualmente come l’altra relativa al vescovo di Modena Giacomo Antonio Della Torre, scrive all’ambasciatore a Venezia che “per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 20220204110000_00007.jpgQuindi, per riprendere di nuovo il testo Da una prova esterna a due errori di datazione, “per giustificarsi con Venezia, nel caso fosse necessario, nella sua minuta del 12 maggio diretta all’ambasciatore in Savoia, pur sapendo perfettamente che in realtà il cavaliere gerosolimitano è partito, il duca di Milano segnala di avere ricevuto missive datate 30 aprile, 2 e 3 maggio (scrive infatti ‘rispondendo a tre toe lettere date al’ultimo del passato et II et III del presente’), assegnando al 2 maggio la lettera del 5 dello stesso mese, con il risultato che in base alla missiva del 2 maggio Giorgio Piossasco risulta partito, mentre secondo quella del 3 che partirà il giorno dopo. L’impazienza di Francesco Sforza nell’inviare a Venezia un’informazione non del tutto corretta viene così a trovare un’apparente giustificazione, la quale tuttavia ha un sapore beffardo. Nella lettera erroneamente attribuita al 2 maggio Corradino Giorgi scrive infatti […] ‘Ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui’ […] Poi nella lettera del 3 maggio di Corradino Giorgi si legge che Giorgio Piossasco ‘anchora non è partito, ma domane se parte’, ma che il duca di Milano sia consapevole dell’avvenuta partenza è confermato dal fatto che nella sua minuta del 12 maggio non accenna minimamente alla mancata partenza di Giorgio Piossasco, proprio perché, avendo in realtà ricevuto la missiva del 5 maggio del suo ambasciatore, da lui poi attribuita al 2 maggio, sa che il cavaliere gerosolimitano si è recato a Centallo. Il beffardo sbaglio di datazione del duca di Milano non può quindi essere considerato casuale, anche se apparentemente dovuto al fatto che il ‘5’ secondo la numerazione araba pare un ‘II’ secondo la numerazione romana (in realtà poi è identico al ‘5’ di ‘1458’ subito dopo)”. Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45821091214030.jpg

L’obiezione che sia arbitrario stabilire una relazione fra l’errore di datazione nella minuta del 12 maggio e la corrispondenza con Marchese da Varese non può essere sostenuta, perché si è indotti a ricercare il collegamento fra l’epistolario del duca di Milano con Corradino Giorgi e quello con l’inviato a Venezia proprio perché c’è lo sbaglio. Se non vi fosse quest’ultimo, infatti, non vi sarebbe motivo di ricercare il collegamento, anche se esistesse. Nello stesso testo sopra citato poi si legge: “Il motivo per cui […] in modo curioso il 3 maggio l’ambasciatore sforzesco in Savoia scrive che Giorgio Piossasco ‘domane se parte’ e poi il 5 dello stesso mese ‘Ha potuto anchora vostra signoria intendere la partita de fra Zorzo per altre mie da qui’ è per sottolineare il tema dell’attesa, ma non solo del giorno della partenza di Giorgio Piossasco […] ma anche dell’ascesa al trono del delfino”. Per questo motivo, aggiungiamo ora, non a caso il testo della minuta per l’ambasciatore a Venezia datata 10 maggio in cui si parla del vescovo di Modena Giacomo Antonio Della Torre inizia con il verbo “aspettare”: “Expectando nuy che tu ne rispondesti circa quanto ordinassemo che te fusse scripto circ’al mandare che havemo facto del reverendo monsignore vescovo de Modena a la maiestà del re de Aragona”. A conferma di questo aspetto in Da una prova esterna a due errori di datazione si è scritto: “riassumiamo: l’8 maggio il duca di Milano finge di ricevere la lettera del sovrano [Alfonso d’Aragona] (in realtà […] ricevuta giorni prima), entro il 12 maggio simula di ricevere la bolla del papa (anch’essa arrivata prima), poi finge di aspettare il 19  maggio per segnalare agli ambasciatori a Napoli e Roma di avere ricevuto i due documenti. Perché simula di attendere tutto questo tempo, mentre il 10 maggio finge di scrivere a Venezia in modo precipitoso che ‘per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito’, quando nella missiva ‘de dì tre del presente’ di Corradino Giorgi è scritto chiaramente che Giorgio Piossasco ‘domane se parte’, ritrovandosi così nella minuta del 12 maggio con destinatario Corradino Giorgi costretto, per giustificare, nel caso si riveli necessario, la fretta della lettera di due giorni prima per Venezia, ad assegnare, per quanto in modo beffardo, la lettera del 5 maggio del suo ambasciatore al 2 dello stesso mese? Riteniamo che il contraddittorio comportamento ducale si spieghi appunto in base al tema dell’attesa: si vuole far capire ai filo Carlo-VII, francesi o meno, e a Venezia di agire diversamente da come lo stesso Francesco Sforza si è comportato in questa occasione specifica, ossia senza precipitazione, con cautela e ponderando bene le mosse presenti in relazione al futuro, che sarà sotto il segno del delfino Luigi e non del padre”, come sottolineato dal fatto che “l’11 maggio, festa dell’Ascensione, è la data della minuta in cui il duca di Milano scrive a Marchese da Varese in merito al fatto che suo fratello Alessandro non torni a Milano, ma vada a Pesaro, simulando di essere adirato con lui per il viaggio che ha compiuto prima presso il re di Francia, meta paravento, per così dire, e poi presso il duca di Borgogna, reale obiettivo della missione per la presenza del delfino, con il quale Alessandro si è alleato per conto del fratello (al proposito si veda la parte finale del testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino). Come già espresso, il duca di Milano cerca di far capire in ogni modo quanto scritto sopra sia ai filo-Carlo VII, francesi o meno, sia a Venezia, in modo da dissuaderla dal trescare, se è concesso il termine, con il re di Francia”. Il tema dell’attesa del quale si è parlato si collega alla seconda implicazione maggiore cui si è accennato. Tornando al punto dal quale siamo partiti, si ricorderà che nella corrispondenza di Francesco Sforza con l’ambasciatore a Venezia “non si trova alcuna copia dell’originale, ma solo una normale minuta”. Poi si è aggiunto che “nella copia dell’originale con destinatario Antonio da Trezzo è presente l’accenno a Giacomo Antonio Della Torre, assente negli altri due documenti analoghi, particolarità con la quale si vuole sottolineare di fare caso proprio a come viene gestita l’informazione relativa al viaggio del vescovo di Modena nell’epistolario con Marchese da Varese”. Quello che si vuole comunicare in modo beffardo è che, benché si abbiano delle copie di originali, quali fossero le reali missioni affidate agli ambasciatori non è dato saperlo, perché il riscontro finale presso i destinatari delle stesse missioni non avrebbe avuto alcun significato, essendo il duca di Milano d’accordo con loro. Rispetto al concetto di autenticità, le minute che recano come destinatario Marchese da Varese hanno invece più valore di quelle insolite copie di originali, perché il garante del loro contenuto è il doge di Venezia Pasquale Malipiero, con il quale Francesco Sforza era soltanto in apparenza in buoni rapporti. Per questo motivo solo nella minuta del 10 maggio con destinatario Marchese da Varese riguardo a Giacomo Antonio Della Torre è spiegato che “tu faray sopra de ciò la excusa nostra ad la prefata illustrissima signoria et li diray che la casone de havere mandato nuy dicto vescovo da la prefata maiestà del re è stata questa: el duxe de Zenoa più di sonno ne fece dire per ser Leonardo da Petrasancta, suo cancellero, che volessemo ancora de novo interponerne con la prefata maiestà del re del suo accordio con sì, perché, non obstante ch’el havesse la pratica strecta con francesi, volendo la maiestà sua venire a l’accordio con sì, haveria lassato quella via. Il che inteso, quantuncha el ne paresse che dicto duxe facesse dire queste parole perché intrassemo in questa pratica per farne intrare in questa pratica ad fine che luy la maiestà del re se refredasse ale provisione de quella impresa et che luy havesse meglio el modo de mandare ad effecto la pratica de Franza senza suo periculo, nientedimeno, adciò che dicto duxe non podesse may dire che noy non havessemo voluto porgere al dicto re tal sua rechiesta né che esso re non se avesse havuto caxone de poterse dolere che de ciò non l’havessemo voluto advisare, deliberassemo de mandare dicto vescovo ala prefata soa maiestà a notificarla quanto per esso duxe ne era stato dicto”. Difficilmente, dunque, il doge di Venezia avrebbe potuto sottrarsi al ruolo a lui assegnato di garante dell’autenticità del contenuto della suddetta minuta e quindi della relativa ambasciata. Si noti infatti che non certo per caso il testo sopra riportato da “dicto duxe”, dopo “adciò che”, sino a “era stato dicto” si trova nel margine sinistro, in modo da dargli risalto, e che, al fine di sottolineare che quanto scritto nella minuta è stato effettivamente riferito, esso inizia e finisce con la parola “dicto”, participio passato del verbo “dire”. Che si voglia attirare l’attenzione sulla prima e sull’ultima parola è confermato dal fatto che la prima riga del suddetto testo inizia con un segno di inserimento preceduto da due righe depennate a loro volta precedute da un segno di inserimento, i quali però nel corpo del testo risultano invertiti, ossia il primo segue il secondo, appunto per sottolineare di fare caso al primo e al secondo participio “dicto” di cui sopra. Discorso analogo rispetto a quello relativo alla prima minuta del 10 maggio si può fare per la seconda prova esterna di cui si è parlato (ma anche per la prima per la verità, come si vedrà), che non a caso è menzionata in una minuta anch’essa datata 10 maggio, ossia come quella riguardante Giacomo Antonio Della Torre. Di essa il duca di Milano scelse scientemente Pasquale Malipiero come unico custode attendibile. Anche in questo caso difficilmente il doge avrebbe potuto sottrarsi al ruolo a lui assegnato da Francesco Sforza, perché solo lui era stato informato che “per una littera che in questo dì havemo havuta dal dicto nostro appresso el prefato duca, facta de dì tre del presente, siamo avisati che anchora quel tale che deveva venire ad fare cessare le gente non è partito”. Poiché si può immaginare che quanto riferito dagli inviati sforzeschi venisse diffuso dai destinatari delle missioni, uscendo dalle sedi in cui avvenivano i colloqui, ne consegue che Pasquale Malipiero non avrebbe potuto smentire quanto a lui riferito, perché di nuovo solo lui poteva essere il responsabile della successiva diffusione di quel particolare tipo di informazione. In sostanza, poiché non lo si sarebbe potuto sospettare di alcuna connivenza con il duca di Milano, quest’ultimo scelse il doge di Venezia come una sorta di garante finale della simulata autenticità della corrispondenza ducale con Corradino Giorgi, la quale però al contempo si dichiara beffardamente non autentica sin dall’inizio, ossia a partire dalla minuta datata 10 gennaio 1458 e intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, che prosegue dicendo “Le prese sono X”, ossia anticipando quante volte nei mesi successivi Francesco Sforza riceverà le missive del suo ambasciatore in Savoia. Il secondo aspetto cui si è accennato sopra che vorremmo affrontare riguarda come mai nelle corrispondenze in esame sia così importante il giorno del 14 marzo. Se dal punto di vista dell’ipertesto, per così dire, riteniamo di essere in grado di fornire una spiegazione, diverso è il discorso dal punto di vista del significato simbolico generale. Al riguardo non possiamo che limitarci a formulare un’ipotesi, per la quale è opportuno richiamare quanto scritto nel testo Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino a proposito della Pasqua, vale a dire che essa “celebra la Resurrezione di Gesù, ossia il suo passaggio da morte a vita e il passaggio a vita nuova per i cristiani, chiamati a risorgere con lo stesso Gesù, ed è legata alla Pasqua ebraica, la quale a sua volta celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù sotto gli egizi grazie a Mosé”. Innanzitutto bisogna considerare che il 14 marzo è una settimana prima del 21, giorno in cui per la Chiesa cade l’equinozio di primavera e che è determinante per stabilire la data della Pasqua cristiana, la quale è mobile e cade la domenica successiva al primo plenilunio dopo appunto l’equinozio di primavera. Tuttavia il numero 14 potrebbe avere implicazioni anche per quanto riguarda la Pasqua ebraica. Benché sin dal titolo dell’articolo Why is Passover on Nissan 15, Not Nissan 14 del sito Chabad.org si chiarisca che essa cade il 15 di Nissan e che pertanto il 14 dello stesso mese è la vigilia, nello stesso articolo si citano i due passi del Levitico 23,5-6 che qui riproponiamo citandoli dalla Vulgata e facendoli precedere da un altro passo: “hae sunt ergo feriae Domini sanctae quas celebrare debetis temporibus suis / mense primo quartadecima die mensis ad vesperum phase Domini est / et quintadecima die mensis huius sollemnitas azymorum Domini est septem diebus azyma comedetis”. Poiché, come si legge nella Bibbia della CEI, la Vulgata può essere tradotta così: “’Il primo mese, al decimoquarto giorno, al tramonto del sole sarà la Pasqua del Signore’”, il fatto che, come si legge nell’articolo sopra citato, “The Jewish days begin at nightfall”, potrebbe avere indotto nell’equivoco di ritenere che la Pasqua ebraica inizi il 14 del mese, mentre, come detto, comincia il 15 di Nissan. A favore di questa ipotesi vi è il fatto che in Numeri 9,1-5 si legge: “Locutus est Dominus ad Mosen in deserto Sinai anno secundo postquam egressi sunt de terra Aegypti mense primo dicens / faciant filii Israhel phase in tempore suo / quartadecima die mensis huius ad vesperam […] praecepitque Moses filiis Israhel ut facerent phase / qui fecerunt tempore suo quartadecima die mensis ad vesperum in monte Sinai”, passi tradotti così nella Bibbia della CEI: “Il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai, il primo mese del secondo anno, da quando uscirono dal paese d’Egitto, dicendo / ‘Gli Israeliti celebreranno la Pasqua nel tempo stabilito. La celebrerete nel tempo stabilito, il quattordici di questo mese tra le due sere […]’ Mosè parlò agli Israeliti perché celebrassero la Pasqua. Essi celebrarono la Pasqua il quattordici del primo mese al tramonto nel deserto del Sinai”. Vi è poi il fatto che nel secondo dei due passi del Levitico sopra citati secondo la traduzione della CEI si dice che “‘il quindici dello stesso mese sarà la festa degli azzimi in onore del Signore; per sette giorni mangerete pane senza lievito’”. La Pasqua ebraica dura quindi sette giorni, come si legge anche in Esodo 12,15-16 e in Deuteronomio 16,3-4. Si arriva così al numero 21, che potrebbe essere identificato con il 21 marzo, giorno “determinante”, come si è scritto sopra, “per stabilire la data della Pasqua cristiana”. Bisogna inoltre considerare che la liberazione degli ebrei,  che si è detto essere in stretta relazione con la loro Pasqua, avvenne dopo la decima piega d’Egitto, riguardante la morte dei primogeniti maschi, e che in una lettera di Corradino Giorgi datata 19 marzo è scritto quanto segue: “Al dì presente hè venuto uno ex marchionibus de Ceva de Bergogna quale dice […] che lo re de Franza hè infirmato in modo che non pò schampare de questa infirmità he che ha facto iurare ali baroni del reame la fidelità in le mano del duca de Bari, suo secondo figlolo, he che lo duca de Bergogna l’ha iurata ha delphino de Franza, manchando lo re, he che gli ha promesso de meterlo in reame cum cento milia combatanti”. L’obiezione che la decima piaga riguarderebbe i primogeniti maschi egiziani non potrebbe essere accolta, perché, come spiegato nell’articolo The Midnight Mystery di Chabad.org, “The plague of the firstborn was the tenth of a series of plaghe visited upon the Egyptians. But there was a basic difference between this plague and the first nine […] The primary objective of the first nine plague was to prove a point−to instill an awareness among the Egyptians. […] The tenth plague, however, was more than a demonstration of divine power: it come to punish and destroy, to break Egypt and to free Israel from its midst. This explains a puzzling difference between the first nine plagues and the plague of the firstborn. The first nine plagues threatened only the Egyptians; the children of Israel were immune to them. […] But in the case of the plague of the firstborn, the Jews were as vulnerable to the plague as their Egyptian neighbors, and a series of protective measures had to be taken so that the Jewish firstborn would not also die”. Ribadiamo che quanto appena esposto riguardo al significato simbolico generale del 14 marzo è solo un’ipotesi, anche se alcune osservazioni possono di sicuro integrare correttamente il concetto espresso in altri testi rispetto al fatto che nei documenti in esame la Pasqua cristiana si configura come simbolo di liberazione. A questo punto possiamo spiegare “come mai nelle corrispondenze in esame sia così importante il giorno del 14 marzo” “dal punto di vista dell’ipertesto”. Innanzitutto è opportuno chiarire che, come rilevato in Il reale scopo di una “differentia” simulata, “a metà marzo il partito filofrancese guidato dal maresciallo Jean de Seyssel attraversava già una fase declinante e quindi la sua posizione di dominio assoluto va riferita a un periodo precedente. Infatti, benché riguardo alla vicenda di Ludovico Bolleri nella missiva del 23 febbraio 1458 di Corradino Giorgi (che appartiene alle cosiddette lettere del sacco: si veda al proposito il testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino) il maresciallo risulti adoperarsi ‘quanto il pò’ che secondo le richieste degli ambasciatori di Carlo VII” giunti presso Ludovico di Savoia “‘domino Aluyse Bolero he Zentalo sciano posti et remetuti in le mane del re de Franza’, alla fine, come si legge nella missiva del 14 marzo dell’inviato ducale, il Consiglio sabaudo” “questo dì” “risponde agli ambasciatori ‘che vadano, che soa signoria mandarà dreto soi ambaxadori, li quali informarano il predicto re de Franza ad plenum. E de questa risposta me dice dicto Guliermo sono romasti stupefacti e malcontenti e deliberano de non partirse anchora’. Questa ‘risposta’ del Consiglio è un totale fallimento per il filofrancese Jean de Seyssel, che evidentemente non si trova più nella posizione in cui viene descritto nella missiva del 19 gennaio precedente di Corradino Giorgi (anch’essa appartenente alle lettere del sacco), il quale scrive che Ludovico di Savoia ‘me ha facto fare resposta per lo suo Consciglio, inter ly quali esso monsignore mareschalcho era lo primo et, tanquam primus de Conscilio et nomine totius Conscilii, me fece resposta’. A supporto di quanto appena rilevato vi è il fatto che non è verosimile che a metà marzo il partito filofrancese avesse ancora il pieno controllo della situazione e il 28 dello stesso mese, quindi pochi giorni più tardi, risultasse sopravanzato dalla parte avversa, come si legge nella lettera datata appunto 28 marzo dell’ambasciatore ducale riportata sopra: è un tempo troppo breve per un simile rivolgimento politico, le cui origini vanno quindi ricercate in un momento precedente e che conferma che in realtà a metà marzo il maresciallo Jean de Seyssel e il suo gruppo erano già in forte difficoltà, nonostante quanto riportato da Corradino Giorgi nelle sue missive, una parte del cui contenuto va quindi retrodatata”. Ci riferiamo al post scriptum appunto del 14 marzo nel quale l’ambasciatore sforzesco scrive: “Per mezanita de Iacobo Berema nostro, nepote de misir Gulirmo da Marglano, me sonto trovato cum uno notabile zentilomo de questo paise, lo quale ha nome Glaudio de Langino, et in secreto me ha dito dela praticha de veniciani et de Iohane de Mansin he dela liga, dele quale cose ne scrivo ala signoria vostra per queste altre mie. Non ha voluto venire a specialità alchuna, m dice havere casone de conferire cum la signoria vostra per par de una bona parte deli zentilomini he baroni de questo paise de Sabaudia e de dire cose ala signoria vostra le quale ve piazeranon, ma che non vrea venire se non havese qualche casone honesta et legiptima scusa de venire, et dice che hano deliberati queli che lo voleno mandare de prendere questa via, videlibet che la signoria vostra gli faza una littera de familiaritate tanto ampla quanto scia posibile et cum ie preminentie e prerogative e specificatione de salario como se fose vero famiglo dela signoria vostra, rechedendoli che a suo piazere vegna dala signoria vostra, quale gli fa servare il locho suo et mandare lì una litera de passo per quatro ho sei cavali in forma favorevele, he che, habuta la litera predicta, venerà dala signoria vostra, la quale intenderà quelo referarà, et poi, monstrando de venire ad prendere ordine ali facti soi, retornerà da questi soi e, secondo troverà la mente dela signoria vostra, se procederà ala conclusione. Iacobo predicto e mi non gli habiamo facto resposta alcuna, ma gli habiamo dicto che de bona vogla io scriberebea la signoria vostra et in modo che me credea la signoria vostra de bona vogla gli concederebe le dicte littere senza questa casone, unde me prega pregasse la signoria vostra che, volendo concedere dicte littere, facesse presto e che le havese de qua da Pasqua, però che la memoria havea a confrire con la signoria vostra era de tale natura ch’era bisogno de celere e breve expeditione e che, non havendo dicte littere al termino soprascrito, non poterebe venire dala signoria vostra et ali soi sarebe forza prendere altro partito“. Si noti che nella lettera vera e propria del 14 marzo si legge: “sonto advisato che fra pochi dì questo signore me farà atastare sc’el XX me bastarea l’animo de pratichare liga fra la signoria vostra et soa, il perché prego la signoria vostra gli piaza farme advisato, sce fido temptato de ciò, como me debia gubernare e quelo debio respondere, avisando la signoria vostra che l’animo me basta. E questo hè opera de misir Francescho de Tomatis”. Inoltre, come scritto nel testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino, rispetto alla “praticha de veniciani et de Iohane de Mansin” nella stessa missiva “l’inviato milanese avvisa Francesco Sforza di avere saputo da ‘maistro Iohane Iacobo’, medico ducale, che Carlo VII, gravemente ammalato, vuole stringere un’alleanza con Venezia contro Milano, forse servendosi dei due ambasciatori da lui mandati in Savoia; la missione francese sarà tuttavia guidata da ‘Iohane da Mansin’, definito colui ‘che conduce la barcha’: prima della partenza dei connazionali per Venezia Jean d’Amancier visiterà Francesco Sforza, proseguendo poi il suo viaggio diretto a Venezia, ‘e tuto quelo dirà ala signoria vostra el fingerà’”. Proseguendo invece con il post scriptum, dopo le parole riportate sopra segue una descrizione della situazione politica interna del ducato di Savoia, la quale però, come si è accennato, va retrodatata: “Et, aciò la signoria vostra intenda più largamente questo facto, dirò quelo intendo per altre vie et anchora comprendo per le pratiche se fano. El è vero che questo signore ha lo suo stato diviso in doe parte. Una al presente regna e guberna, aderise alo re de Franza e lo mareschalcho hè capo de bandera he hano conducto questo signore a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero, unde lo dicto signore, che se vorea cavare e liberare de asta subiectione, sce intende cum l’altra parte, che non è al presente de stato, dela qual misir Iohane de Compense è lo primo, e vorea farla saltare, la qual dubita a piglare la impresa senza spade, favore e secorso, besognando de qualche altro signore, e per questo hano deliberato de volere intendere dala signoria vostra se cum sua mezanità la signoria vostra vole fare liga cum questo signore. He questo intendo cercheano de uluntà he consentimento d’essto signore“. Poi Corradino Giorgi aggiunge sibillino: “avsando la signoria vostra che intendo che lo duca de Burgogna he monsignor lo dalfino gli meteno mane esste pratiche se fano al presente in questa cità“. Per comprendere l’importanza del 14 marzo, bisogna considerare che i passi sopra riportati, compreso quello riguardante la “praticha de veniciani et de Iohane de Mansin” che si è solo riassunto, sono in cifra, come segnalato dal corsivo. Peraltro, quelli riguardanti la suddetta “praticha” testimoniano di contatti fra il re di Francia e Venezia, che dovevano rendere travagliate le relazioni politiche di quest’ultima con il duca di Milano: come si è detto sopra, i rapporti con Francesco Sforza del doge Pasquale Malipiero erano solo in apparenza buoni. Proprio per questo motivo, “poiché non lo si sarebbe potuto sospettare di alcuna connivenza con il duca di Milano, quest’ultimo scelse il doge di Venezia come una sorta di garante finale della simulata autenticità della corrispondenza ducale con Corradino Giorgi”. Si spiegano così alcuni documenti presenti nella corrispondenza Milano-Venezia. Il primo è una minuta ducale datata 14 marzo al termine della quale in una “Poliza”, il cui testo si trova nella parte inferiore della pagina, scritto in modo obliquo e con un interlinea più fitto rispetto al corpo principale della minuta, come a dargli risalto, Francesco Sforza sembra rimproverare Marchese da Varese in quanto “ne pare tu scrivi troppo largo scrivendo quello tu scrivi de quello tuo parere et de quello te pare comprendere de quelle cose etc. et dispositione dellà etc. senza cifera, perché, quando per aventura una simile lettera capitasse in man d’altri, poria generare non ponto bon fructo, siché un’altra volta vogli essere più cauto nel scrivere scrivendo cose de importantia”.

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Il duca di Milano si riferisce alla parte di una lettera dell’ambasciatore a Venezia datata 6 marzo, in risposta a una minuta di Francesco Sforza del 28 febbraio, nella quale, dopo avere precisato che “In quel loco non gli era ordine per fare l’ambasata”, Marchese da Varese scrive: “M’acostay a soa signoria e dissegli tutto, la quale me rispose in questa forma: ‘Non vorressemo che Gienova havesse preso altro partito, si pur, quando dovendolo pigliare, noy stimemo che questo del re di Francia sia lo manco reo ch’el abia possuto pigliare per li fatti nostri d’Ytalia, che, si havendo preso quello de re d’Aragona, non si serea possuto vivere con luy, benché de galee seressemo sempre sufficienti quanto loro insieme, perché L dele nostre vagliano per C dele loro, ma de nave avanzarevano’. Poy se rivoltò a me ciò che ne credeva dela signoria vostra qual partito gli fosse più piaciuto. Rispose credeva non havrea vogliuto l’uno né l’altro, per non havere tramontani né barbari per vicini più che la sabia”.

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Alla “Poliza” della lettera derivata dalla minuta ducale del 14 marzo l’ambasciatore risponde in una sua missiva del 20 dello stesso mese così: “Una parte me scrive del mio scrivere in ciffra quando accade. Non creda vostra signoria questo intervenga per ygnorantia. Solamente, considerato la dolcieza del vivere de qui, che le cose sono ala giornata senza alcuno suspecto né gelosia, ancora si piglia pure assay bon concepto et credito di me, che, si pure non essendo diffecto del cavalaro, non è di posserne dubitare, pur tutto drizarò sempre secondo lo volere de vostra signoria”. Francesco Sforza segnala la ricezione dell’epistola del 20 marzo all’inizio di una sua minuta datata 28 marzo: “Marchexe. Havemo recevuto la toa lettera de dì 20 del presente, ad la quale non accade fare altra resposta”. Si noti che la data “Mediolani, die XXVIII marcii 1458”, già di per sé estremamente significativa, non è riportata in alto a sinistra, dove si trova di consueto, ma in alto al centro, al posto del destinatario “Marchexio de Varesio”, che a sua volta in una sorta di disposizione alla rovescia si trova insolitamente in alto a sinistra.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-07-a-21.22.15.png

In ogni caso, per tornare alla minuta ducale del 14 marzo, riteniamo che a questo punto si possa cogliere appieno l’implicita ironia della “Poliza”, la quale solo apparentemente costituisce, come sostiene Francesco Senatore nella nota 16 alla pagina 256 di Uno mundo de carta, “un rimprovero del duca” a Marchese da Varese, che aveva rinunciato alla cifra a causa dell’eccessivo tempo da dedicare alla cifratura, confidando “nell’atmosfera di fiducia che lo circondava” (citazione sempre dalla pagina 256), perché, come scritto nella lettera del 20 marzo, “le cose sono ala giornata senza alcuno suspecto né gelosia”. Con la minuta del 14 marzo Francesco Sforza intende in realtà instaurare un beffardo parallelismo speculare fra due falsi epistolari: quello con Marchese da Varese e quello con Corradino Giorgi. Quest’ultimo è per la maggior parte in cifra, in modo da simulare che le relazioni con Ludovico di Savoia fossero pessime, mentre in realtà erano ottime, al punto da condurre alla stipulazione di un’alleanza; il primo è in chiaro, come se i rapporti politici con il doge fossero buoni, caratterizzati da un’“atmosfera di fiducia”, quando invece erano turbolenti. Il parallelismo investe dunque anche gli aspetti grafici dei documenti. Si può così comprendere quanto secondo Francesco Senatore “sorprende di più il lettore moderno”, ossia “l’assoluta incapacità, da parte del cifratore, di abbandonare o semplificare il consueto linguaggio diplomatico nelle parti cifrate: egli rinunciava così a una soluzione che avrebbe rafforzato la resistenza della cifra e che, oltre tutto, gli avrebbe risparmiato ore e ore di fatica improba. Il testo in cifra ha infatti le stesse caratteristiche espressive e linguistiche di quello in chiaro, con il solito corteggio di formule, anafore, topoi epistolari”, scrive lo studioso alle pagine 259-260. In realtà, per riprendere le parole di Francesco Senatore, nel caso della corrispondenza di Francesco Sforza con Corradino Giorgi il lettore moderno non deve sorprendersi: il testo in cifra presenta “le stesse caratteristiche espressive e linguistiche di quello in chiaro, con il solito corteggio di formule, anafore, topoi epistolari”, perché quei documenti che vogliono sembrare lettere in cifra erano concepiti per essere esibiti in modo speculare insieme a quelli in chiaro che formano l’epistolario con Marchese da Varese, gli uni e gli altri non autentici, e per questo motivo non si poteva abbandonare o semplificare “il consueto linguaggio diplomatico nelle parti cifrate”. A proposito di quanto appena affermato è pertinente ciò che si è scritto nel testo intitolato La “corrispondenza sommersa”, l’alleanza sabaudo-sforzesca e le carte da trionfi riguardo alla minuta ducale avente come destinatario Corradino Giorgi e datata 6 aprile. All’inizio del sesto capoverso di essa si legge: “Quanto al facto de quello te ha dicto messer Zohanne da Compenso, del fare liga et intelligentia con quello .. signore, dela qual cosa tu ancho ne scrive sperare che ne seray rechiesto”. Tralasciando il riferimento a “Zohanne da Compenso”, le cui parole sono riportate in una missiva dell’ambasciatore in Savoia del 17 marzo, “il problema è che una lettura puntuale consente di verificare che nelle quattro lettere di Corradino Giorgi di cui viene segnalata la ricezione nella minuta di Francesco Sforza datata 6 aprile l’ambasciatore ducale non esprime alcuna speranza rispetto all’alleanza sabaudo-sforzesca, limitandosi ad avvisare in una missiva del 14 marzo in cui l’argomento compare per la prima volta ‘che fra pochi dì questo signore me farà atastare sc’el XX me bastarea l’animo de pratichare liga fra la signoria vostra et soa, il perché prego la signoria vostra gli piaza farme advisato, sce fido temptato de ciò, como me debia gubernare e quelo debio respondere, avisando la signoria vostra che l’animo me basta’ [questo testo è già stato citato sopra]. Con l’anomalia manifestata dalle parole ‘tu ancho ne scrive sperare che ne seray rechiesto’, significativamente connessa all’importante tema della lega fra i due duchi, Francesco Sforza lascia trasparire l’esistenza di una ‘corrispondenza sommersa’ fra lui e il suo ambasciatore, di cui non si è conservato nulla, nella quale scorrevano le immagini del reale stato delle relazioni politiche ducali, non coincidente con la ‘storia alla rovescia’, anche se quest’ultima lo lascia trasparire” e che in un secondo momento veniva utilizzata per costruire quel “mundo de carta”, almeno relativamente alla sezione del Fondo Sforzesco qui in esame, per ironia della sorte citato nel titolo del libro di Francesco Senatore dedicato alla diplomazia sforzesca. A questo punto non parrà certo poco significativo il fatto che proprio 14 marzo sia datata la lettera che Corradino Giorgi scrive a Bianca Maria Visconti nella quale racconta quanto segue: “Retrovandome con questo illustrissimo signor, me ha pregato vogla scrivere e pregare vostra signoria per parte de essa soa signoria che ve piaza mandare a madama soa fema uno paro de carte da trionfi de quelle belle sce fano in quelle parte he uno paro a madama Maria he uno altro a madama Bona, soe figlie, et maxime a madama Maria, quale hè de vostra signoria, aciò che possa essa intendere he comprendere esser figlia de vostra signoria”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 20220219113736_00001.jpg

Come spiegato nel testo La “corrispondenza sforzesca”, l’alleanza sabaudo-sforzesca e le carte da trionfi, “Poiché riferito alle carte da trionfi il termine ‘paro’ significa ‘mazzo’, Ludovico di Savoia risulta richiedere a Francesco Sforza tre mazzi di questo tipo di carte.  Può essere il caso di precisare che uno ‘paro de carte da trionfi’ è formato da 78 carte, suddivise in 56 carte di quattro semi (denari, coppe, bastoni, spade, ciascuno diviso in dieci carte numerali più fante, cavallo, regina e re), e 22 dette trionfi che prevalgono su tutte le carte di seme […]. Come si legge in Il gioco italiano dei Tarocchi e la sua storia di Franco Pratesi, per giocare, ‘si mette in tavola una carta alla volta, con l’obbligo di rispondere al seme o di tagliare con le briscole, che in questo caso sono fisse e rappresentate dai trionfi’. Alla pagina 149 di Il mondo e l’Angelo. I Tarocchi e la loro storia Michael Dummett spiega che ‘Una presa contenente uno o più trionfi è vinta dal trionfo più alto, mentre una presa senza trionfi è vinta dalla carta più alta del seme della prima carta’: si tratta del classico gioco di prese, in cui i trionfi sono le carte da presa per eccellenza”. Si crea così “una connessione fra i mazzi di carte da trionfi, che, come detto, sono un gioco di prese, e le missive della corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo inviato in Savoia, permettendo di identificare i primi con le seconde, entrambi caratterizzate da prese, che nel caso delle lettere diventano ricezioni. Francesco Sforza fa dunque capire al lettore, ammesso che non l’abbia già compreso da sé, che, quando nel primo capoverso dell’enigmatico documento intitolato ‘Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.‘ scrive che ‘Le prese sono X’, intende dire che le ricezioni delle missive di Corradino Giorgi da parte sua sono dieci. Poiché a gennaio il duca di Milano non può sapere che nel maggio successivo, quando termina lo scambio epistolare, le ‘prese’ sarebbero state dieci, si è in presenza di un’implicita dichiarazione di non autenticità della corrispondenza: quei documenti che sembrano lettere non sono lettere, ma sono stati ideati presso la cancelleria ducale per essere esibiti”. Chiarita l’importanza della data del 14 marzo nell’ipertesto, possiamo dedicarci alla corrispondenza Milano-Roma, anche se, per farlo, è necessario prendere le mosse dalla minuta ducale datata 5 aprile avente come destinatario Nicodemo Tranchedini cui si è accennato sopra, dicendo che essa è appunto “fondamentale […] per comprendere la corrispondenza Milano-Roma”. Nel documento, al termine della “Poliza”, quindi in una posizione che ha rilievo dal punto di vista grafico, è scritto: “Postremo, come vederay per quanto ne scrive miser Otho dal Carreto ne scrive da Roma per lettere de XXVII del passato dele quale te mandiamo la copia pare che nostro Signore el papa facia caso et insta che se gli mande per quella excelsa signoria el loro ambassatore tante volte rechiesto. Pertanto vogli parlarne con Cosimo et domino Angelo et et confortarlo ad pigliargli quella via che li parirà megliore ad persuadere ch’el dicto ambaxatore sii mandato, perché non porà se non giovare ad molte cose”. Si noti che, come si può verificare nell’immagine sotto, in un primo momento è stato scritto “Postremo, come vederay per quanto ne scrive miser Otho del Carreto da Roma per lettere de XXVII del passato, dele quale te mandiamo la copia, pare che nostro Signore el papa facia caso”. Non è ben chiaro se il sostantivo “caso” debba essere compreso nel testo iniziale, ossia se si sia scritto “facia caso”, procedendo poi alle correzioni, o vada inteso come parte del nuovo testo, che quindi comincerebbe con “caso et insta” e il testo iniziale finirebbe con il verbo “facia”. E’ comunque estremamente significativo che il termine “caso” costituisca o l’ultima parola del testo scritto inizialmente, poi modificato, o il primo sostantivo del nuovo testo. Come si capirà dallo sviluppo del ragionamento, il duca di Milano si premura di far capire al lettore che quello in cui si è imbattuto sino a quel momento e quello in cui è destinato a imbattersi non è affatto un caso.

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Della lettera del 27 marzo Francesco Sforza segnala la ricezione in una minuta diretta a Ottone del Carretto che significativamente è datata “1458, Mediolani, die aprilis”, ossia senza il giorno del mese. L’intestazione di quest’ultima, inoltre, in modo non unico, ma non così frequente, è “Domino Othoni Carreto, Rome”, vale a dire senza la preposizione “de” dopo il nome “Othoni”. All’inizio si legge quanto segue: “Havemo recevuto tutte le vostre lettere, l’ultime dele quale sono de dì XXVII del passato”.

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Si noti che si dice “l’ultime dele quale sono de dì XXVII del passato”. Queste parole implicano che le epistole precedenti erano datate prima del 27 marzo. Poi è scritto: “Respondendo ad quelle parte che a presente ne pareno necessarie, dicemo: primo, ad la parte de la praticha de Bologna dicemo che vogliate stare attento et solicitare con l’amico de intendere como passa et avisarne de quanto possete intendere”. Tuttavia, nella missiva del 27 marzo Ottone del Carretto non accenna in alcun modo alla “praticha de Bologna”, mentre per gli altri temi segnalati da Francesco Sforza è possibile ottenere un riscontro. A Bologna l’ambasciatore a Roma accenna in una lettera datata 26 marzo, di cui il duca di Milano riferisce la ricezione in una sua minuta del 13 aprile, all’inizio della quale Francesco Sforza segnala a Ottone del Carretto di avere “recevuto le vostre lettere de dì 18, 19, 21 et 26 del mese passato, per le quale havemo inteso particolarmente quanto ne scrivete”.

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È evidente pertanto che dal punto di vista delle missive di cui segnalano la ricezione le due minute dirette all’ambasciatore a Roma si sovrappongono. È interessante inoltre che nelle prime righe del primo capoverso di quella datata 13 aprile si legga: “Primo, ad la parte de quello Iohanne Cortese de Crivelli da Milano, el quale ha facto quella beffa al vescovo de Regio passando per Regio con cavalli et carriagii et facendose secretario del reverendissimo monsignore de Sancto Marco, la quale beffa se reputa et merito pò reputare sua signoria facta ad sé propria etc., dicemo ch’el ne despiace et rincresce grandemente et vorressimo voluntieri havere questo giotto in le mane, che gli fariamo sì facta punitione che seria exempio ad li altri”. Il fatto che la minuta sia datata 13 aprile, ossia come quella con la quale Francesco Sforza avvisa le quattro maggiori potenze della Lega italica degli apparenti dissidi con Ludovico di Savoia, e che in essa si parli di una beffa, come nel documento intitolato “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” è scritto che “se vole providere sopra tutto che quisti ali quali se ha ad fare questa beffa non mangiano insalata né aceto, perché non è cosa che più smorzi la virtù dela polvere che fa l’aceto”, non può non insospettire il lettore, il quale dovrebbe capire di trovarsi proprio in presenza di una beffa, che prevede la sovrapposizione nella segnalazione delle lettere ricevute nelle due minute sopra citate dirette a Ottone del Carretto. A conferma di quanto si può leggere sopra, nelle prime due righe del terzo capoverso della minuta la cui data è priva del giorno del mese si trovano le seguenti parole: “Alla parte ne scrivete havere interceduto con nostro Signore per monsignore el vescovo de Arezo, nepote del magnifico Cosmo, per lo cardinalato in questa tempora etc.”. All’inizio della seconda riga è scritto “de Arezo”, ma in realtà sarebbe possibile anche la lettura “da Rezo”, con un riferimento “al vescovo de Regio” al quale è stata fatta la “beffa” di cui si parla nella minuta datata 13 aprile.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-11-a-17.09.43.pngLa beffa vera e propria non consiste però nella sovrapposizione di cui sopra, che è solo un aspetto, ma nel sottolineare il giorno del 13 aprile, obiettivo conseguito proprio con la minuta datata “1458, Mediolani, die aprilis”, ossia senza il giorno del mese, in modo da sottolineare appunto il 13 aprile, data della minuta che si sovrappone a essa e della minuta diretta agli ambasciatori a Venezia, Firenze, Roma e Napoli, di cui nella cartella Roma 46 è presente l’originale (insieme peraltro ad alcuni altri originali di lettere inviate a Ottone del Carretto), che però è una missiva non autentica. Che si voglia sottolineare il giorno del 13 aprile è confermato anche dal fatto che, come si può vedere in un’immagine in alto, nella minuta con questa data in un primo momento si stava scrivendo “XII”, quindi è stato aggiunto il numero romano “I”, ottenendo “XIII aprilis”, dando in questo modo risalto a tale giorno. Nel contempo si fa capire che, esaminando con attenzione i documenti, dalla minuta del 13 aprile in cui si parla di “beffa” con una sorta di filo d’Arianna si arriva fino alla minuta dalla quale si fa comprendere essere stata estratta la lettera con la quale l’ambasciatore a Roma è stato avvisato che era opportuno che nella questione con Ludovico di Savoia papa Callisto III intervenisse con una bolla apparentemente in favore del duca di Milano, come vedremo “prima dell’inizio delle iniziative militari del duca sabaudo, volendo far capire che queste ultime sono state concordate e pertanto si tratta di simulazioni”. D’altra parte, se della lettera di Ottone del Carretto del 27 marzo si segnala la ricezione nella minuta con destinatario Nicodemo Tranchedini del 5 aprile e poi in quella con destinatario l’ambasciatore a Roma datata “1458, Mediolani, die aprilis”, vuol dire che la missiva del 26 marzo di Ottone del Carretto non può che essere stata ricevuta prima dello stesso 5 aprile, nonostante poi Francesco Sforza ne segnali la ricezione in una sua minuta del 13 aprile. Con l’implicita ricezione prima del 5 aprile si vuole segnalare che si è in presenza di una nuova inversione cronologica, il cui intento è far capire che Francesco Sforza è intervenuto presso il pontefice prima del 7 aprile, ossia prima di quando ha scritto a Corradino Giorgi, suo ambasciatore in Savoia, in merito alle recenti iniziative militari del duca sabaudo. A questo punto possiamo ricercare il cosiddetto filo d’Arianna. La minuta ducale del 13 aprile nella quale si parla della “beffa” non presenta particolari problemi. Può essere tuttavia utile specificare che nell’ultimo capoverso, quindi sempre in una posizione di rilievo, come nella minuta del 5 aprile diretta a Nicodemo Tranchedini, si accenna “Alla parte del solicitare che signori fiorentini mandino uno ambassatore ad Roma”. A sottolineare che il tema costituisce uno snodo importante, esso è l’unico della minuta a presentare quasi due righe depennate, sulla prima delle quali nell’interlinea sono inserite alcune parole.

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Sono piuttosto le lettere di Ottone del Carretto cui nella minuta ci si riferisce a risultare problematiche. Nel primo capoverso della decifrazione della missiva del 21 marzo si legge infatti quanto segue: “Per altre mie de XVIIII de questo debbe havere inteso vostra excellentia come per li nepoti del papa se fa grande instancia de cercare bona inteligencia tra la sanctità soa et el re de Aragona. Et in vero la sanctità de nostro Signore per la specialità grande quale ha alli nepoti credo se li reduceria, bene che se monstri mal contento della maiestà soa et pareli duro sottometase”. Il problema è che la lettera precedente cui l’ambasciatore a Roma si riferisce non è datata 19 marzo, ma 18 marzo. L’errore è presente già nella missiva originale di Ottone del Carretto e, a evidenziarlo, nella decifrazione inizialmente si stava scrivendo il corretto “XVIII”, poi in un secondo momento è stata erroneamente aggiunto un altro numero romano “I”, ma in realtà era giusto “XVIII”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-11-a-17.29.16.png

Nel secondo capoverso della decifrazione della lettera del 18 marzo si legge infatti: “Son stato poy altre volte con quello amico, al quale la signoria vostra me avisa ch’io pratichi strectamente, tenendo però la buglia in mano etc., et, regratiandolo per parte de vostra signoria etc., mi disse in grande secreto che adesso molto strectamente se pratica l’accordio fra el papa et el re de Aragona et li nepoti. Maxime il vicecancellero molto solicita questa cosa. Et esse facto parlare fra s loro de mandare esso vicecancello alla maiestà del re per acconzare queste differencie. Et è qui uno misser Ferrando, homo ecclesiastico molto grato et accepto alla maiestà del re et etiam al papa, el quale è homo de bona reputacione et de grande scientia et predicatione. Et solemne per la maiestà del re è stato pregato a volere acceptare lo arcevescoato de Napoli. Pur fino a qui s’è dicto non l’ha voluto. Et questo se dice molto pratica questo acordio, licet questa cosa non se sapia per molti. Vi è poi un altro riferimento sbagliato che riguarda la missiva del 18 marzo. Nel terzo capoverso della decifrazione della lettera dell’ambasciatore a Roma datata 26 marzo è scritto: “Circa le cose de Bologna me confirma quello nostro amico quello che altre fiate me ha dicto et dubita che el papa non consenti, volendo io intendere chi sonno quilli de dentro, che sonno Mangagnati. Me ha dicto io non voglio perdere questa povera messa, quasi voglia dire che, essendo casone dela morte de alcuno, seria singulare. Io li rispose che a questo se trovava modo, como per lettere de XVIIII scrisse, pur non vole nominare persona, ma dice che se pò vedere chi sonno quilli che praticano più con el legato de Bologna”. In realtà non ci si riferisce a una missiva del 19 marzo, ma a quella già citata del 18 dello stesso mese. Nel terzo capoverso della decifrazione di quest’ultima si legge infatti: “Item, parlando io con lo prefato amico de le cose de Bologna et concludendo fra nuy che era pericolo assay che el papa per tema de pegio non se lasasi indure a dare consentimento che el conte Iacomo facesse novità in Bologna et cercando io per ogni via se poteva intendere chi sonno quilli de dentro quali tegneno a questo, me disse che credeva che ormay se se fosseno aveduti quilli che regeno lì de chi hanno a dubitare, essendo stati avisati de quello che io scrissi questi dì passati. Et, dicendo io che el dire in genere el gli è tractato non fa però che se intende el che né el come et che a volte bene provedere ad queste cose bisognaria intendere qualche specialità più oltra et [alosengandolo] a dire più chiaro, me respose che, se non sonno bestie, deveno pur havere veduto con chi el legato se consiglia et praticha più strectamente in quella terra. Non è dificile ad intenderlo a chi vole bene havere advertentia, pur non s’è più oltra et, per tema che ha che de tale suo discoprire non ne segua morte de homini, non vole parlare più chiaro, ma, como li ho dicto, se vole, credo la signoria vostra havere de modo de provedere onestamente in levare de quella cità quelli che sianno de male voluntà dandoli officio o altri exercicii senza fare scandalo de morte et per bona via se assecurava quella cità, quale saria casone de grande turbacione quando altro fosse, pur non me se discovrì più ultra, dicendo […] alla giornata saranno inseme, ma senza fallo ello ha questa cosa per certa, che dentro è Mangagna”. Si noti che le prime parole del capoverso sono “parlando io con lo prefato amico”. Il “prefato amico” è quello del già menzionato secondo capoverso, il quale “disse in grande secreto che adesso molto strectamente se pratica l’accordio fra el papa et el re de Aragona et li nepoti”. Si vuole così attirare l’attenzione sul primo capoverso della decifrazione, nel quale si leggono le seguenti sibilline parole: “Son stato con la sanctità del papa et lectoli le novelle de Zenoa. De quelli consigliatosi consigli fatti circa le cose de Franza soa sanctità molto bb hebbe caro essere avisata del vero, perché qua se parlava variamente. Pur in lo suo parlare compresi se li comosse l’animo, quasi che le cose de re haveseno fusseno soe, et, udendo in le lettere nominare el figliolo del re Renato duca de Calabria, cossì, sorridendo, disse: ‘Esso se chiama Iohanne de Angiò’, quasi che tale parole li offendesse l’animo, pur, comprendendo che soa sanctità intendeva tale modo de parlare non procedere de là, non ne feci scusa. Et, benché per molte cose se pò conoscere fra soa sanctità et el re de Aragona essere rixa et sdegno, el qual alcuna fiata li straporta a fare dele demostracione assay rencresevole, pur, quando vedesse soa sanctità contra el re farsi per altri alcuna cosa dannosa, non lo potria patire, ma come padre sdegnato verso el figliolo, vedendo altri apparecchiarsi al danno de quello, […] ogni rangore, li provede et succure, reputandosse proprii, et non ha et non ha per bene sentire dire o fare da altri verso il suo figliolo male alcuno, quantunque esso alcuna fiata sdegnato ne dica male et pegio, et questo con quanto habbia possuto comprendere in questo facto per molte coniecture“. Con “le novelle de Zenoa” ci si riferisce a una minuta del 6 marzo di Francesco Sforza all’inizio delle quale si legge: “Perché intendiate quanto havemo delle cose de Zenoa et lo possiati referire alla sanctità de nostro Signore, ve mandamo inclusa la copia de d[.] alcune littere ne sonno state scritte in questa materia, quale poriti referire et legere alla sanctità prefata sanctità”. Al termine vi sono altri due destinatari oltre Ottone del Carretto, indicato nell’intestazione, ossia Nicodemo Tranchedini e Antonio da Trezzo. Quest’ultimo segnala la ricezione della missiva ducale in una lettera datata 23 marzo: “Veduto quanto la illustrissima signoria vostra me scrive per sue de dì VI del presente, ho significato alla maiestà del signore re quanto in le copie de Biasio da Gradi et Petro Acceptante ad quelle incluse se contenne” (alla nota 1 della pagina 610 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore pertanto sbaglia quando scrive che “La lettera del 6 marzo non ci è pervenuta”). Nicodemo Tranchedini riferisce la ricezione in una missiva datata 19 marzo: “Da Siena avisay vostra illustrissima signoria de quanto io havia exequito per vostra parte a Piombino et dissi che heri serey qui. Cossì feci. Trovay che meser Angelo Azaioli era gionto luy ancora in quel’hora. Trovay etiam qui le vostre de 27 et ultimo del passato et 6 del presente, quale mostray al magnifico Cosimo. […] Hebbi poy dal cancellere del’excellente signor de Faenza una vostra de 24 del passato, quale mostray al prefato Cosimo”. Si noti che la lettera dell’ambasciatore a Firenze non precede, come dovrebbe, quella a Ottone del Carretto, che è del 18 marzo, ma è del giorno successivo. In questo modo si vuole far capire che bisogna porre attenzione proprio alla missiva di Nicodemo Tranchedini, notando le lettere di febbraio che segnala di avere ricevuto, che sono datate 24, 27 e 28 (quella del 6 del mese di marzo è già stata verificata). Bisogna però effettuare un controllo non solo sulla corrispondenza Milano-Firenze, ma anche sugli epistolari di Francesco Sforza con Napoli, Roma e Venezia. Rispetto alla corrispondenza con Nicodemo Tranchedini vi sono tre minute del duca di Milano da esaminare, datate appunto 24, 27 e 28 febbraio. All’inizio della prima si legge quanto segue: “Credemo tu sappii quanto el magnifico signor Hestor da Faenza sia benivolo et affectionato servidore de quella excelsa comunità et ezianndio noy lo amiamo et habiamo caro, sì per le virtù soe sì ancora perché sempre l’habiamo conosciuto molto amorevole et affectionato verso noy in ogni tempo, in modo ch’el ne pare essere obligati in ogni qualunche suo bisogno doverlo favorirelo et adiutarelo et reputare el facto suo nostro proprio. Et, trovandose la signoria soa, come tu say, in lo affanno et travaglio ch’el se retrova per respecto ali denari che li fa domandare la maiestà del re de Ragona, al presente delibera adiutarse con del suo medesmo et maxime con el credito ch’el ha con quella comunità, il perché volemo tu in nostro nome el vogli strectamente recomendare ala Signoria soa, i come pregandola ch’ella voglia far qualche bona provisione al facto del dicto signor”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-10-a-20.46.07.pngA sottolineare l’importanza di questa minuta, in quella del 28 febbraio Francesco Sforza esordisce così: “Per le altre nostre precedente de XXV del presente te scripsimo ad bastanza de quanto ne occorreva, il che non replicaremo altramente al presente”, ossia sbagliando la data, che è il 24 febbraio, non il 25.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-10-a-21.24.44.png

Che non si tratti di un errore casuale è confermato dal fatto che si simula che alla fine della terz’ultima riga della minuta appunto del 24 febbraio si stesse scrivendo di nuovo la data. Si legge infatti il participio “Datum”, che poi però è stato depennato e sopra il quale è stata aggiunta la congiunzione “Et”. Nella riga successiva il testo prosegue con “advisane quanto in questa materia serà sequito”, parole dopo le quali è stata in effetti posta la data, che quindi, dopo essere stata collocata in alto a sinistra, è replicata alla fine della minuta, anche se in modo sbagliato. È infatti scritto “Datum Mediolani, die XXIIII”, vale a dire senza l’indicazione del mese.

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La ragione per la quale si vuole attirare l’attenzione sulla minuta del 24 febbraio è che, come in essa e solo in essa si parla di Astorgio da Faenza, allo stesso modo solo nella minuta datata 25 febbraio per Marchese da Varese, ambasciatore a Venezia, si accenna in modo chiaro, come vedremo, alle “littere [con la data 13 febbraio] del nostro [Corradino Giorgi] quale è presso dicto duca [Ludovico di Savoia] per la liberacione del dicto domino Aluyse [Ludovico Bolleri]”, parole collocate nel margine sinistro per dare loro maggiore risalto, aspetto per il quale il doge Pasquale Malipiero si conferma “garante finale della simulata autenticità della corrispondenza ducale con Corradino Giorgi”. L’importanza della minuta del 27 febbraio consiste nel suo terzo capoverso, nelle cui prime righe si legge quanto segue: “Apresso te mandiamo una copia de lettere ce ha scritto novamente el duca de Savoya, per le quale pare ch’el re Renato gli vogli fare guerra. La casone luy monstra non saperla, ma nuy siamo informati ch’ell’è per rispecto de miser Aluyse Boleri, quale, como tu debbi sapere, zà più mesi è stato sostenuto et è in le forze d’esso duca de Savoya. Pare ch’el re Renato lo rechiedesse al duca de Savoya como suo homo et suo vasallo et ch’el duca de Savoya non l’habii voluto lassare, donde el re Renato se è promosto ad volerli fare guerra”. La minuta del 28 febbraio, benché in essa siano contenute informazioni notevoli riguardanti Genova, è rilevante soprattutto per il suo legame, già sottolineato, con quella del 24 dello stesso mese, anche se viene sbagliata la data scrivendo che è del 25 febbraio. Per quanto riguarda la corrispondenza Milano-Napoli, la minuta ducale del 28 febbraio diretta ad Antonio da Trezzo (quest’ultimo segnala la ricezione della relativa lettera in una sua missiva del 15 marzo) riferisce informazioni simili, anche se non del tutto identiche, a quelle contenute nella minuta con la stessa data per Nicodemo Tranchedini. L’aspetto importante è che in essa ci si riferisce alla minuta del giorno prima (l’ambasciatore a Napoli riferisce di avere ricevuto la corrispettiva lettera in una sua missiva datata 13 marzo). È scritto infatti così: “Heri per altre nostre te scripsimo diffusamente quanto ne occorreva che tu dovesti comunicare con la serenissima maiestà del signore re”. La minuta del 27 febbraio è notevole per quattro aspetti. Innanzitutto all’inizio del suo quarto e ultimo capoverso si legge quanto segue: “Postremo te mandiamo una copia de lettera ce ha scritto lo illustre duca de Savoya, per la quale monstra che lo .. duca Renato vogli moverli guerra contro. La casone monstra non saperla, ma nui intendiamo ch’ell’è per la presa de miser Aluyse Boleri, el quale esso duca Renato domanda sii liberato como vasallo et homo suo et pur fin ad qui non è relaxato, et per questo esso duca de Savoya ne rechiede de adiuto et favore etc.”. Poiché soprattuto, ma non solo, il quarto capoverso presenta numerose correzioni, dalla minuta è stata tratta una minuta in bella copia, per così dire, che costituisce un fatto, se non unico, certo molto raro nel Fondo Sforzesco. Si noti inoltre che il quarto capoverso inizia alla fine del verso della prima pagina della minuta e prosegue alla fine del recto della seconda, non all’inizio, dove dovrebbe trovarsi e dove invece si trova una “Poliza in suprascriptis litteris”, con il risultato che da un punto di vista redazionale, per così dire, non è affatto scontato che esso sia stato scritto prima della “Poliza”. L’inconsueta posizione implicherebbe, infatti, che la sua stesura risalga a un momento successivo, altrimenti non si capisce perché non si sia proseguito all’inizio del recto della seconda pagina e non alla fine.

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Il terzo aspetto notevole, collegato al precedente, è che nel margine sinistro del primo capoverso sono inserite le seguenti parole: “perché lassiamo stare che quelle lettere che hano misso ad campo non siano puncto vere, ma pur non gli fecemo may uno minimo pensero, siché pur una minima cosa che se contene in quelle lettere non è vera”. Queste ultime sono riprese, come se fossero l’argomento centrale del capoverso, in una specie di curioso e insolito indice posto al termine della minuta, a sottolinearne l’importanza. Si legge infatti: “Che non siano vere quelle lettere, ma una minima etc.”.

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Alla nota 1 della pagina 608 del I volume di Dispacci sforzeschi da Napoli Francesco Senatore liquida la suddetta minuta scrivendo che “Nella sua del 27.II.1458 […], F. Sforza tornò sulla questione delle lettere falsificate in suo discredito, su cui gli aveva riferito Cusani, rientrato a Milano”, senza cogliere che con le parole poste nel margine sinistro del primo capoverso e con il primo punto dell’indice della minuta si sta in realtà comunicando al lettore quali siano le reali caratteristiche delle missive che sta leggendo nelle corrispondenze Milano-Napoli, Milano-Firenze e Milano-Roma. Esse non sono “vere”, ragione per la quale si può capire perché Francesco Sforza “scelse il doge di Venezia come una sorta di garante finale della simulata autenticità della corrispondenza ducale con Corradino Giorgi”, in quanto egli, come detto, non era sospettabile “di alcuna connivenza con il duca di Milano”, benché pure le lettere di Marchese da Varese non siano autentiche, per quanto il loro contenuto sia verosimile. A conferma che si vogliono evidenziare le correzioni, intese anche come quanto scritto nel margine, vi è la minuta in bella copia e la precedente minuta con la sua particolare disposizione del quarto capoverso, di cui si è detto che “implicherebbe […] che la sua stesura risalga a un momento successivo [rispetto a quella della “Poliza”], altrimenti non si capisce perché non si sia proseguito all’inizio del recto della seconda pagina e non alla fine”. In realtà, quello che si vuole comunicare è esattamente l’opposto, ossia che esso è stato scritto prima, e non dopo, del resto della minuta, la cui impaginazione è stata quindi fatta per tentativi scrivendo blocchi di testo più di una volta su fogli a parte, come una sorta di menabò, calibrando il risultato finale in base proprio al quarto capoverso, in modo da dare risalto alle sue parole e a quelle nel margine sinistro del primo. Il messaggio che si vuole inviare con la presenza della bella copia della minuta è che paradossalmente, per ottenere la brutta copia così come essa si presenta, sono stati fatti appunto più tentativi. Si è di fronte a una sorta di bella copia della brutta copia, che quindi ha un carattere per così dire quasi artistico. Si consideri al proposito che, come si è visto sopra, la lettera per Marchese da Varese in cui si parla del minacciato attacco a Ludovico di Savoia da parte di Renato d’Angiò è del 25 febbraio. Pertanto il 27 febbraio, data della minuta per Antonio da Trezzo apparentemente scorretta, che in realtà è corretta nel suo essere scorretta, perché era questo il risultato che si voleva ottenere, Francesco Sforza aveva già le informazioni per scrivere il quarto capoverso prima del resto della minuta. Dal punto di vista cronologico non ha senso che esso sia stato scritto dopo rispetto alla “Poliza”, appunto perché, lo ribadiamo, si era già in possesso delle informazioni necessarie per scriverlo al limite nel modo più scontato, ossia alla fine del verso della prima pagina della minuta e all’inizio del recto della seconda. Di conseguenza, considerate le correzioni che caratterizzano il quarto capoverso e la precisione con cui è calibrata l’altezza del segno di inserimento posto nel margine sinistro del primo, la procedura più economica, per così dire, dal punto di vista dell’impaginazione è che il corpo centrale della minuta sia stato scritto dopo lo stesso quarto capoverso, andando per tentativi scrivendo blocchi di testo su fogli a parte come si trattasse di un menabò. Anticipiamo comunque che, come vedremo, si simula che il quarto capoverso sia stato scritto dopo, pur avendo le informazioni prima, anche per attirare l’attenzione su di esso rispetto al capoverso in cui si parla dello stesso argomento nella minuta diretta a Marchese da Varese del 25 febbraio sopra citata, il quale contiene informazioni differenti. A questo punto si può passare a esaminare la corrispondenza Milano-Roma. All’interno di quest’ultima si trovano tre minute di Francesco Sforza datate 28 febbraio, di cui Ottone del Carretto riferisce la ricezione in una sua lettera del 6 marzo. Solo in una però si trattano temi di politica generale, mentre le altre due riguardano questioni di tipo più strettamente ecclesiastico. A differenza delle minute con la stessa data dirette a Nicodemo Tranchedini e Antonio da Trezzo, inoltre, in quella dal carattere politico non si segnala l’invio di precedenti lettere né si riferiscono informazioni riguardanti Genova, bensì si trattano argomenti diversi. Nella cartella Roma 46 vi è poi una minuta datata 25 febbraio, ma parla di un tema secondario e in più, lo ribadiamo perché è un aspetto fondamentale, a essa non si accenna nella minuta del 28 febbraio. Manca quindi una minuta datata 27 febbraio, analoga a quelle presenti nelle corrispondenze con gli ambasciatori a Firenze e Napoli, nella quale si parli del minacciato intervento di Renato d’Angiò contro Ludovico di Savoia a causa della cattura di Ludovico Bolleri. Proprio per le sue caratteristiche del tutto differenti rispetto alle minute presenti negli epistolari Milano-Firenze e Milano-Roma la minuta del 28 febbraio è il segnale che con un documento con la stessa data, dopo il minacciato attacco di Renato d’Angiò a Ludovico di Savoia, fu domandato a papa Callisto III di intervenire con una bolla prima che il 14 marzo ci si rivolgesse ad Alfonso d’Aragona e a Cosimo de’ Medici. La ragione è spiegata nella stessa minuta, la cui intestazione bisogna segnalare essere di nuovo “Domino Othoni Carreto, Rome”, vale a dire senza la preposizione “de” dopo il nome “Othoni”, quasi a creare un parallelismo con la minuta di aprile priva dell’indicazione del giorno del mese.

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All’inizio del terzo capoverso, che a differenza dei due precedenti da mettere in cifra va lasciato in chiaro, si legge infatti: “Alla parte ne scrivete delo rasonamento vi ha facto la sanctità de nostro Signore circa li facti del conte Iacomo etc., dicemo che, se la sanctità sua ve ne domandarà più o s’el vi accaderà in proposito, dicate che del conte Iacomo ha ad essere una de doe cose, cioè soldato et homo de la maiestà del re o libero et senza soldo”. Alcune righe dopo si precisa: “s’el serà homo libero et voresse malignare, essendo maxime la sanctità de nostro Signore capo et protectore, conservatore d’essa pace et Liga [‘de Italia’] como ell’è, non solamente el conte Iacomo se guardarà de fare offesa né novità alle potentie d’essa Liga né ad membro d’essa, che tutti sono coniuncti et non poria fare novità non contrafacesse ad la Liga, ma haverà caro de stare ad segno et assay de conservare quello pocho che havesse”. Le parole chiave, per così dire, sono “essendo maxime la sanctità de nostro Signore capo et protectore, conservatore d’essa pace et Liga como ell’è”. Esiste infatti un curioso documento nel quale sono riportati in bella copia, per così dire, i due capoversi che dovrebbero essere messi in cifra, a sottolineare la centralità del terzo capoverso in chiaro, anche se ne esiste un quarto breve che però ha un valore puramente riempitivo.

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A ulteriore conferma nella cartella Roma 46 è presente l’originale. In esso il recto del foglio finisce non certo per caso con le parole “essendo maxime la sanctità de nostro Signore capo, protectore”, che proseguono nel verso con “et conservatore d’essa pace et Liga como l’è” (si noti inoltre che l’ultima riga del recto inizia con “homo libero”, mentre la prima del verso finisce con “guar[d][…]”, termini che paiono da porre in relazione con la minuta ducale del 10 gennaio 1458 intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”). E’ evidente che anche questo documento, come la minuta del 27 febbraio avente come destinatario Antonio da Trezzo, “ha un carattere per così dire quasi artistico” per come sono calibrati i suddetti termini. Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-11-a-08.17.50.pngQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-11-a-08.18.13.png

A sottolineare la centralità delle parole riportate, nella minuta con tutti e quattro i capoversi si legge “capo et protectore, conservatore”. Il sostantivo “protectore” è scritto nell’interlinea sopra “conservatore” con un segno di inserimento tra “et” e appunto “conservatore”. Di conseguenza la congiunzione “et” non risulta collocata nel modo corretto, mentre lo è nell’originale, in cui si legge “capo, protectore et conservatore”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-10-a-21.15.17.png

Essendo quindi “capo, protectore et conservatore d’essa pace et Liga como l’è”, il pontefice è stato avvertito di quanto stava accadendo a Ludovico di Savoia e della necessità di intervenire prima rispetto ad Alfonso d’Aragona e Cosimo de’ Medici e quindi prima della minuta del 13 aprile recante come destinatari gli ambasciatori presso le quattro maggiori potenze della Lega italica. Un’altra conferma in questo senso è data dalla lettera del 6 marzo nella quale Ottone del Carretto segnala la ricezione della missiva dal contenuto più politico datata 28 febbraio. Nelle prime due righe e mezzo del secondo capoverso si legge infatti: “Preterea hame ditto la sanctità de nostro havere havute lettere dal reverendissimo cardinal de Sancto Angelo, qual scrive certamente essere fatto re d’Ungaria quello figliolo de Iohanne Vaynodo, secundo che vostra excellencia me scrisse”. Come si può notare, dopo l’aggettivo possessivo “nostro” manca significativamente “Signore”, che è invece presente alla fine del primo capoverso (“la qual cosa la sanctità de nostro Signore pare habbi asay molesta et ha scritto a sua maiestà opportune. Ancora non se ha risposta”) e alla fine dello stesso secondo capoverso (“[Preterea hame ditto la sanctità de nostro havere havute lettere dal reverendissimo cardinal de Sancto Angelo, qual scrive] […] come è morto il dispotto de Servia a le confine de turchi et come ha lassato herede de tutti li beni soy la sanctità de nostro Signore et la fede apostolica et così scrive ditto monsignore come se partiva per andare a prehendere la possessione de quelli a nome de Sancta Chiesa”]).Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-11-a-08.14.34.png

Ne consegue che papa Callisto III è stato avvertito delle iniziative militari del duca sabaudo prima che esse iniziassero, volendo pertanto far capire che esse “sono state concordate e pertanto si tratta di simulazioni”, anche se naturalmente, per riprendere le parole della lettera del 18 aprile di Corradino Giorgi sopra menzionata, è possibile che alcuni di “queli erano a quela impresa [“contra domino Honorato, conte de Tenda, he cusì contra le altre terre de domino Aloysse Bollero”] havevanno passati ly termini dely comandamenti e instrutione a lore dacte” e che quindi “le insolentie” “erano facte contra et preter voluntatem suam [di Ludovico di Savoia]”, perché non è pensabile che tutti fossero informati di quanto in realtà stesse accadendo. A questo punto possiamo passare a esaminare la corrispondenza Milano-Venezia, verificando innanzitutto, sul modello degli altri epistolari, se esiste una minuta ducale datata 28 febbraio. La ricerca offre esito positivo. Nelle prime righe del documento si legge quanto segue: “Haveray veduto per la copia d’una littera ad nuy scripta per Pedro Acceptante inclusa in la littera te scripsimo mo ultimamente quello che fin alhora era successo de le cose de Zenova et del tucto siamo certi haveray dato noticia ad quella illustrissima signoria”. La missiva alla quale ci si riferisce è quella ricavata dalla minuta del 25 febbraio cui si è già accennato (da considerare in relazione alla minuta con la data 24 febbraio avente come destinatario Nicodemo Tranchedini, che poi, nella minuta del 28 dello stesso mese con il medesimo destinatario, Francesco Sforza attribuisce al 25). All’inizio del terzo capoverso di quest’ultima è scritto così: “Te mandiamo ancora la copia de un’altra lettera che pur her sera havessemo da Zenoa, dela quale, insieme con le sopradicte, etiandio daray notitia a quella illustre signoria, perché ella intenda quello che noy medesmi intendemo de quelle cose”. Per quanto riguarda le “sopradicte”, nelle prime righe del capoverso precedente vi sono le seguenti parole: “Appresso, seguendo el nostro usato costume de advisare quella illustre signoria de quello che alla giornata ne accade digno de notitia, te mandiamo qui inclusa la copia de una lettera che novamente havemo recevuto dal duca de Savoya”. Si noti che della missiva estratta dalla minuta del 28 febbraio Marchese da Varese segnala la ricezione nella sua lettera datata 6 marzo, nella quale precisa sibillino che “In quel loco non gli era ordine per fare l’ambasata” e di cui si è già parlato in quanto, quando a sua volta il duca di Milano ne riferisce la ricezione in una sua minuta del 14 marzo, rimprovera l’ambasciatore perché “ne pare tu scrivi troppo largo scrivendo quello tu scrivi de quello tuo parere et de quello te pare comprendere de quelle cose etc. et dispositione dellà etc. senza cifera”. Prima di approfondire la minuta del 25 febbraio, è opportuno precisare che all’inizio di quella del 28 dello stesso mese vi sono due righe depennate che precedono il testo sopra riportato nelle quali si legge: “Per l’ultima nostra te advisassemo per una inclusa in quella de Pedro Acceptante”, parole pertanto diverse da “Haveray veduto per la copia d’una littera ad nuy scripta per Pedro Acceptante inclusa in la littera te scripsimo mo ultimamente”.

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La ragione della differenza è che si vuole attirare l’attenzione sui termini “la copia d’una littera” assenti nelle righe depennate. D’altra parte, la motivazione dell’assenza dipende dal fatto che vi è una missiva di Marchese da Varese datata “XXXVIII februarii 1458”, ossia 38 febbraio, che ovviamente dovrebbe essere datata 28 febbraio, vale a dire come la suddetta minuta, la quale si vuole far capire essere una “copia”, come segnala la “X” di troppo, con cui si intende avvertire che nella prima minuta ducale che precede la missiva, appunto la minuta datata 25 febbraio, vi è un nuovo collegamento con la corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi oltre a quello già segnalato nella minuta ducale del 10 maggio. Si tratta della prima prova esterna rispetto all’epistolario con l’ambasciatore in Savoia.

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Marchese da Varese ha pertanto ricevuto una minuta da copiare con l’indicazione di porre la data 38 febbraio. La minuta ducale datata 25 febbraio che contiene un collegamento ipertestuale alla lettera di Corradino Giorgi del 13 febbraio, quella del 28 dello stesso mese e la missiva che contiene il segnale della “X” di troppo sono tre documenti frutto di un’unica mente, che risiedeva a Milano, anche se poi la lettera datata 38 febbraio è stata scritta da Marchese da Varese. Può essere utile pure considerare il testo di quest’ultima missiva. L’ambasciatore a Venezia scrive che “circa X dì lo serenissimo principe me mandò quisti try astori in dono ala vostra signoria”, precisando di “habere informatione di questo terzolo che troppo è fiero et avantegiato”. Dopo la data l’inviato ducale ribadisce che il doge “dise lo terzolo tra a lepore et ad altre cose ch’è troppo avantegiato”. Francesco Sforza segnala la ricezione della missiva in una sua minuta del 9 marzo nella quale si legge: “Havemo ricevuto doe toe littere, l’una del’ultimo del passato, l’altra de dì tre del presente, et inteso quanto per quelle tu ne scrivi. Te respondemo: et primo ne sono molto piaciuti li tre astorri li quali quella illustrissima signoria ne ha mandato, benché de quelli ne sia morto uno per camino”. Con sottile senso dell’ironia Francesco Sforza, informato dal suo ambasciatore del regalo del doge, ha ideato la lettera-segnale, per così dire, con la firma Marchese da Varese e la minuta ducale del 9 marzo stabilendo una corrispondenza fra le tre “X” di “XXXVIII februarii”, di cui una è da depennare, e i tre astori regalati dal doge di Venezia, di cui uno muore “per camino” verso Milano. A conferma di quanto appena scritto, per dare risalto al numero “3”, non solo in un primo momento il pronome personale “Te” prima di “Respondemo” è stato scritto “Tre”, poi corretto appunto in “Te”, ma il numero “tre” fra l’articolo “li” e il sostantivo “astorri” è stato posto nell’interlinea con un segno di inserimento fra le due suddette parole.

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La corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi è dunque agganciata con due prove esterne all’epistolario del duca con Marchese da Varese, interessate da altrettanti errori di datazione, i quali confermano che esse sono state collocate ad arte e non hanno quindi alcuna natura di prova rispetto all’autenticità della documentazione, anzi confermano e quasi esaltano la sua non autenticità, già peraltro anticipata dal documento intitolato “Lo modo da dare la polvere da fare dormire le guardie etc.” se correttamente interpretato. I due errori di datazione vogliono però soprattutto segnalare che, nel caso lo si desiderasse, sarebbe possibile verificare presso il doge Pasquale Malipiero se egli abbia o meno ricevuto le informazioni riguardanti il ducato di Savoia riportate nelle minute ducali datate 25 febbraio e 10 maggio. Come sappiamo, una delle caratteristiche più eclatanti della beffa sforzesca consiste proprio in questo aspetto paradossale: da un lato la documentazione dichiara in modo esplicito la sua non autenticità, dall’altro avrebbe permesso di avere riscontri presso il doge di Venezia, con il quale, lo ribadiamo, il duca di Milano non era in buoni rapporti, riguardo alla verosimiglianza del suo contenuto, resi possibili dalla “corrispondenza sommersa” cui si è accennato più volte. L’obiezione che la missiva datata 28 febbraio di Marchese da Varese è preceduta da una del 27 dello stesso mese e che quindi essa non costituisca un segnale rispetto alla minuta di Francesco Sforza del 25 febbraio non può essere sostenuta. In realtà, con la prima lettera dell’ambasciatore a Venezia non si vuole stabilire una relazione con la sua missiva del 27 febbraio, ma con la minuta ducale con la stessa data, che è preceduta da quella del 25 in cui vi è il collegamento ipertestuale con la corrispondenza di Francesco Sforza con Corradino Giorgi. La conferma di quanto appena sostenuto è data da un documento molto particolare per il cui esame in questa sede possiamo iniziare da un piccolo foglio incollato in basso a sinistra nel recto della seconda pagina di un’epistola di Marchese da Varese datata 2 maggio, in grado di attirare l’attenzione del lettore per via della sua posizione, nel quale si legge: “Frategli del ditto Bartholomeo più dì mi fecero parlare et poy loro, sempre dicendo se io haveva lettera nesuna dela signoria vostra. Rispose sempre de non, come era il vero, perché in fin alora non haveva soa lettera. Ne aviso che già più dì de questa cosa n’à avisato soy frategli, siché la lettera fece fare là in mio nome non vene a servire a tempo”.

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Il riferimento dell’ambasciatore a Venezia a una missiva che Francesco Sforza “fece fare là in mio nome” non può lasciare indifferenti. Si scopre così che nel post scriptum di una minuta datata 28 aprile il duca di Milano accenna a Bartolomeo Pisani. Bandito da Venezia, ha chiesto a Francesco Sforza di accoglierlo in corte. Il duca di Milano, che non vuole problemi con il doge, segnala di avergli mostrato l’epistola datata 21 aprile, che è una missiva solo apparentemente inviata da Marchese da Varese. Il documento, in cui si simula che Francesco Sforza abbia scritto al suo inviato di Pisani, si presenta infatti come un falso prodotto dalla cancelleria al fine di inventare un pretesto che consenta al duca di Milano di non accettare la richiesta. Poiché Bartolomeo potrebbe avvisare della lettera i parenti, Francesco Sforza invia all’ambasciatore a Venezia copia della missiva, in modo che, se interrogato al riguardo, egli non fornisca risposte discordanti da essa. Si noti che, a sottolineare l’importanza di quest’ultima minuta, nell’intestazione essa presenta in modo piuttosto insolito solo il nome del destinatario “Marchesio de Varesio” e non la data, che si trova alla fine della prima porzione di testo, ossia prima dell’inizio del post scriptum. Si osservi inoltre che la prima parola di quest’ultimo dopo i termini “Post datum” è il verbo “Sonno”, sopra il quale si trova la lettera “p” depennata.

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La ricezione dell’epistola dichiaratamente non autentica viene segnalata nella lettera del 2 maggio di Marchese da Varese in modo per così dire indiretto. In quest’ultima missiva, come abbiamo visto, l’ambasciatore a Venezia scrive infatti che Bartolomeo Pisani aveva già informato dell’epistola i fratelli, che a loro volta gli hanno chiesto se aveva ricevuto una lettera dal duca di Milano. Marchese da Varese ha però risposto, smentendo quindi Francesco Sforza, “de non, come era il vero, perché in fin alora non haveva soa lettera”, affermazione che implica al momento della scrittura della missiva del 2 maggio la ricezione dell’epistola di Francesco Sforza estratta dalla minuta datata 28 aprile con l’allegata copia della missiva falsa del 21 aprile. A questo punto la netta dichiarazione di non autenticità di una lettera da parte del duca di Milano deve indurre il lettore a esaminare con maggiore attenzione le prime parole del foglietto della lettera del 2 maggio di Marchese da Varese: “Frategli del ditto Bartholomeo più dì mi fecero parlare”. Qui interessa soprattutto rilevare che il participio “ditto” si configura come un errore, perché Bartolomeo Pisani viene menzionato per la prima volta nella missiva. Anche se potrebbe sembrare che l’inviato ricorra a questa anomalia per replicare alla lettera ricavata dalla minuta ducale del 28 aprile, in realtà si vuole comunicare al lettore di procedere logicamente, considerando vincolate dal tema di Pisani la missiva falsa datata 21 aprile e quella del 2 maggio. Il participio “ditto” trova così la sua spiegazione nel fatto che è come se la prima lettera non autentica fosse ancora “attiva” al momento di dedicarsi alla missiva del 2 maggio, come se, quindi, le due epistole fossero state scritte in rapida successione dalla stessa mano. Tuttavia, come sappiamo, la prima è una lettera non autentica. Collegando la missiva del 2 maggio, documento che pare una lettera vera, alla missiva falsa datata 21 aprile, si intende suggerire che anche la prima non è autentica e così per contaminazione le altre missive dell’ambasciatore a Venezia. Si instaura pertanto una sorta di identificazione fra le lettere di Marchese da Varese e le minute di Francesco Sforza, perché realizzate da una medesima mente che risiedeva a Milano, la quale conferma che la lettera-segnale dell’ambasciatore a Venezia datata “XXXVIII februarii” non instaura una connessione con la sua precedente missiva del 27 dello stesso mese, ma con la minuta ducale del 28 febbraio preceduta dalla minuta di Francesco Sforza del 25 febbraio con il suo collegamento ipertestuale con la corrispondenza tra il duca di Milano e Corradino Giorgi. Ma c’è di più. Con la missiva falsa datata 2 maggio si vuole far capire che le lettere dell’inviato milanese a Venezia non sono state scritte “in suo nome”. Proprio per evitare situazioni imbarazzanti simili a quella segnalata dal “caso Pisani”, concepito anche per permettere di apprezzare per contrasto il perfetto funzionamento della cancelleria sforzesca, la stessa cancelleria non agiva in completa autonomia, ma sulla base delle informazioni ricevute nella “corrispondenza sommersa” ideava minute “in nome” di Marchese da Varese, il quale in un secondo momento provvedeva a scrivere le lettere di persona. In questo modo l’ambasciatore era informato appieno del contenuto del falso epistolario a lui attribuito e poteva agire di conseguenza. A conferma di quanto appena scritto vi sono due aspetti. Il primo è che da un punto di vista grafico la lettera non autentica del 21 aprile è diversa da quelle a firma Marchese da Varese. Se la grafia non è del tutto dissimile da quella dell’ambasciatore a Venezia, non lo è l’interlinea fra le righe, per il quale la missiva risulta scritta in modo più fitto.

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Vi è inoltre una considerazione da compiere in merito allo stile di scrittura di Marchese da Varese. Quest’ultimo è infatti differente rispetto a quelli di Nicodemo Tranchedini, Antonio da Trezzo e Ottone del Carretto, che fra loro paiono quasi intercambiabili. Per renderlo identificabile e appunto non intercambiabile, lo stile di scrittura dell’ambasciatore a Venezia è decisamente personale, diverso da come si presenta nella lettera falsa del 21 aprile. Quest’ultima, pertanto, non poteva che essere esibita da sola, non insieme alle altre missive di Marchese da Varese, perché proprio per il suo stile, ancora più che per l’interlinea, ci si sarebbe accorti che si trattava di un falso. Da tale osservazione ne consegue che per contrasto l’ambasciatore a Venezia, oltre a scrivere le sue lettere sulla base delle minute ricevute da Milano con il suo particolare interlinea, le rielaborava con il suo personale stile di scrittura, avendo quindi da questo punto di vista un compito più gravoso rispetto a quello degli ambasciatori a Firenze, Napoli e Roma. Bisogna poi fare un’altra osservazione. Come si è scritto, Bartolomeo Pisani, “bandito da Venezia, ha chiesto a Francesco Sforza di accoglierlo in corte. Il duca di Milano, che non vuole problemi con il doge, segnala di avergli mostrato l’epistola datata 21 aprile, che è una missiva solo apparentemente inviata da Marchese da Varese. Il documento, in cui si simula che Francesco Sforza abbia scritto al suo inviato di Pisani, si presenta infatti come un falso prodotto dalla cancelleria al fine di inventare un pretesto che consenta al duca di Milano di non accettare la richiesta”. Quello che si vuole far capire è che all’opposto Francesco Sforza è consapevole di avere al suo servizio persone che fanno il doppio gioco, ossia in sostanza spie che in realtà dipendono da Venezia. Oltre che per ambasciatori francesi e del doge giunti a Milano, è pertanto anche per loro che sono state ideate le corrispondenze qui in esame, avendo queste persone evidentemente accesso alla cancelleria. Le ragioni per le quali nella data “XXXVIII februarii” della lettera di Marchese da Varese è stata aggiunta una “X” di troppo sono essenzialmente due. Per comprendere la prima, è necessario seguire il già citato filo d’Arianna. Come si è scritto, nella minuta del 25 febbraio avente come destinatario l’ambasciatore a Venezia, Francesco Sforza si riferisce, benché in modo improprio, alla missiva di Corradino Giorgi datata 13 febbraio. All’inizio di quest’ultima l’ambasciatore in Savoia riassume il tema di precedenti lettere da lui inviate al duca di Milano. Si tratta di epistole appartenenti alle missive del sacco, che, come si è scritto nel testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino, “non possono integrare la serie delle lettere concatenate fra loro in quanto contengono elementi contraddittori rispetto a esse”, per i quali rimandiamo al testo sopra menzionato. Qui è tuttavia opportuno sottolineare i seguenti aspetti. In primo luogo, come rilevato in Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino, della missiva in cifra del 26 gennaio apparentemente di Corradino Giorgi, cui l’ambasciatore pare riferirsi nella sua lettera del 13 febbraio, anche se in modo errato, e che appartiene alle missive del sacco, “esiste un documento il quale presenta caratteristiche peculiari, prima fra tutte in basso a destra la firma ‘Conradinus de Georgiis’ nonostante la grafia sia del decifratore. Non può tuttavia essere considerato una decifrazione, in quanto le decifrazioni delle lettere dell’inviato ducale recano tutte in alto l’intestazione ‘Ex zifra Conradini de Georgiis’, di cui il documento è privo, e nessuna di esse è firmata.

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Soprattutto quest’ultimo aspetto rende anzi il documento anomalo rispetto non solo alle decifrazioni dell’ambasciatore sforzesco, ma anche all’intero corpus di decifrazioni reperibili presso il Fondo Sforzesco dell’Archivio di Stato di Milano. Rileviamo che alle pagine 256-260 e 396-417 dedicate alle cifre di Uno mundo de carta Francesco Senatore non segnala il caso di decifrazioni al termine delle quali il decifratore ponga il nome del mittente. Il documento si configura pertanto come una minuta, opera del decifratore ed eseguita presso la cancelleria a Milano, da cui in un secondo momento Corradino Giorgi ha tratto la lettera in cifra. Può essere il caso di rilevare che esso è interessato da un errore di datazione. Nella parte iniziale della missiva datata 18 aprile l’ambasciatore in Savoia scrive infatti: ‘Ho intexo quanto sce grava la signoria vostra de mi non habia visitati questi signori ambaxatori del re de Franza quali erano qui he la iniuntione me fa la signoria vostra, la qual statim haverea exequita sce gli fosano stati, ma erano zà partiti, como ha potuto intendere la signoria vostra per una mia data a desdoto del passato, ma, aciò la signoria vostra intenda alchuna cosa dela casone dela mia negligentia, hè stato però che, havendo scripto de molti giorni avanti la loro venuta, io avisai la signoria vostra per molte mie letre he dela ambasciata haveano facti e delo aviso havea da Guliermo Bolero, qual era cum essi, e per alchune de esse mie letre pregava la signoria vostra gli piazese farme dare adviso de quanto havea a fare, unde mai non have resposta de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo’. Trascurando l’errore di datazione che Corradino Giorgi compie segnalando di avere avvisato Francesco Sforza della partenza degli ambasciatori francesi con una lettera ‘data a desdoto del passato’, perché la lettera cui si riferisce, nella quale esordisce avvisando che ‘li ambaxadori del re di Franza sono partiti’, è del 28 marzo [si tratta della missiva più volte citata in cui si annuncia la liberazione di Ludovico di Savoia dalla condizione di “subiectione” rispetto a Carlo VII], qui importa sottolineare che, quando l’inviato ducale segnala di non avere avuto risposta “de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo”, cade in un altro errore. La prima data deve infatti essere corretta in 25 gennaio, perché nella missiva in cifra del 26 gennaio di cui sopra l’inviato sforzesco avvisa che “a vintacinque dil prescente per lo Boffa cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra”. Viene così attirata l’attenzione appunto sul documento in cifra e sulla minuta, in modo da sottolineare che dal punto di vista della cronologia redazionale la seconda, che non è una decifrazione, non segue il primo, bensì lo precede in quanto appunto minuta. La missiva in cifra si configura pertanto come la copia di una minuta o, se si preferisce, un evidente falso. Si vuole in questo modo far capire al lettore che la lettera in questione e le altre missive [del sacco] […] di Corradino Giorgi non solo non possono essere accostate alle lettere della serie delle ‘prese’, ma a differenza di queste ultime, che si dichiarano non autentiche in modo velato con la minuta del 10 gennaio intitolata ‘Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.’, vogliono sembrare falsi ‘palesi’, consegnati all’interno di un sacco a Francesco Sforza alla fine di aprile”. Con il filo d’Arianna che dalla lettera di Marchese da Varese datata “XXXVIII februarii” si dipana sino alla “copia” del 26 gennaio di Corradino Giorgi si vuole far capire che anche le missive di Marchese da Varese, e non solo, almeno limitatamente alla sezione del Fondo Sforzesco qui in esame, si configurano come copie (o, se si preferisce, evidenti falsi). Nella parte iniziale della “copia” del 26 gennaio si segnala poi la ricezione di precedenti epistole di Francesco Sforza. Si legge infatti: “Per Filipo cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra a dì vinti del presente cum la polvere he ho intexo la continentia e lo modo se debe servare in adoperare dicta polvere, il che farò intendere alo amicho, s’el sarà possibile, benché sento certo sarà dificilissima cosa, però hè sechata la via qual havea del famiglio suo che portava le letre hinc inde, perché non fide lasato più inscir […] como per mie altre ho scripto la signoria vostra”. Il filo d’Arianna arriva così alla minuta ducale datata 10 gennaio 1458 intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, nel cui primo capoverso è scritto che “Le prese sono X per persone X”. Si spiega così una delle due “ragioni per le quali nella data ‘XXXVIII februarii’ della lettera di Marchese da Varese è stata aggiunta una ‘X’ di troppo”. Per comprendere la seconda motivazione, bisogna considerare che è stata scelta proprio la data del 28 febbraio e non un giorno precedente dello stesso mese. La ragione dipende dal fatto che secondo lo stile veneto l’anno comincia dal 1° marzo, posticipando sul moderno, al quale corrisponde dal 1° marzo al 31 dicembre. Secondo lo stile veneto, il 28 febbraio è dunque l’ultimo giorno dell’anno, di cui poi ne comincia uno nuovo. È quindi necessario considerare che la missiva con la quale Alfonso d’Aragona pare intervenire in favore di Francesco Sforza nel contrasto che lo oppone a Ludovico di Savoia è datata 25 aprile. Questa data è peraltro richiamata dall’errore commesso da Francesco Sforza nella sua minuta del 12 maggio avente come destinatario Corradino Giorgi. Come sappiamo, in quest’ultima il duca di Milano attribuisce la lettera dell’ambasciatore in Savoia datata 5 maggio al 2 dello stesso mese. L’obiettivo consiste nell’attirare l’attenzione sulla seconda prova esterna, ossia sulla minuta con destinatario Marchese da Varese datata 10 maggio, simulando di essere stato impaziente quando con la missiva ricavata da quest’ultima Francesco Sforza ha avvisato l’ambasciatore a Venezia che con una lettera datata 3 maggio Corradino Giorgi lo ha informato che Giorgio Piossasco non era ancora partito per Centallo. Si noti che inizialmente l’ambasciatore in Savoia ha scritto “5 aprilis”, poi corretto in “madii”, e che, nel momento in cui il duca di Milano assegna la missiva al 2 maggio, è come se il mese “aprilis” sia per così dire attivo e per questa via si alluda al 2 aprile, ossia al giorno di Pasqua del 1458 e quindi alla Resurrezione. Associando il “2” e il “5”, oltre al “52” si ottiene il numero “25”, con il quale, essendo in relazione ad aprile, si vuole far capire che ci si riferisce al 25 aprile, data della lettera di Alfonso d’Aragona e ultimo giorno in cui può cadere la Pasqua, che è una festa mobile. Si consideri inoltre che secondo lo stile della Pasqua o francese l’anno comincia dal giorno di Pasqua, posticipando sul moderno, al quale corrisponde da Pasqua al 31 dicembre. Il 25 aprile è dunque l’ultimo giorno con cui può cominciare l’inizio dell’anno secondo lo stile francese. Quello che si vuole far capire alludendo a esso è che si è vicini al momento in cui comincerà un periodo nuovo con la conclusione di uno vecchio. In sostanza, sia la prima prova esterna sia la seconda sono da porre in relazione con la fine e l’inizio di una fase, volendosi riferire al fatto che Carlo VII è molto malato e che il figlio Luigi è destinato a succedergli. Come si è già scritto sopra, proponendo una parte del testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione, “si vuole far capire ai filo Carlo-VII, francesi o meno, e a Venezia di agire […] senza precipitazione, con cautela e ponderando bene le mosse presenti in relazione al futuro, che sarà sotto il segno del delfino Luigi e non del padre”, “come sottolineato dal fatto che” “l’11 maggio, festa dell’Ascensione, è la data della minuta in cui il duca di Milano scrive a Marchese da Varese in merito al fatto che suo fratello Alessandro non torni a Milano, ma vada a Pesaro, simulando di essere adirato con lui per il viaggio che ha compiuto prima presso il re di Francia, meta paravento, per così dire, e poi presso il duca di Borgogna, reale obiettivo della missione per la presenza del delfino, con il quale Alessandro si è alleato per conto del fratello (al proposito si veda la parte finale del testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino). Come già espresso, il duca di Milano cerca di far capire in ogni modo quanto scritto sopra sia ai filo-Carlo VII, francesi o meno, sia a Venezia, in modo da dissuaderla dal trescare, se è concesso il termine, con il re di Francia”. A questo punto possiamo esaminare la minuta datata 25 febbraio avente come destinatario Marchese da Varese insieme ad altri documenti cui si è accennato. Nel secondo capoverso della minuta Francesco Sforza scrive così: “Appresso, seguendo el nostro usato costume de advisare quella illustre signoria de quello che alla giornata ne accade digno de adviso notitia, te mandiamo qui inclusa la copia de una lettera che novamente havemo recevuto dal illustrissimo signor duca de Savoya la quale. La resposta nostra è stata breve et honesta et in modo che, occorendoli pur el bisogno de essere adiutato, non haverà ad sperare in niuno nostro favore, maximamente perché in le conventione che ultimamente forono facte tra luy et noy volse omnino esso ducha che casa de Franza ne fusse exceptuata, benché ne rendiamo certi chel tra la maiestà del re Renato et lo predicto duca non haverà a succedere guerra alcuna, perché la caxone che ha mosso re Renato ad amenazare esso duca duca de farli guerra, come el scrive, è stata la captura de domino Aluyse Bollero, quale è suo feudatario et recomandato per alcuni castelli tene de qua dali monti, d et vene ad essere remossa, attento che, per quello che novamente havemo inteso per littere del nostro quale è presso dicto duca per la liberacione del dicto domino Aluyse, era per essere in brevi liberamente relaxato con la restitutione del suo castello de Centallo, dove fo preso con inganno, et con la satisfactione de XXXm ducati per li soy damni. Et questo segue per lo mezo dela maiestà del re de Franza, el quale ha mandato doy soy ambaxatori da esso duca de Savoya per questa propria caxone”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822022019570.jpg

Come già notato, per dare loro maggiore risalto, le parole da “per littere” fino a “dicto domino Aluyse” sono collocate nel margine sinistro. Ci si riferisce alla missiva di Corradino Giorgi del 13 febbraio, nelle cui prime righe si legge quanto segue: “Questi dì passati scrise la signoria vostra como lo re de Franza volia che domino Aloyse Bolero gli fose mandato et che per questo mandava ambaxadori da questo signore li quali glilo devevano conduere poi inmediate. Per altre mie scrise como intendeva più largamente, zoè lo prelibato re volere ad ogni modo questo signore gli mandase lo predicto domino Aloysio Bolero e che per questo remandava misir Uberto Valueto, lo quale era tornato, como per altr mie ho scripto, dal prefato re”. Poi si precisa che “intendo che lo predicto re de Franza, scecumdo che XXXXXX publice dicitur, et maxime da Pedemontani quali sce retrovano esser qui ex nunc, per quanto a quelle cose aspectano a lui ha liberato domino Aloysio Bolero e simil vole faza questo signore et ulterius vole gli scia restituito lo castello e darli tranta milia ducati per questo signore pro dannis et interese. Sce cusì serà vero, non lo posso bene intendere, del certo dicitur publice, como ho sopradicto”.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822022019562_0001.jpg

Nella parte iniziale del terzo capoverso della minuta datata 27 febbraio avente come destinatario Nicodemo Tranchedini si legge qualcosa di simile: “Apresso te mandiamo una copia de lettere ce ha scritto novamente el duca de Savoya, per le quale pare ch’el re Renato gli vogli fare guerra. La casone luy monstra non saperla, ma nuy siamo informati ch’ell’è per rispecto de miser Aluyse Boleri, quale, como tu debbi sapere, zà più mesi è stato sostenuto et è in le forze d’esso duca de Savoya. Pare ch’el re Renato lo rechiedesse al duca de Savoya como suo homo et suo vasallo et ch’el duca de Savoya non l’habii voluto lassare, donde el re Renato se è promosto a volerli fare guerra. Nuy havemo risposto al dicto duca de Savoya una lettera bona et humana, ma concludemo in effecto che, attenduto che esso duca, quando doveva fare la ratificatione dela pace ch’el fece con nuy, el tardò alcuni mesi et poy, quando in ultimo la fece, luy stesso exceptò fuora la casa de Franza et la liga de Hibernia, et per questo luy stesso [vetò] ad le potentie dela Liga che non lo potessero adiutare nuy non possiamo impazarce de questa facenda, ma che nientedemeno, in ogni cosa ne serà possibile, nuy ne sforzaremo de fargli quello che poteremo fare con nostro honore et con iustificatione, che la faremo voluntieri et de bona voglia”. Poi però è scritto così: “Per altra via intendiamo che la maiestà del re de Franza vole ch’el duca de Savoya remandi el dicto domino Aluyse ad la maiestà sua, la quale, poy che serà da quella, vorà sii rilaxato et gli sii restituito el suo et per questo ha mandato suo ambaxatore in Savoya”.

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Bisogna tuttavia rilevare che in un primo momento si leggeva quanto segue: “Per altra via intendiamo che la maiestà del re de Franza vole ch’el duca de Savoya relaxi el dicto domino Aluyse [et] che gli restituischa el suo et per questo ha mandato suo ambaxatore in Savoya”. Poi sopra “relaxi” depennato è stato scritto “remandi” e alla fine della quart’ultima riga sopra “[et]” depennato è stato aggiunto “da la maiestà sua, la”, parole che finiscono nel margine destro con un segno di inserimento ripreso nel margine sinistro dove si legge “quale, poy che serà da quella, vorà sii relaxato et gli sii restituito el suo”. Quello che si vuole far capire è che, considerata rispetto alla missiva di Corradino Giorgi del 13 febbraio, la minuta per Marchese da Varese fornisce un’interpretazione più pertinente nel suo essere più vaga rispetto a quella con destinatario Nicodemo Tranchedini: nella prima sono infatti correttamente lasciate aperte due possibilità, vale a dire la liberazione di Ludovico Bolleri nel ducato Sabaudo oppure in Francia, entrambe destinate ad accadere “in brevi”, mentre nella seconda si dice in sostanza che Ludovico Bolleri sarà liberato una volta giunto presso Carlo VII e, per dare risalto a questa interpretazione parziale, le parole “quale [maestà del re di Francia], poy che serà da quella, vorà sii rilaxato et gli sii restituito el suo” sono collocate nel margine sinistro. A conferma di quanto appena scritto, nella minuta per Marchese da Varese inizialmente si leggeva in modo più perentorio quanto segue: “benché ne rendiamo certi chel tra la maiestà del re Renato et lo predicto duca non haverà a succedere guerra alcuna, perché la caxone che ha mosso re Renato ad amenazare esso duca duca de farli guerra, come el scrive, è stata la captura de domino Aluyse Bollero, quale è suo feudatario et recomandato per alcuni castelli tene de qua dali monti, d et per quello che novamente havemo inteso esso domino Aluyse deve essere liberamente relaxato con la restitutione del suo castello de Centallo, dove fo preso con inganno, et con la satisfactione de XXXm ducati per li soy damni. Et questo segue per lo mezo dela maiestà del re de Franza, el quale ha mandato doy soy ambaxatori da esso duca de Savoya per questa propria caxone”. Poi il testo viene per così dire attenuato, inserendo nell’interlinea “[la caxone] vene ad essere remossa attento che” prima di “per quello che novamente havemo inteso” e “[domino Aluyse] era per essere in brevi” prima di “liberamente relaxato” e aggiungendo nel margine sinistro il chiaro collegamento ipertestuale alla corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi con le parole “per lettere del nostro quale è presso dicto duca per la liberacione del dicto domino Aluyse” prima di appunto “era per essere in brevi”. La minuta per l’ambasciatore a Firenze è piuttosto simile, anche se, come vedremo, non del tutto identica, a quella in brutta copia avente come destinatario Antonio da Trezzo. Nel quarto capoverso di quest’ultima è infatti scritto: “Postremo te mandiamo una copia de lettera ce ha scritto lo illustre duca de Savoya, per la quale monstra che lo .. duca Renato vogli moverli guerra contro. La casone monstra non saperla, ma nuy intendiamo ch’ell’è per la presa de miser Aluyse Boleri, el quale esso duca Renato domanda sii liberato como vasallo et homo suo et pur fin ad qui non è relaxato, et per questo esso duca de Savoya ne rechiede de adiuto et favore etc. Nuy gli havemo facto una bona risposta et humana, ma in effecto concluso che, attenduto ch’el prefato duca de Savoya, quando el doveva ratificare la pace cum nuy, el tardò alcuni mesi et in ultimo, quando pur el mandò la ratificatione, luy stesso exceptò la casa de Franza et la liga de Hibernia, per la qual cosa nuy non ne possiamo impazare de questa facenda, ma pur nientedemeno che seremo prompti et parecchiati ad fare per la sua signoria tutto quello che con honestà et iustificatione nostra potremo fare”. Poi in un primo momento si aggiungono parole simili a quelle presenti nella minuta per Nicodemo Tranchedini prima delle correzioni: “Per altra via intendiamo etiandio como la maiestà del re de Franza vole che miser Aluyse Bolleri sii relaxato et restituito el suo et have mandato ambaxatore al duca de Savoya per questa casone”. Quest’ultimo testo, però, viene corretto, sempre in modo simile a quello della minuta per Nicodemo Tranchedini. Innanzitutto si scrive “remandato ad la maiestà sua” sopra “relaxato” depennato alla fine della terz’ultima riga prima di “et”, poi nella penultima riga, che inizia con “restituito el suo”, queste ultime parole vengono depennate e nell’interlinea a partire da esse è aggiunto: “per altra via intendemo che la intentione de sua maiestà è che poy el sii liberato et fargli restituire el suo”.

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Il risultato che si ottiene nella bella copia della minuta è il seguente: “Per altra via intendemo etiandio como la maiestà del re de Franza vole ch’el dicto misser Aluise sii mandato alla soa maiestà et have mandato ambassatore al duca de Savoya per questa casone. Et per altra via intendemo che la intencione della prefata maiestà è che poy el sii liberato et fargli restituire el suo”.

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Come si può notare, la fonte dell’informazione, che nella minuta per Nicodemo Tranchedini è unica, viene sdoppiata con la ripetizione dell’espressione “per altra via”. Si simula che l’errore sia dovuto alle correzioni della parte del quarto capoverso contenuta in fondo al recto della seconda pagina della minuta in brutta copia, cui si è già accennato. Che le correzioni siano confuse è confermato dal fatto che significativamente proprio le parole “per altra via intendemo che la intentione de sua maiestà è che poy el sii liberato et fargli restituire el suo”, le quali nella brutta copia, essendo scritte nell’interlinea, precedono la proposizione “et have mandato ambaxatore al duca de Savoya per questa casone”, nella bella copia la seguono. In realtà si vuole così attirare l’attenzione sul fatto che solo nel testo della minuta diretta a Marchese da Varese vi sono riferimenti precisi a Corradino Giorgi e alla sua lettera del 13 febbraio. Soltanto nella minuta diretta all’ambasciatore a Venezia si leggono infatti le parole “per littere del nostro quale è presso dicto duca per la liberacione del dicto domino Aluyse” poste nel margine sinistro per dare loro maggiore risalto, con un chiaro riferimento a Corradino Giorgi. Vi sono poi altri due particolari da non trascurare, ossia che rispetto alla lettera del 13 febbraio dell’ambasciatore in Savoia nella minuta per Marchese da Varese si parla correttamente di “ambaxatori”, oltre che in modo puntuale della “satisfactione de XXXm ducati per li soy [di Ludovico Bolleri] damni”, mentre nelle minute per gli inviati a Firenze e Napoli si legge “ambaxatore” al singolare. Vi è poi da fare un’ulteriore osservazione. Nella minuta per Marchese da Varese si menzionano “doy soy ambaxatori”, ma nell’epistola di Corradino Giorgi del 13 febbraio si parla genericamente di “ambaxadori”. Solo nella missiva del 20 febbraio appartenente alle lettere del sacco, sulle quali si veda il testo intitolato Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino, si legge quanto segue: “Item, como per altre ho scripto la signoria vostra, che dietim sce aspectava li ambaxadori del re de Franza per li facti de domino Aluyse Bolero, al dì presente sono zonti doi cum cavalli sedece, tra li quali gli hè el bailì de Barì, per la qual venuta se dice firà liberato domino Aluyse Bolero”, precisando quindi che gli ambasciatori sono due.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822022019562_0002.jpg

In questo modo si vuole far capire che, benché il doge di Venezia potrebbe compiere riscontri puntuali riguardo a quanto riferito nella minuta del 25 febbraio, in realtà, poiché nella stessa minuta vengono associate una lettera della serie delle missive concatenate fra loro sulla base delle “prese” e una appartenente alle lettere del sacco, che è chiaramente una copia o, se si preferisce, un evidente falso, si conferma che anche le prime epistole non sono autentiche, come peraltro già annunciato dal documento intitolato “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”. Vi è in sostanza un’allusione alla “corrispondenza sommersa” tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi che ha permesso al duca di Milano di inviare al suo ambasciatore le minute da lui poi utilizzate per redigere le copie. Con l’accenno alla “corrispondenza sommersa” il duca di Milano allude anche al modo sapiente con il quale è in grado di distribuire le informazioni riguardanti l’epistolario con il suo inviato in Savoia nelle minute dirette ai suoi inviati presso le maggiori potenze della Lega italica. Bisogna poi sottolineare le parole subito dopo quelle riportate sopra della missiva del 20 febbraio cui si è accennato. Riproponiamo qui il testo per intero: “Item, como per altre ho scripto la signoria vostra, che dietim sce aspectava li ambaxadori del re de Franza per li facti de domino Aluyse Bolero, al dì presente sono zonti doi cum cavalli sedece, tra li quali gli hè el bailì de Barì, per la qual venuta se dice firà liberato domino Aluyse Bolero. Che dice lo conduerano in Franza, non obstando che per altre mie ne habia advisato la signoria vostra, che dice anchora esser conclusa la soa liberatione: certeza alcuna anchora non azo”. Come si può notare, il concetto di “liberatione” è associato sia al fatto che Ludovico Bolleri vada in Francia (dove peraltro è tutt’altro che scontata quale sarebbe stata la sua sorte), come scritto nelle minute per Nicodemo Tranchedini e Antonio da Trezzo, sia che resti nel ducato di Savoia. Le due opzioni sono tuttavia entrambe valide, come sottinteso nella minuta avente come destinatario Marchese da Varese, a differenza delle minute dirette agli altri due ambasciatori. La prima ha pertanto un maggiore valore probatorio, per così dire. Per quanto la corrispondenza tra Francesco Sforza e Corradino Giorgi sia chiaramente falsa, il doge di Venezia Pasquale Malipiero si conferma pertanto garante della sua simulata autenticità per via delle informazioni precise e puntuali di essa a lui riferite. Per concludere le osservazioni sulla minuta del 25 febbraio avente Marchese da Varese come destinatario, si deve osservare che in essa si legge che “La resposta nostra [alla lettera di Ludovico di Savoia] è stata breve et honesta”. Quale sia la modalità di questa “resposta” è precisato nella minuta per Nicodemo Tranchedini del 27 febbraio, nella quale è scritto: “Nuy havemo risposto al dicto duca de Savoya una lettera bona et humana”. Poiché nella cartella Savoia 479 non si trova né la lettera di Ludovico di Savoia né la risposta di Francesco Sforza, si viene inevitabilmente reindirizzati, per così dire, sul Registro delle Missive 34. Nel recto della carta 373 ci si imbatte così in una lettera datata 24 febbraio e diretta “Illustri consanguineo nostro carissimo domino duci Sabaudie” nelle cui prime righe si legge quanto segue: “His intellectis que per litteras excellencie vestre sub die VII presentis mensis scriptas et ab araldo hoc suo nobis redditas referentur, serenissimum silicet regem Sicilie adversus vos arma parare, ingenti quidem animi molestia percussi sumus, cum enim pacem non italicam modo, sed universe rei publice christiane vehementer appetamus, sicut pro nostra virili patefacere non obscure studuimus”. Quindi si precisa che, “huius autem negocii gravitatem animadvertentes, nobili Conradino Georgio, familiari et oratori nostro apud vos existenti, mentem et institutum nostrum vobis aperiendum uberius litteris explicavimus, uti ab eo uberius et latius intelliget excellencia vestra, cui placeat fidem amplissimam impartiri”. In sostanza si dice il contrario di quanto scritto nella minuta avente Nicodemo Tranchedini come destinatario, ossia che la risposta a Ludovico di Savoia è affidata all’ambasciatore in Savoia Corradino Giorgi, come confermato dalla minuta datata 26 febbraio con quest’ultimo come destinatario, nella quale è scritto così: “te significamo come, inanzi lo giungere de la littera tua [del 13 febbraio], per uno araldo de quello illustre signore ne è portata una littera de la excellentia soa de dì VII, de la quale per più toa chiareza te ne mandiamo qui inclusa copia, et, perché la natura de tale materia, come tu intenderai, è importantissima, habiamo deliberato ad la soa excellentia non fare altra particulare et distincta resposta per littere, ma per una breve resposta nostra ne referemo ad quello che scrivemo et commettemo ad ti che gli refferissi per nostra parte, come etiam vederai per la copia inclusa, de la quale l’originale reporta esso araldo”. Si noti che la prima missiva presente nel verso della carta, datata 25 febbraio, è diretta “Comuni et hominibus, referendario Alexandrie, terre Sazaii”, intestazione nella quale è chiarissima l’inversione per la quale il genitivo “terre Sazaii” risulta posto dopo “referendario Alexandrie”, mentre in realtà dovrebbe essere posizionato prima. Si tratta di un errore più unico che raro per chi abbia una minima famigliarità con i Registri delle Missive, per comprendere il quale bisogna considerare un altro sbaglio più unico che raro di cui si è parlato all’inizio del testo intitolato Una missiva per Corradino Giorgi, ma scritto “Georgio de Conradinis. In quest’ultimo scritto si legge: “In una lettera del Registro delle Missive 34 datata 26 ottobre 1457, presente ai ff. 323v-324r, il destinatario, al quale si scrive: ‘Perché siti per andare allo illustre signore duca de Savoya per lo facto de messere Aluyse Bollere’, è infatti ‘Georgio de Conradinis parte Cichi etc.’, cioè Corradino Giorgi ma con il nome e il cognome al contrario, particolare occorrenza che riteniamo più unica che rara. Si tratta di un’allusione rivolta al lettore […] riguardo al fatto che la corrispondenza di Francesco Sforza con il suo ambasciatore costituisce una ‘storia alla rovescia’. […] Che il nome e il cognome al contrario siano un errore significativo è confermato dal fatto che prima, in fondo al f. 322r, è riportata una nota di carattere redazionale del 21 ottobre, che reca la data topica ‘Mantue’, nella quale è scritto: ‘Suprascripte littere que facte erant in personam domini Francisi de Fossato refacte fuerunt in personam Georgii de Conradines familiaris’, con Corradino Giorgi di nuovo scritto con il nome e il cognome al contrario. Le ‘Suprascripte littere’ cui ci si riferisce sono le ‘littere credentiales in personam egregii militis domini Francisi de Fossato’ del 15 ottobre con data topica ‘Laude’ e dirette a Ludovico di Savoia, Anna di Cipro e Giovanni del Carretto. Si potrebbe sostenere che lo sbaglio consistente nello scrivere per disattenzione ‘Georgii de Conradines’ nella nota di carattere redazionale del 21 ottobre da Mantova in fondo al recto del foglio 322 sia alla base dell’errore della missiva del 26 ottobre da Cremona ai ff. 323v-324r. Non si riesce tuttavia a trovare una giustificazione per il primo sbaglio”. Dopo un’analisi di quest’ultimo non si può che giungere alla conclusione che “Gli indizi riportati permettono […] di ribadire che i due casi sopra segnalati di Corradino Giorgi scritto con il nome e il cognome al contrario nel Registro delle Missive 34 siano errori significativi, con i quali si intende informare il lettore di quanto già rilevato, ossia che la corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo ambasciatore in Savoia costituisce una ‘storia alla rovescia’. D’altra parte, chi abbia una minima famigliarità con i Registri delle Missive non può sostenere che la particolare occorrenza di cui sopra più unica che rara ripetuta due volte rispetto alla medesima persona non sia rilevante, soprattutto se vi è più di un motivo per ritenere che la corrispondenza con essa del duca acquisisca senso solo se letta appunto come una ‘storia alla rovescia’”. Ne consegue che, come già scritto, le iniziative militari del duca sabaudo nell’aprile del 1458 “‘sono state concordate e pertanto si tratta di simulazioni’, anche se naturalmente, per riprendere le parole della lettera del 18 aprile di Corradino Giorgi sopra menzionata, è possibile che alcuni di ‘queli erano a quela impresa [‘contra domino Honorato, conte de Tenda, he cusì contra le altre terre de domino Aloysse Bollero’] havevanno passati ly termini dely comandamenti e instrutione a lore dacte’ e che quindi ‘le insolentie’ ‘erano facte contra et preter voluntatem suam [di Ludovico di Savoia]’, perché non è pensabile che tutti fossero informati di quanto in realtà stesse accadendo”. A proposito della “storia alla rovescia” può essere utile osservare, come già rilevato nel testo intitolato Il reale scopo di una “differentia” simulata, che nel verso della carta 371, quindi poco lontano dal recto della carta 373, il cui numero 371 nel recto è “l’unico in tutto il Registro messo in evidenza con una sorta di mezza riquadratura”, si trova una missiva per Corradino Giorgi nella quale si legge “Havemo inteso che tu hay in le mane la differentia quale vertisse tra Iacomo Berreta, nepote de Gulielmino da Marliano, nostro citadino et mercadante, per una parte et domino Zohanne de Compeso per l’altra, che n’è molto piaciuto, et, quantunche siamo certi non te bisogna recomendare lo dicto Iacomo, perché l’è di nostri, nientedemeno ad satisfactione del’animo nostro te lo recomandio”. Con la scusa della “differentia” che oppone Giacomo Berretta e Jean de Compey iniziano gli incontri fra lo stesso Jean de Compey, a capo del partito avverso a quello filofrancese guidato da Jean de Seyssel, e Corradino Giorgi.

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Il “saculum” delle lettere “che dicono sono dodeci a numero” e il delfino (e il viaggio di Alessandro Sforza)

Abbiamo visto come l’ambasciata effettuata l’8 marzo 1458 presso Ludovico di Savoia da Corradino Giorgi non abbia nulla a che fare con quella che viene raccontata nella minuta di Francesco Sforza del 26 febbraio. Abbiamo poi verificato che la minuta ducale datata 6 aprile lascia intravedere la presenza di una ”corrispondenza sommersa” che è quella in base alla quale l’inviato di Francesco Sforza ha in realtà effettuato la sua ambasciata dell’8 marzo precedente. Prima di proseguire, è necessario affrontare un altro argomento. In una lettera non barrata datata 28 aprile 1458 presente nel foglio strappato 19v del Registro delle Missive 44 diretta “Domino potestati Iporigie” si legge: “Sentiamo che uno deli nostri cavallari, chiamato Iohanne Mognaga, venendo da quelle parte de Savoya era capitato lì et tandem ha finito lì la vita sua et le lettere quale portava, che dicono sono dodeci a numero, et cussì lo cavallo, dinari et le altre sue cosse s[on]o remaste in le vostre mane. Pertanto ve confortiamo et pregamo, quanto sapiamo et possiamo, che le dicte lettere, necnon lo cavallo, et tute le altre cosse del predicto nostro cavallaro le vogliate fare consignare a questo altro cavallaro portatore dela presente, lo quale mandiamo lì solamente per questa casone”. Francesco Sforza scrive di avere saputo che a Ivrea è morto Giovanni Mognaga, cavallaro ducale di ritorno dalla Savoia. Il duca prega il podestà di consegnare al cavallaro a lui ora inviato quanto Giovanni Mognaga aveva con sé: le lettere, che pare siano dodici, il cavallo e “le altre cosse”. Due giorni dopo in una missiva barrata del foglio sempre strappato 20v diretta “Michelettum, ex dominis Polzaschi Ypporee” Francesco Sforza ringrazia il destinatario per l’invio del “saculum litterarum quas nobis defferebat Iohannes Mognaga”, che è stato consegnato al duca da un “nuncium” di Michele. La sequenza appena descritta consente di affermare che la prima missiva sia stata registrata fra il 28 e il 30 aprile (o meglio così si vuole far credere) prima dell’arrivo a Milano del “nuncium” di Michele Piossasco con il sacco contenente le lettere. Poi l’arrivo del “nuncium” rese inutile la partenza del cavallaro sforzesco per Ivrea e quindi la spedizione della lettera da affidargli. La missiva del 28 aprile è stata dunque registrata ma non inviata e per questo motivo non risulta depennata, a differenza di quella di due giorni dopo, spedita e per questo motivo barrata. Chiarito questo punto, si pone il problema di capire in cosa consista il sacco con le lettere “che dicono sono dodeci a numero” provenienti dalla Savoia. Per comprenderlo, è necessario considerare che nel f. strappato 19r è riportata la decima “presa”, ossia l’ultima ricezione di Francesco Sforza delle lettere di Corradino Giorgi. Si tratta però di una ricezione per così dire indiretta. In una missiva barrata, e quindi inviata, datata 23 aprile il duca di Milano scrive infatti “Domino Iohanni de Solario, preceptori Moralli, militi gerosolimitano”: “Per lo vostro presente messo havemo recevuto le vostre lettere de XX del presente insieme cum quelle di Coradino Zorzo, nostro oratore presso allo illustre signore duca de Savoya”. Tralasciando per ora le osservazioni che si potrebbero fare in merito al destinatario e il fatto che il 23 aprile, data della missiva, è, non certo casualmente, il giorno in cui si celebra la festa liturgica di San Giorgio, accostando la decima “presa” al sacco con le lettere “che dicono sono dodeci a numero”, si vuole far capire al lettore che ha appena ricostruito la serie delle “prese”, ossia delle lettere di Francesco Sforza e Corradino Giorgi concatenate fra loro, che dodici dei documenti dell’ambasciatore milanese che avanzano dalla ricostruzione appena operata sono stati ricevuti dal duca in un sacco alla fine di aprile in un’unica consegna. Qual è il problema di queste missive? Che non possono integrare la serie delle lettere concatenate fra loro in quanto contengono elementi contraddittori rispetto a esse. Per esempio, alla fine della lettera datata 19 gennaio 1458, che reca l’intestazione “Iesus”, si legge: “al dy prescente sonto advisato per la dona de dicto domino Aloyse per uno Constantio Gualtero che Iohanne Cossa ha scripto che lo re de Franza manda uno ambasatore da questo signore, quale debe havere dicto domino Aloyse ala prescentia de soa signoria e ly discutire tuto quelo del che fo imputato”. L’accenno a “uno Constantio Gualtero” consente di escludere la lettera dalla serie delle missive concatenate fra loro, perché di “Consantino Gualtero da Saveglano” si è già parlato in una lettera datata 16 dicembre 1457 che appartiene alla serie delle “prese”, mentre con l’articolo indeterminativo “uno” della lettera del 19 gennaio è come se si volesse suggerire che è la prima volta che ci si riferisce a “Constantio Gualtero”. Che non si tratti di un’osservazione futile è confermato dalla lettera di Corradino Giorgi datata 25 gennaio, nel cui esordio si legge: “Al dì presente da quelo Constante Galatero del quale ho scripto ala signoria vostra altre volte”, riferendosi alla lettera del 19 gennaio. Non si comprende per quale motivo nella missiva del 25 gennaio Corradino Giorgi dovrebbe alludere alla sua lettera del 19 gennaio e in quest’ultima invece non accennare a quella del 16 dicembre precedente se non per il fatto che si vuole far capire che la missiva del 16 dicembre esclude dalla serie delle “prese” la lettera del 19 gennaio proprio per via dell’espressione “uno Constantio Gualtero” in essa contenuta. Ma non finisce qui. In una lettera del 21 gennaio l’inviato milanese riferisce di avere ricevuto il giorno precedente “le lettere de vostra signoria in zifra cum tute quele altre cosse”. Per identificare quali siano le “lettere” e le “cosse” ricevute, è necessario prendere in esame due missive: una del 23 gennaio e l’altra del 26 gennaio. Nella lettera del 23 gennaio l’inviato sforzesco conferma la ricezione di lettere in cifra e di un imprecisato insieme di “altre cose”, che cercherà di consegnare all’“amico”, chiamato nella missiva del 21 gennaio “magnifico”, ma aggiunge che gli farà comprendere “el modo ha a servare”, anche se non è chiaro a quale argomento si riferisca. Nella lettera del 26 gennaio le informazioni si precisano, perché l’ambasciatore segnala che il 20 gennaio insieme alle lettere, di cui non si dice più che sono in cifra, è giunta “la polvere”: compreso “lo modo” in cui deve essere impiegata, lo riferirà “alo amicho”. Le “cosse” e le “cose” menzionate rispettivamente nelle missive del 21 e 23 gennaio devono dunque essere identificate con “la polvere” della lettera del 26 gennaio, l’indeterminato “modo” di cui si parla nella missiva del 23 gennaio riguarda il suo utilizzo e il “magnifico” e l’“amico” coincidono con l’“amico” del documento ducale del 10 gennaio intitolato “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.“. Nelle missive del 21 e 23 gennaio l’ambasciatore sembra dunque riferire la ricezione delle lettere tratte dalle minute ducali del 10 e dell’11 gennaio, entrambe riguardanti la polvere: essa, tuttavia, non può essere considerata valida, perché nelle minute ducali non vi è alcuna indicazione di porre in cifra le lettere in partenza per la Savoia. Che non possa trattarsi di una dimenticanza è confermato dall’analisi delle minute ducali del 26 febbraio. Nella prima è riportata l’ambasciata che apparentemente l’8 marzo l’inviato sforzesco dovrà fare presso il duca di Savoia, la seconda è un post scriptum che esordisce così: “Ponatur omnino in ciffra, etiam si littere priores scriberentur absque ciffra”. La disposizione in latino potrebbe essere tradotta come segue: “Mettere tutto in cifra, poscritto e lettera cui esso andrà allegato, anche se le missive prima inviate sono state lasciate in chiaro”. Con l’espressione “littere priores” non si vuole dire che l’altra minuta del 26 febbraio nella quale era spiegata l’ambasciata non andava messa in cifra, perché è anche a essa che ci si riferisce con l’avverbio “omnino” all’inizio del post scriptum. Inoltre non avrebbe avuto senso mettere in cifra il post scriptum, nel quale si legge: “Volemo che questa ambassata facci ad quello signore in secreto”, e poi non mettere in cifra la lettera in cui era spiegata l’”ambassata” da fare “in secreto”. La proposizione concessiva “etiam si littere priores scriberentur absque ciffra” consente pertanto di affermare in modo inequivocabile che le lettere ducali precedentemente inviate, comprese quindi quelle ricavate dalle minute datate 10 e 11 gennaio, erano in chiaro. Non è quindi possibile ritenere valida la ricezione delle due missive sforzesche segnalata nelle lettere di Corradino Giorgi datate 21 e 23 gennaio e queste due ultime missive non possono essere accostate alla serie delle “prese”. A proposito di queste due ultime lettere si può fare un’ulteriore considerazione. Nella prima datata 21 gennaio si legge: “me sforzarò de fare che lo magnifico habia ogni cossa, il che dubito me sarà dificile, perché sono scechate le vie, como vostra signoria intenderà più largamente per quele mie porta il cavalaro”. La missiva cui ci si riferisce è quella del 19 gennaio, nella cui parte finale è scritto: “sapia vostra signoria che la via havea de avisare domino Aloyse he esso my hè tagliata, però ch’el famiglio quale portava le lettere hinc inde hè retenuto asay più strecto che domino Aloyse”. Rispetto alla lettera del 21 gennaio, quella del 23 contiene un elemento in più. In essa si legge infatti: “me sforzarò fare che lo amico habia ogni cosa e ch’elo intenda el modo ha a servare, il che dubito me sarà dificile, però che m’è sechata la via, como per altre ho scripto h la signoria vostra mandate per la via de queli del conto Franchino he anchora per lo cavalaro”. Come abbiamo visto, quest’ultimo riferimento al “cavalaro” allude alla missiva del 19 gennaio. Esso però è preceduto dall’accenno a “queli del conto Franchino”, che sembra ricondurre alla minuta di Francesco Sforza datata 11 gennaio, appartenente alla serie delle “prese”, nella quale è scritto: “Havemo ricevuta la tua lettera in zifra, la quale ne hai mandato per la via de quelli del conte Franchino Rusca, et havemo inteso quanto tu scrivi et ne comendiamo la diligentia tua et non te facemo altra risposta al presente, perché per altre nostre lettere haveray inteso quello che hay ad fare, ma solo te mandiamo lo presente nostro cavallaro cum la polvere da fare dormire che tu ne hay richiesta”. Il duca si riferisce alla lettera di Corradino Giorgi del 16 dicembre precedente, la quale tuttavia non contiene alcun accenno a difficoltà di comunicazione con Ludovico Bolleri perché “è sechata la via”. Questa constatazione costituisce un ulteriore elemento che non consente di accostare la lettera del 23 gennaio alla serie delle “prese”. Naturalmente un analogo discorso si può fare per la missiva del 24 gennaio dell’inviato milanese, che esordisce dicendo: “Scripte le aligate”. Anche la lettera del 26 gennaio non può essere avvicinata alla serie delle “prese”, in quanto essa è legata in modo esplicito alle missive precedenti del 19, 21 e 23 gennaio proprio dal tema della “via” che “hè sechata”: “Per Filipo cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra a dì vinti del presente cum la polvere he ho intexo la continentia e lo modo se debe servare in adoperare dicta polvere, il che farò intendere alo amicho, s’el sarà possibile, benché sento certo sarà dificilissima cosa, però hè sechata la via qual havea del famiglio suo che portava le letre hinc inde, perché non fide lasato più inscir […] como per mie altre ho scripto la signoria vostra”. Si potrebbe però obiettare che, nonostante l’osservazione appena fatta, nella lettera non viene segnalata la ricezione il 20 gennaio di lettere ducali in cifra. Riteniamo tuttavia che non si tratti di un motivo che consenta di accostare questa lettera alla serie delle “prese”. Limitiamoci per ora a un’analisi testuale. Procedendo nella lettura, ci si imbatte nelle seguenti parole: “a vintacinque dil prescente per lo Boffa cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra”. Corradino Giorgi sembra segnalare la ricezione della missiva tratta dalla minuta ducale datata 18 gennaio. Occorre però innanzitutto notare che nella missiva l’ambasciatore ignora del tutto il fatto che nella sua minuta Francesco Sforza “primum” avvisa di non potere mettere a disposizione la “barcha” che l’inviato, sollecitato da Ludovico Bolleri, che “vorebe fugire”, ha richiesto nella sua lettera del 23 dicembre precedente (nella quale per la precisione si parla di “fusta”). Poi l’ambasciatore aggiunge: “prima lo amico habia la polvere […] gli farò molto bene intendere [qua]nto me scrive la signoria vostra he, intendando ch’el pensero posa reinscire senza scandalo, gli farò porger la polvere he ordinarò la cosa per modo che sortirà bono effecto he senza scandalo e inputacione dela signoria vostra he, vedendo non habia fondamento, ma ch’el sce vogla metere ala ventura, gli dissuaderò non lo faza et anchora non gli farò porzere la polvere, aciò non habia casone de fare”. Francesco Sforza però aveva scritto: “potendo et havendo luy el modo de fugire et de salvarsi, nuy glilo confortiamo et la polvere che te havemo mandata serà sufficiente ad questo, zoé per fare dormire li guardiani […] secundo dicemo che, non havendo luy el modo de potere fugire et de salvarsi como è dicto, ello non se debia movere ad fare cosa alcuna, adciò non gli intervenisse pegio”. In sostanza, rispondendo alla lettera ducale, l’ambasciatore scrive che, se sarà certo che la fuga dell’“amico” possa avvenire senza “scandalo”, gli fornirà la polvere, altrimenti la terrà con sé. Queste parole, insieme al fatto che non si accenni minimamente al tema della “barcha”, consentono di affermare che la missiva cui Corradino Giorgi sta rispondendo non può essere identificata con la lettera tratta dalla minuta ducale datata 18 gennaio, perché da quest’ultima il duca di Milano risulta delegare la decisione ultima riguardo alla fattibilità della fuga non al suo inviato, ma a Ludovico Bolleri. E che sia così è confermato dal seguito della minuta ducale del 18 gennaio, nel quale si legge: “ma pur, quando esso se vedesse havere el modo et deliberasse per la via de dicta polvere fugire, ne pare et così te dicemo, per evitare ogni scandalo che ne potesse seguire, che de cinque dì inanzi ch’el se venga al’atto de operare dicta polvere tu con qualche bono modo debii pigliare licentia da quello illustrissimo signore et ritornartene qua, facendo in modo che tu possi esser fuori del suo dominio inanzi el dì che se operava dicta polvere […] ma vogli avisare esso misser Aluyse che prima vogli bene pensare et repensare sopra questa cosa et non se mettere ad farla se prima el non conosca veramente che gli possa reuscire el pensero, perché, principiando la cosa et non gli possendo reuscire el pensero, gli poria intervenire pezo, como è dicto”. Dalle parole sopra riportare risulta evidente che è Ludovico Bolleri a dover valutare se sia possibile o meno fuggire servendosi della polvere, tanto è vero che cinque giorni prima del suo eventuale utilizzo Francesco Sforza ordina al suo ambasciatore di allontanarsi da Ludovico di Savoia e tornare a Milano. In sostanza al riguardo l’ambasciatore, nonostante quanto egli scrive nella lettera del 26 gennaio, non ha voce in capitolo. La ricezione della missiva tratta dalla minuta ducale datata 18 gennaio segnalata da Corradino Giorgi nella lettera del 26 gennaio non può pertanto essere considerata valida. Per quanto riguarda la stessa lettera dell’inviato, va però in realtà fatta una considerazione ben più importante rispetto agli aspetti testuali appena rilevati, ossia che di essa esiste un documento il quale presenta caratteristiche peculiari, prima fra tutte in basso a destra la firma “Conradinus de Georgiis” nonostante la grafia sia del decifratore. Non può tuttavia essere considerato una decifrazione, in quanto le decifrazioni delle lettere dell’inviato ducale recano tutte in alto l’intestazione “Ex zifra Conradini de Georgiis”, di cui il documento è privo, e nessuna di esse è firmata.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è skm_c45822012910410_0001.jpg

Soprattutto quest’ultimo aspetto rende anzi il documento anomalo rispetto non solo alle decifrazioni dell’ambasciatore sforzesco, ma anche all’intero corpus di decifrazioni reperibili presso il Fondo Sforzesco dell’Archivio di Stato di Milano. Rileviamo che alle pagine 256-260 e 396-417 dedicate alle cifre di Uno mundo de carta Francesco Senatore non segnala il caso di decifrazioni al termine delle quali il decifratore ponga il nome del mittente. Il documento si configura pertanto come una minuta, opera del decifratore ed eseguita presso la cancelleria a Milano, da cui in un secondo momento Corradino Giorgi ha tratto la lettera in cifra. Può essere il caso di rilevare che esso è interessato da un errore di datazione. Nella parte iniziale della missiva datata 18 aprile l’ambasciatore in Savoia scrive infatti: “Ho intexo quanto sce grava la signoria vostra de mi non habia visitati questi signori ambaxatori del re de Franza quali erano qui he la iniuntione me fa la signoria vostra, la qual statim haverea exequita sce gli fosano stati, ma erano zà partiti, como ha potuto intendere la signoria vostra per una mia data a desdoto del passato, ma, aciò la signoria vostra intenda alchuna cosa dela casone dela mia negligentia, hè stato però che, havendo scripto de molti giorni avanti la loro venuta, io avisai la signoria vostra per molte mie letre he dela ambasciata haveano facti e delo aviso havea da Guliermo Bolero, qual era cum essi, e per alchune de esse mie letre pregava la signoria vostra gli piazese farme dare adviso de quanto havea a fare, unde mai non have resposta de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo”. Trascurando l’errore di datazione che Corradino Giorgi compie segnalando di avere avvisato Francesco Sforza della partenza degli ambasciatori francesi con una lettera “data a desdoto del passato”, perché la lettera cui si riferisce, nella quale esordisce avvisando che “li ambaxadori del re di Franza sono partiti”, è del 28 marzo, qui importa sottolineare che, quando l’inviato ducale segnala di non avere avuto risposta “de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo”, cade in un altro errore. La prima data deve infatti essere corretta in 25 gennaio, perché nella missiva in cifra del 26 gennaio di cui sopra l’inviato sforzesco avvisa che “a vintacinque dil prescente per lo Boffa cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra”. Viene così attirata l’attenzione appunto sul documento in cifra e sulla minuta, in modo da sottolineare che dal punto di vista della cronologia redazionale la seconda, che non è una decifrazione, non segue il primo, bensì lo precede in quanto appunto minuta. La missiva in cifra si configura pertanto come la copia di una minuta o, se si preferisce, un evidente falso. Si vuole in questo modo far capire al lettore che la lettera in questione e le altre missive cui si è prima accennato di Corradino Giorgi non solo non possono essere accostate alle lettere della serie delle “prese”, ma a differenza di queste ultime, che si dichiarano non autentiche in modo velato con la minuta del 10 gennaio intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.“, vogliono sembrare falsi “palesi”, consegnati all’interno di un sacco a Francesco Sforza alla fine di aprile. Analogo discorso si può fare per la lettera dell’ambasciatore datata 25 gennaio, incastonata com’è dal punto di vista cronologico fra le precedenti. Vi è poi un altro documento datato 26 gennaio che, come quello di cui si è parlato sopra con la stessa data, cui peraltro era allegato, si presenta come una minuta opera del decifratore. Da quest’ultima però Corradino Giorgi non ha tratto la lettera in cifra. In essa si legge: “Non obstante per le alligate habia scripto a vostra signoria li ambaxadori del re de Franza dover venire qui per condure miser Aluyse dal prefato re et questa esser la risposta fatta al’ambassatore de questo signore, questa sera ho inteso lo facto altramente, zoè che omnibus modis el prelibato re de Franza vole che miser Aluyse Bolero gli sia mandato et questo è ad petitione et rechesta del re Renato”. L’informazione relativa a Renato d’Angiò risulta spostata in una missiva di Corradino Giorgi datata 2 marzo nella quale si legge: “Como per altre mie, et maxime per alcune portate per Nicolò Spinola e Polo Iustiniano, quali veniam de Flandra a Milano, secumdo disceano, advisai la signoria vostra li ambaxadori del re de Franza esser qui he havre rechesto domino Aluyse Bolero a questo sihnore che lo remeta in le mane del predicto re una cum lo castelo de XXXX Centalo e che la dona e li fioli sciano posti in soa libertate, he questo fa lo prenominato re de Franza XXX a instigacione e peticione del re Renato”. Lo spostamento della notizia relativa a Renato d’Angiò, la quale peraltro si trova in relazione a due interventi di Carlo VII non proprio identici fra loro, è il motivo per cui dalla minuta del 26 gennaio non è stata tratta la lettera in cifra, per così dire annullandola, e spiega perché essa compaia nella lettera del 2 marzo come fosse un’informazione nuova, mai menzionata in precedenza, mentre appunto era già comparsa nella minuta del 26 gennaio. Lo spostamento serve inoltre per far comprendere al lettore che anche la missiva del 2 marzo, contaminata com’è da un’informazione contenuta nella minuta del 26 gennaio, è la copia di una minuta o, se si preferisce, un evidente falso, così come le lettere precedenti cui in essa ci si riferisce, ossia quelle datate 20, 23 e 26 febbraio. Siamo così a dodici documenti falsi “palesi” consegnati nel sacco a fine aprile, ossia le lettere datate 19, 21, 23, 24, 25 e 26 gennaio, 20, 23 e 26 febbraio e 2 marzo, cui vanno aggiunte le due minute opera del decifratore datate 26 gennaio. Non sottilizzerei sul fatto che in questo modo si mettono insieme lettere e minute opera del decifratore, perché, come si ricorderà, nella missiva non barrata datata 28 aprile 1458 presente nel foglio strappato 19v di Missive 44 si legge che le lettere “dicono sono dodeci a numero”. Quel “dicono” lascia filtrare un’incertezza nel definire con precisione il numero delle lettere, perché dieci in effetti si presentano come tali, ma due no, essendo appunto minute opera del decifratore eseguite presso la cancelleria a Milano da cui poi l’ambasciatore avrebbe dovuto trarre le lettere in cifra. A questo punto è inevitabile domandarsi come si giustifichi all’interno della “storia alla rovescia” la presenza di questi documenti. La risposta non è semplice. Anzi qualcuno, non ritenendo sufficienti le evidenze rilevate sin qui, potrebbe obiettare che si tratti semplicemente di missive andate disperse, recuperate in un secondo momento e infine spedite a Milano in un sacco alla fine di aprile, magari prendendo spunto dalla parte iniziale della lettera datata 18 aprile di Corradino Giorgi, appartenente alla serie delle “prese”, in cui si legge: “Ho intexo quanto sce grava la signoria vostra de mi non habia visitati questi signori ambaxatori del re de Franza quali erano qui he la iniuntione me fa la signoria vostra, la qual statim haverea exequita sce gli fosano stati, ma erano zà partiti, como ha potuto intendere la signoria vostra per una mia data a desdoto del passato, ma, aciò la signoria vostra intenda alchuna cosa dela casone dela mia negligentia, hè stato però che, havendo scripto de molti giorni avanti la loro venuta, io avisai la signoria vostra per molte mie letre he dela ambasciata haveano facti e delo aviso havea da Guliermo Bolero, qual era cum essi, e per alchune de esse mie letre pregava la signoria vostra gli piazese farme dare adviso de quanto havea a fare, unde mai non have resposta de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo”. Le parole dopo “havendo scripto” sembrano riferirsi proprio alle lettere del sacco e in effetti possono far pensare a una loro dispersione. Tralasciando di approfondire per ora la data del “vintasei de zenaro”, che non è corretta, in quanto nella missiva datata 26 gennaio che abbiamo esaminato sopra l’inviato sforzesco avvisa che “a vintacinque dil prescente per lo Boffa cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra”, con la data dell’“octo de marzo” ci si riferisce alla ricezione della missiva tratta dalla minuta ducale datata 26 febbraio, nella cui parte iniziale si legge: “Conradino. Restiamo novamente per le toe de dì XIII del presente ciffrate advisati de quanto intendi essere deliberato per la maiestà del re de Franza circa la liberatione del spectabile messer Aluyse Bollero et etiam dela dispositione de quello illustrissimo signore duca intorno ad questo, et, non replicando al presente altro sopra ciò, se non che ad nuy seria gratissimo che lo effecto succedesse secondo tu scrivi”. Al momento non importa rilevare il modo piuttosto curioso in cui il duca interpreta la lettera del suo inviato, ma sottolineare come egli scriva: “Restiamo novamente per le toe de dì XIII del presente ciffrate advisati”. L’avverbio “novamente”, che deriva dall’avverbio latino “nove”, ossia “recentemente, poco tempo fa, ultimamente”, non vuol dire “di nuovo, un’altra volta” e non “esprime il ripetersi secondo modalità pressoché immutate e costanti di un fatto […] di una situazione”, bensì significa “da poco tempo, poco tempo fa; recentemente, di recente, ultimamente, da ultimo; testé, appena (e indica l’immediatezza di un fatto […])”. Che sia questo il significato di “novamente” lo conferma quanto scrive Francesco Sforza nella sua minuta del 7 aprile: “Novamente siamo avisati che quello illustrissimo .. signore duca ha mandato una gran multitudine de zente in le terre de messer Aluyse Bollero et de messer Honorato, conte de Tenda, quale non solamente hano tolto Centallo, ma etiandio discorso el payse et assacomanato et robato molti lochi”. Queste iniziative militari vengono intraprese da Ludovico di Savoia all’inizio di aprile, sicché, scrivendo nella sua minuta del 7 dello stesso mese: “Novamente siamo avisati”, il duca non vuol dire: “Siamo avvisati per la seconda volta”, bensì: “Siamo stati appena adesso avvisati”. Pertanto, quando il 26 febbraio Francesco Sforza segnala la ricezione della lettera del suo ambasciatore datata 13 febbraio, con quel “novamente” vuole dire di essere stato con essa per la prima volta informato “de quanto intendi essere deliberato per la maiestà del re de Franza circa la liberatione del spectabile messer Aluyse Bollero et etiam dela dispositione de quello illustrissimo signore duca intorno ad questo” e pertanto di non avere ricevuto le missive che la precedono in cui i suddetti temi vengono trattati. Non ci resta quindi che esaminare la lettera di Corradino Giorgi del 13 febbraio, che appartiene alla serie delle “prese”. Nella sua parte iniziale si legge: “Questi dì passati scrise la signoria vostra como lo re de Franza volia che domino Aloyse Bolero gli fose mandato et che per questo mandava ambaxadori da questo signore li quali glilo devevano conduere poi inmediate. Per altre mie scrise como intendeva più largamente, zoè lo prelibato re volere ad ogni modo questo signore gli mandase lo predicto domino Aloysio Bolero e che per questo remandava misir Uberto Valueto, lo quale era tornato, como per altr mie ho scripto, dal prefato re”. Le parole “Questi dì passati scrise la signoria vostra como lo re de Franza volia che domino Aloyse Bolero gli fose mandato et che per questo mandava ambaxadori da questo signore li quali glilo devevano conduere poi inmediate” sembrano richiamare le seguenti della lettera del 26 gennaio dell’inviato ducale: “A questa hora ho intexo che qui sce aspeta ambasatore de dì in dì del re de Franza, quali veneno per conduere domino Aloyse Bolero dal prenominato re […] E questo hè la resposta ha facto el re de Franza alo ambasatore de questo signore”. In realtà, però, vi sono alcune differenze. In primo luogo nella missiva del 26 gennaio si accenna alla “resposta” di Carlo VII fatta all’ambasciatore di Ludovico di Savoia, la quale è assente nella lettera del 13 febbraio, in cui si ricorre alla più diretta espressione “lo re de Franza volia” e il generico “conduere” della lettera del 26 gennaio diviene “conduere […] immediate”. L’uso dell’avverbio “immediate” non è casuale, ma in strettissima relazione con l’affermazione secondo la quale “lo re de Franza volia”: “immediate”, dunque, non solo connota la modalità del “conduere”, ma anche rafforza il carattere perentorio con il quale si manifesta la volontà regia. La lettera del 13 febbraio prosegue poi così: “Per altre mie scrise como intendeva più largamente, zoè lo prelibato re volere ad ogni modo questo signore gli mandase lo predicto domino Aloysio Bolero e che per questo remandava misir Uberto Valueto, lo quale era tornato, como per altr mie ho scripto, dal prefato re”. Queste parole sembrano richiamare quelle della seconda minuta opera del decifratore datata 26 gennaio, nella quale si legge: “Non obstante per le alligate habia scripto a vostra signoria li ambaxadori del re de Franza dover venire qui per condure miser Aluyse dal prefato re et questa esser la risposta fatta al’ambassatore de questo signore, questa sera ho inteso lo facto altramente, zoè che omnibus modis el prelibato re de Franza vole che miser Aluyse Bolero gli sia mandato et questo è ad petitione et rechesta del re Renato”. Il fatto che nella lettera si dica “ad ogni modo” e nella minuta “omnibus modis” sembra accomunare i due documenti, ma è anche vero che nella seconda si accenna di nuovo alla “risposta” di Carlo VII così come all’intervento di Renato d’Angiò, temi entrambi assenti nella prima. Esiste tuttavia una più profonda diversità fra i due documenti e sono gli avverbi a segnalarla. Nella lettera del 13 febbraio abbiamo infatti “largamente”, nella minuta del 26 gennaio invece “altramente”. Il primo avverbio, che significa “diffusamente, a lungo; ampiamente, esaurientemente; con abbondanza di particolari o di argomenti”, apre la strada a un approfondimento, il secondo, che vuol dire “diversamente, in altro o diverso modo”, a una differenziazione. Quindi nella missiva del 13 febbraio, riferendosi a lettere precedenti, dopo avere scritto che il re di Francia voleva che Ludovico Bolleri fosse condotto immediatamente alla sua presenza, Corradino Giorgi precisa l’informazione affermando che Carlo VII lo vuole “ad ogni modo”. Nella seconda minuta opera del decifratore del 26 gennaio, invece, “altramente”, ossia come se riferisse qualcosa il cui senso è diverso rispetto a quanto appena riportato, l’inviato ducale scrive che “omnibus modis” il re di Francia “vole” che Ludovico Bolleri gli sia mandato. L’ambasciatore milanese scrive “altramente” perché la “resposta” della lettera del 26 gennaio non equivale alla manifestazione della determinata volontà di Carlo VII ed è solo nella seconda minuta del 26 gennaio che per la prima volta il re di Francia risulta “volere”, non limitandosi a fornire una “resposta”. Le ultime parole sopra riportate della missiva del 13 febbraio dicevano però anche che in seguito all’intervento di Carlo VII Ludovico di Savoia “remandava misir Uberto Valueto, lo quale era tornato, como per altr mie ho scripto, dal prefato re”. Esse sono del tutto assenti nella seconda minuta opera del decifratore del 26 gennaio, dove in realtà si dovrebbero trovare, e sembrano invece rimandare di nuovo alla lettera del 26 gennaio, nella quale è scritto: “E questo hè la resposta ha facto el re de Franza alo ambasatore de questo signore, lo quale è retornato, como per altre mie ho advisato la signoria vostra, lo quale anchora de presente fide remandato dal predicto re, ma non intendo la casone”. A parte il comune accenno al ritorno dell’ambasciatore sabaudo “Uberto Valueto”, che rimanda alla lettera del 21 gennaio, nella quale si legge: “sapia vostra signoria che domino Umberto Valueto hè retornato de Franza, dove era mandato per ly facti de domino Aloyse Bolero”, non sfuggirà una differenza notevole nei due passi sopra riportati: nella lettera del 13 febbraio si dice infatti che “per questo”, ossia perché “lo prelibato re volere ad ogni modo questo signore gli mandase lo predicto domino Aloysio Bolero”, Ludovico di Savoia “remandava misir Uberto Valueto […] dal prefato re”, mentre nella minuta del 26 gennaio si afferma che l’ambasciatore del duca sabaudo “anchora de presente fide remandato dal predicto re, ma non intendo la casone”. Cerchiamo quindi di riassumere le missive sin qui esaminate. Nella lettera del 26 gennaio e nella seconda minuta opera del decifratore dello stesso giorno il senso delle informazioni non è univoco. Carlo VII prima fornisce una risposta priva di toni aspri, poi, invece, assumendo un atteggiamento per l’ambasciatore in contrasto con il precedente, vuole in ogni modo che Ludovico Bolleri gli sia mandato dal duca di Savoia. Il senso delle informazioni contenute nella lettera del 13 febbraio è invece univoco e si potrebbe riassumere così: Carlo VII vuole che in ogni modo il duca sabaudo gli mandi Ludovico Bolleri e, per fare eseguire la sua volontà, invia degli ambasciatori in Savoia che immediatamente lo conducano a lui. È per questo motivo che Ludovico di Savoia ha fatto tornare il suo ambasciatore dal re di Francia. Nella lettera del 13 febbraio la volontà di Carlo VII si palesa subito inequivocabile ed è in relazione a essa che Ludovico di Savoia rimanda presso il re di Francia il suo ambasciatore. Il nesso fra la perentoria volontà di Carlo VII e il ritorno dell’ambasciatore sabaudo è dunque strettissimo. Nella lettera del 26 gennaio e nella seconda minuta opera del decifratore dello stesso giorno, invece, la volontà di Carlo VII compare solo in una seconda fase. Questo slittamento fa sì che, quando in un primo momento si riferisce che il duca ha rimandato in Francia il suo ambasciatore, non si possa affermare che la sua decisione sia da porre in relazione con la volontà reale, perché a essa non si è ancora accennato. Le missive precedenti cui ci si riferisce nella lettera di Corradino Giorgi datata 13 febbraio non possono dunque essere identificate con le lettere del sacco, perché le informazioni cui rimandano le une e le altre sono differenti e dal senso complessivo diverso. Ma non finisce qui, perché, volendo approfondire l’analisi, è possibile fare altre tre considerazioni. Come si ricorderà, nella lettera del 26 gennaio è scritto: “A questa hora ho intexo che qui sce aspeta ambasatore de dì in dì del re de Franza”. Il tema dell’attesa degli ambasciatori francesi è però assente nella parte iniziale della missiva del 13 febbraio nella quale si ricordano le lettere precedentemente inviate. Anzi proprio dopo questa parte è scritto: “Non obstando questo, al prescente intendo questo signore, per non volere avere casone de mandare el predicto domino Aloysio Bolero dal prenominato re de Franza, havere deliberato, quam primum sciano venuti dicti ambaxadori, de farlo liberare e remeterlo in soa libertà, li quali ambaxadori dietim sono aspectati qui”. Come si sarà notato, il tema dell’attesa degli inviati transalpini compare come se si trattasse di qualcosa di nuovo, ma in realtà non lo sarebbe, perché, come detto, a esso ci si è già riferiti nella lettera del 26 gennaio. Che non si tratti di un’osservazione di secondaria importanza è confermato dal fatto che nella missiva di Corradino Giorgi datata 20 febbraio si legge: “como per altre ho scripto la signoria vostra, che dietim sce aspectava li ambaxadori del re de Franza per li facti de domino Aluyse Bolero, al dì presente sono zonti doi cum cavalli sedece”. Qui si rileva che all’attesa degli ambasciatori francesi si è già accennato in una lettera precedente. Non si capisce pertanto per quale motivo dovrebbe essere giustificabile che nella missiva del 13 febbraio non si segnali che lo stesso tema è già presente nella lettera del 26 gennaio. Inoltre, sempre nella missiva del 13 febbraio è scritto: “ho facto intemdere per mie littere he cum grande fatiga al prelibato domino Aloysio Bolero la signoria vostra havere mandato la pXXolvere da far dormire cum el modo de usare quela he anchora la signoria vostra non havere via de potere providere ala barcha el rechedea”. A differenza della lettera del 26 gennaio di Corradino Giorgi nella quale il tema della “barcha” viene del tutto ignorato, nonostante il fatto che nella missiva del duca di Milano cui in teoria l’inviato sta rispondendo esso risulti in primo piano, nella lettera del 13 febbraio il tema risulta correttamente menzionato dopo la “pXXolvere”, rilevando implicitamente l’anomalia della lettera del 26 gennaio. Inoltre le parole sopra riportate della lettera del 13 febbraio sono seguite dalle seguenti: “et confortato per parte dela signoria vostra non se meta ad periculo se non cognosce poterne inscire securamente e senza scandalo, aciò non pezorasse li facti soi”, dalle quali risulta che la decisione ultima riguardo alla fattibilità della fuga dipende da Ludovico Bolleri, rispettando quindi quanto scritto da Francesco Sforza nella sua minuta del 18 gennaio (ossia che, “non havendo luy el modo de potere fugire et de salvarsi como è dicto, ello non se debia movere ad fare cosa alcuna, adciò non gli intervenisse pegio”) e non da Corradino Giorgi, come da lui fatto intendere nella lettera del 26 gennaio. Abbiamo dunque verificato che le missive precedenti cui l’ambasciatore si riferisce all’inizio della sua lettera datata 13 febbraio non possono essere identificate con le prime lettere del sacco consegnato alla fine di aprile del 1458. Proseguiamo ora esaminando la missiva di Corradino Giorgi datata 14 marzo nella quale egli segnala l’invio di sue lettere precedenti che sembrerebbero avere a che fare con le ultime lettere del sacco. Nella missiva dell’inviato, che appartiene alla serie delle “prese”, si legge: “Et como per altre mie XX ha potuto intendere la signoria vostra questi ambaxadori del re de Franza esser qui, videlicet el bailì de Bari e misir Gulirmo de Torai, del quale per altre mie ne ho scripto ala signoria vostra, però non sapea il nome, he como hano rechesto a questo signore che domino Aloysio Bolero e Centallo sciano remissi in le mane del re de Franza e la dona e li fioli sciano posti in soa libertade e che questo fazea lo re de Franza ha instantia he instigatione del re Renato e la resposta speraveno de havere dicti ambaxadori, como da Guliermo Bollero, quale era stato continuamente in Franz dreto a Iohane Cosse per questi facti, quale hè qui cum questi ambaxadori, era informato, lo quale anchora cotidie me advisa de quelo fano e dicheno, e como erano turbati molto cum questo signore et como dimostravano de volersi partire cusì turbati he che anchora non havevano habuto resposta”. L’ambasciatore pare riferirsi alle sue lettere datate 20, 23 e 26 febbraio e a quella del 2 marzo. Già le prime parole del passo sopra riportato in realtà suscitano dubbi. Nella lettera del 20 febbraio, infatti, l’inviato scrive: “como per altre ho scripto la signoria vostra, che dietim sce aspectava li ambaxadori del re de Franza per li facti de domino Aluyse Bolero, al dì presente sono zonti doi cum cavalli sedece, tra li quali gli hè el bailì de Barì, per la qual venuta se dice firà liberato domino Aluyse Bolero. Che dice lo conduerano in Franza, non obstando che per altre mie ne habia advisato la signoria vostra, che dice anchora esser conclusa la soa liberatione: certeza alcuna anchora non azo”. Corradino Giorgi segnala l’arrivo di due ambasciatori di Carlo VII, tra i quali vi è “el bailì de Barì”, ma non accenna in alcun modo al fatto di non conoscere il nome del secondo inviato francese né vi sono lettere in cui si precisi l’identità di quest’ultimo. Per questo motivo il nome di “Gulirmo de Torai” che compare nella lettera del 14 marzo si configura come un’informazione del tutto nuova, non presente nelle lettere precedenti. Un altro aspetto contraddittorio è che, quando nella sua lettera del 14 marzo Corradino Giorgi scrive “la resposta speraveno de havere dicti ambaxadori”, si riferisce a quanto precede, ossia a “como hano rechesto a questo signore che domino Aloysio Bolero e Centallo sciano remissi in le mane del re de Franza e la dona e li fioli sciano posti in soa libertade e che questo fazea lo re de Franza ha instantia he instigatione del re Renato”, anche se poi precisa “che anchora non havevano habuto resposta”, ma nella lettera del 2 marzo la “resposta” che “questi ambaxadori del re de Franza dicheno sperano havere” è di tutt’altro tipo, ossia “che anchora non hè finito el processo, lo qual presto presto sarà finito, et poi che [Ludovico di Savoia] mandarà XXXX domino Aluyse Bolero e lo processo una cum soi ambaxadori dal predicto re de Franza, dela qual resposta dicti ambaxadori restano cumtenti, donmodo sapianolo di certo che questo debe esser. Item dice dicto Guliermo che questi ambaxadori dicheno ho la soprascripta resposta ho una altra gli scia facta la voleno da chei a domenichea XXXXX proxima che vene, che sarà el quinto dì del presente, et, passato quello dì, che ho cum resposta ho senza se ne voleno andare”. Nella lettera del 14 marzo l’ambasciatore non accenna in alcun modo al processo, limitandosi a riferire che “dapoi quele [ossia le missive precedentemente inviate citate sopra] questo signore fece avocare a sì tuto lo suo Consciglio, al quale fece comiscione dela resposta era da fare ali dicti ambaxadori” e all’interno del quale vi sono diverse opinioni, e che alla fine “hano resposto a questi ambaxadori che vadano, che soa signoria mandarà dreto soi ambaxadori, li quali informarano il predicto re de Franza ad plenum. E de questa risposta me dice dicto Guliermo sono romasti stupefacti e malcontenti e deliberano de non partirse anchora”. Ma il problema maggiore è costituito dallo spostamento della notizia relativa all’intervento di Renato d’Angiò, che dalla seconda minuta opera del decifratore datata 26 gennaio (in cui si legge “questo è ad petitione et rechesta del re Renato”) passa alla lettera del 2 marzo (nella quale diventa “questo fa lo prenominato re de Franza XXX a instigacione e peticione del re Renato”), per poi finire nella missiva del 14 marzo (“questo fazea lo re de Franza ha instantia he instigatione del re Renato”). Come scritto sopra, “Lo spostamento della notizia relativa a Renato d’Angiò [….] è il motivo per cui dalla minuta del 26 gennaio non è stata tratta la lettera in cifra, per così dire annullandola, e spiega perché essa compaia nella lettera del 2 marzo come fosse un’informazione nuova, mai menzionata in precedenza, mentre appunto era già comparsa nella minuta del 26 gennaio. Lo spostamento serve inoltre per far comprendere al lettore che anche la missiva del 2 marzo, contaminata com’è da un’informazione contenuta nella minuta del 26 gennaio, è un falso ‘palese’, così come le lettere precedenti cui in essa ci si riferisce, ossia quelle datate 20, 23 e 26 febbraio”. Ne consegue che per via dell’inedita notizia relativa a “Gulirmo de Torai”, per il fatto che la risposta che gli ambasciatori francesi sperano di avere non è in alcun modo posta in relazione al processo contro Ludovico Bolleri, del quale anzi non si parla minimamente, e per l’accenno all’intervento di Renato d’Angiò le missive precedenti cui l’ambasciatore si riferisce nella sua lettera datata 14 marzo non possono essere identificate con le ultime lettere del sacco. A causa dei numerosi elementi contraddittori sopra rilevati non è dunque possibile affermare che le lettere del sacco siano missive andate disperse, recuperate in un secondo momento e infine spedite a Milano tutte insieme alla fine di aprile. È invece piuttosto evidente che nella “storia alla rovescia” si voglia simulare che sia andato disperso un certo numero di lettere di Corradino Giorgi, le quali sono state sostituite dalle lettere del sacco, che però non possono essere affiancate alla serie delle “prese” a causa dei vari aspetti contraddittori che le caratterizzano e che anzi si configurano come falsi “palesi” per via delle due minute opera del decifratore datate 26 gennaio. Proprio grazie a queste ultime, le lettere che “dicono sono dodeci a numero” consegnate all’interno di un sacco a Francesco Sforza alla fine di aprile lasciano intravedere la loro genesi, ossia che è stato il duca di Milano a inviare al suo ambasciatore le tracce in base alle quali redigere le lettere in cifra, elaborate nella cancelleria milanese sulla base di quella “corrispondenza sommersa” cui si è accennato all’inizio e che si vuol far capire era attiva anche in assenza di missive in nostro possesso: se infatti non fosse per le lettere del sacco, non sapremmo nulla delle informazioni in esse contenute inviate da Corradino Giorgi a Francesco Sforza. Il duca intende però anche far capire come si è formata la serie delle lettere concatenate fra loro sulla base delle “prese”. Per questo motivo nella parte iniziale della lettera di Corradino Giorgi datata 18 aprile cui si è accennato sopra l’ambasciatore commette un errore quando segnala di non avere avuto risposta “de letre mandase ala signoria vostra da dì vintasei de zenaro fina a octo de marzo”. Come abbiamo visto, la prima data deve essere corretta in 25 gennaio, perché nella sua lettera datata 26 gennaio l’inviato sforzesco avvisa che “a vintacinque dil prescente per lo Boffa cavalaro ho recevuto le littere dela signoria vostra”. Si vuole così attirare l’attenzione sulla lettera del 26 gennaio e quindi sulla minuta opera del decifratore con la stessa data, in modo da sottolineare che dal punto di vista della cronologia redazionale la seconda, che non è una decifrazione, non segue la prima, bensì la precede in quanto minuta, intendendo così sottolineare che il processo di redazione valido per le missive palesemente false contenute nel sacco lo è anche per le lettere della serie delle “prese”. Il riferimento con l’errore di datazione alla lettera del 26 gennaio serve però anche ad attirare l’attenzione su un aspetto del suo contenuto, ossia, come abbiamo visto, l’assenza del tema della “barcha”, che invece nella minuta del duca di Milano datata 18 gennaio cui l’inviato sta rispondendo risulta essere in primo piano, al punto che in essa Francesco Sforza scrive: “primum che non haveressemo el modo de providere de dicta barcha”. Si vuole così ricondurre al segnale della “geografia alla rovescia” presente nella minuta ducale, per comprendere la quale è necessario rifarsi alla lettera di Corradino Giorgi datata 23 dicembre 1457 di cui nella stessa minuta si segnala la ricezione. Nella sua missiva l’ambasciatore ribadisce che Ludovico Bolleri ha rinnovato la richiesta della polvere narcotizzante, di cui l’inviato aveva già parlato nella sua lettera del 16 dicembre, “et fa perché vorebe fugire […] et vorea piglare una de doe vie”. Le “doe vie” sono le seguenti: “l’una vorea andare a capitare a uno locho che sce chiama Saselo, qual hè lonze de qui doe lege, è supra il Rodeno he ly vorea havere una bona fusta con sey navaroli galiardi, scorti de l’aqua he scecuri, forniti de reme, de victualia et de ogni altra cossa necessaria per doy dy, he vorea venire suxa per Rodeno et non dice unde né più ultra, l’atra via hè andare a Buseria, ch’è in del Dalfinato, hed è lonze de qui octo lege e bisogna capitare prima a Zambalero, dove sono lege zinque de qui, he a questa Buseria vorea havere una fusta, como ho sopra dicto, per inscire per aqua, però dubita che queli del Dalfinato non lo reteneseno, he non dice né unde vogle capitare né che né como, como di sopra”. In sostanza Ludovico Bolleri vorrebbe dirigersi a “Saselo” (si tratta di Seyssel, nell’Alta Savoia), sul Rodano, o a “Buseria” (la Buissiere, sull’Isère, circa venticinque chilometri a sud di Chambéry), nel Delfinato. In questi luoghi avrebbe bisogno che il duca gli metta a disposizione “una bona fusta con sey navaroli galiardi, scorti del’aqua he scecuri, forniti de reme, de victualia et de ogni altra cossa necessaria per doy dy”: nel primo caso per risalire il Rodano, partendo da “Saselo”, nel secondo “per inscire per aqua”, dopo avere raggiunto “Buseria”. Il problema è che nella minuta del 18 gennaio, dopo avere segnalato la ricezione della lettera del 23 dicembre precedente, Francesco Sforza riassume le “doe vie” in modo del tutto errato, scrivendo: “te havemo mandato la polvere da fare dormire che tu ce richiede, ma, perché hora tu ne scrivi che misser Aluyse dice che, venendoli facto el modo ch’el cercha de fugire per la via de dicta polvere […] el voria pigliare una de doe vie, zoè andare a Sasello overo ad Busena nel Dalphinato per la via del fiume del Rodano mediante la provisione d’una barcha fornita d’homini et de victualie etc.”. Il duca di Milano inverte le caratteristiche geografiche del percorso delle “doe vie”, che prevedevano il raggiungimento di Seyssel o la Buissiere per terra e il proseguimento della fuga per fiume, sostenendo fantasiosamente che Ludovico Bolleri vorrebbe prima “andare a Sasello overo ad Busena nel Dalphinato per la via del fiume del Rodano”. Il segnale della “geografia alla rovescia” serve per richiamare l’attenzione del lettore sul significato dei toponimi “Saselo” e “Buseria”. “Saselo”/Seyssel rimanda al maresciallo filofrancese “Iohannes de Seiselo”/Jean de Seyssel, a capo del partito che ha condotto Ludovico di Savoia “a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero”, come si legge in una lettera del 14 marzo. “Buseria”, corrispondente all’attuale la Buissiere, deriva dal latino buxus, in italiano bosso, divenuto il francese buis: il buis bénit è l’ulivo benedetto distribuito nelle chiese la Domenica delle Palme, che è la domenica che precede la Pasqua e apre la Settimana Santa nella quale si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Il Vangelo di Giovanni racconta che, mentre Gesù si avvicinava a Gerusalemme, la folla, presa da entusiasmo, lo accompagnò alla Città Santa agitando rami di palme, fra l’altro gridando: “Osanna benedictus qui venit in nomine Domini rex Israhel” (Io 12,12-15). Attraverso il riferimento alla Domenica delle Palme “Buseria”/la Buissiere rimanda dunque alla Pasqua (la quale celebra la Resurrezione di Gesù, ossia il suo passaggio da morte a vita e il passaggio a vita nuova per i cristiani, chiamati a risorgere con lo stesso Gesù, ed è legata alla Pasqua ebraica, la quale a sua volta celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù sotto gli egizi grazie a Mosè), il cui reale significato nella “storia alla rovescia” è di simbolo della liberazione del duca sabaudo. Nella parte iniziale di una lettera datata 14 marzo Corradino Giorgi riferisce infatti di essersi “trovato cum uno notabile zentilomo de questo paise, lo quale ha nome Glaudio de Langino”. L’ambasciatore continua in questo modo: “dice havere casone de conferire cum la signoria vostra per par de una bona parte deli zentilomini he baroni de questo paise de Sabaudia e de dire cose ala signoria vostra le quale ve piazeranon, ma che non vrea venire se non havese qualche casone honesta et legiptima scusa de venire, et dice che hano deliberati queli che lo voleno mandare de prendere questa via, videlibet che la signoria vostra gli faza una littera de familiaritate tanto ampla quanto scia posibile et cum ie preminentie e prerogative e specificatione de salario como se fose vero famiglo dela signoria vostra, rechedendoli che a suo piazere vegna dala signoria vostra, quale gli fa servare il locho suo et mandare lì una litera de passo per quatro ho sei cavali in forma favorevele, he che, habuta la litera predicta, venerà dala signoria vostra, la quale intenderà quelo referarà, et poi, monstrando de venire ad prendere ordine ali facti soi, retornerà da questi soi e, secondo troverà la mente dela signoria vostra, se procederà ala conclusione […] me prega pregasse la signoria vostra che, volendo concedere dicte littere, facesse presto e che le havese de qua da Pasqua, però che la memoria havea a confrire con la signoria vostra era de tale natura ch’era bisogno de celere e breve expeditione e che, non havendo dicte littere al termino soprascrito, non poterebe venire dala signoria vostra et ali soi sarebe forza prendere altro partito”. Qui preme rilevare che “Glaudio de Langino” prega l’inviato ducale “pregasse la signoria vostra che, volendo concedere dicte littere, facesse presto e che le havese de qua da Pasqua”, perché “la memoria havea a confrire con la signoria vostra era de tale natura ch’era bisogno de celere e breve expeditione e […] non havendo dicte littere al termino soprascrito, non poterebe venire dala signoria vostra et ali soi sarebe forza prendere altro partito”, ossia aderire al partito filofrancese, che ha condotto Ludovico di Savoia “a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero”, come riportato sopra. Rispetto al duca sabaudo la festa di Pasqua, che nel 1458 cadde il 2 aprile, diviene dunque simbolo di liberazione. Con la “geografia alla rovescia” il duca di Milano sottolinea così i valori opposti di “subiectione” e liberazione impliciti nei toponimi “Saselo” e “Buseria”. Ma torniamo ora alle lettere del sacco. Innanzitutto bisogna rilevare che, al termine di una missiva di Corradino Giorgi datata 18 aprile, appunto dopo la data si legge “per caristia de papero”, come se l’ambasciatore volesse evidenziare beffardamente che, dopo avere scritto le lettere del sacco, non aveva più materiale scrittorio a disposizione. Inoltre, la consegna in un solo momento a fine aprile di queste missive, evidentemente preceduta da un’unica spedizione delle minute, deve mettere in guardia il lettore nel momento in cui all’inizio di maggio Francesco Sforza si appresta a inviare la serie delle “prese”. Per ideare le lettere del sacco e inserire in esse gli elementi contraddittori rispetto alla serie delle “prese”, era infatti necessario che una parte di quest’ultima fosse già stata elaborata. Questa osservazione non deve stupire, perché nel documento sulla polvere si legge: “Et, se per caso gli fussero più persone che non sono li dicti cartozi de polvere, zoè più che X che guardasseno l’amico, non se vole dargli la polvere, ma mandare qua per del’altra, che ve ne serà mandata tanta che bastarà per quanti serviereti”. Naturalmente ci può essere qualcosa di beffardo anche nel segnalare nei due fogli strappati del Registro delle Missive 44 la ricezione il 23 aprile, giorno in cui si celebra la festa liturgica di San Giorgio, della decima “presa” delle lettere di “Coradino Zorzo”, alla cui falsità si accenna velatamente con il documento sulla polvere e altri indizi, e subito dopo la consegna di un sacco di documenti provenienti dalla Savoia chiaramente non autentici, quasi a volersi giustificare del fatto che è vero che si è in presenza di lettere false, ma si tratta solo di quelle ricevute nel sacco, non delle altre. Resta però il problema di come si possa giustificare la presenza di questi documenti all’interno della “storia alla rovescia”. Riteniamo che essa possa dipendere dalla minuta ducale del 26 febbraio nella cui parte finale Francesco Sforza scrive al suo ambasciatore: “Et ulterius gli ricordaray [a Ludovico di Savoia] che in omnem eventum, quando paresse a sua signoria che nuy se interponissemo con la prefata maiestà, lo faremo non solo con littere et con messi, ma etiam con solenni ambassatori, s’el serà mestero”. Come sappiamo, la proposta del duca di Milano di interporsi “con littere” presso il re di Francia non riceve una risposta esplicita, ma una indiretta nella lettera di Corradino Giorgi a Bianca Maria Visconti del 14 marzo in cui si riferisce la richiesta da parte di Ludovico di Savoia “che ve piaza mandare a madama soa fema uno paro de carte da trionfi […] he uno paro a madama Maria he uno altro a madama Bona”, in cui il termine “paro” si potrebbe intendere sia come “mazzo” sia come “paio”, in base alla quale è possibile interpretare il termine “prese” del documento sulla polvere come “ricezioni” da parte di Francesco Sforza delle lettere del suo ambasciatore in Savoia. Così però si giustifica la serie delle “prese” in sé come modo di interporsi presso il re di Francia. All’interno della “storia alla rovescia” espressa dalla serie delle “prese” si vuole poi simulare che il duca di Milano abbia creato alcune lettere allo stesso scopo, fra l’altro lasciando scegliere al duca sabaudo, che si finge dovesse esprimere il proprio consenso su di esse, se inserire l’informazione relativa all’intervento di Renato d’Angiò nella lettera da trarre dalla seconda minuta opera del decifratore datata 26 gennaio o nella missiva del 2 marzo, come poi in effetti si simula sia stato fatto. Esse contengono elementi contraddittori rispetto alla serie delle “prese” perché il duca di Milano finge di dubitare di Ludovico di Savoia. Qualora quest’ultimo si fosse comportato correttamente, avrebbe esibito le sole lettere del sacco, celando così il fatto che non erano autentiche; se invece il duca sabaudo avesse dimostrato di avere cattive intenzioni, Francesco Sforza avrebbe esibito le lettere del sacco insieme alla serie delle “prese”, evidenziando quindi come avesse creato delle false lettere per venire incontro a Ludovico di Savoia, il quale però aveva tradito la sua fiducia. Ed è questo che si può ritenere si voglia far credere si sia verificato: a fine aprile, quando si simula che le lettere del sacco siano state consegnate a Milano, apparentemente le relazioni fra i due duchi non sono buone e quindi Francesco Sforza finge di non premurarsi di decifrare la lettera del 26 gennaio, pronto anzi a esibire la minuta opera del decifratore, insieme all’altra non distrutta da cui non è stata tratta alcuna lettera in cifra, che dimostra che le lettere del sacco sono falsi con i quali lui aveva pensato di venire incontro a Ludovico di Savoia. Ma in che modo queste missive palesemente non autentiche avrebbero potuto aiutare il duca sabaudo? Cerchiamo di chiarirlo. Nella lettera del 19 gennaio si legge: “me retrovay cum monsignore lo mareschalcho, lo qual in questo facto altre volte lo retrovay molto rigido e aspero e disse de male parole, dele quale tunc ne avisay vostra signoria”. Ci si riferisce alla lettera di Corradino Giorgi datata 10 dicembre 1457 in cui si legge: “Dapoy la partita del cavalario, instando mi anchora per la liberatione de domino Aloyse Bolero, et maxime cum monsignor el manescalcho, lo quale hè lo primo homo de questa corte he che fa de questo signore quelo gly piaze he dal qual procede et proceduto la mazore parte del caso de domino Aloyse he che ly hène più contrario, dicendoli che molto sce maraveglia vostra signoria de questo casso he che vostra signoria non potea credere, pensare, né imaginare, ch’el prelibato domino Aloyse havesse comisso cossa per la qual merito sce devesse haver provocato la indignatione de monsignore ducha de Savoia […] et […] non potea far demancho vostra signoria […] non procurasse he rezerchasse la liberatione he idempnità del predicto domino Aloyse […] Al che resposte ch’era vero che per lo passato dicto domino Aloyse hè stato reputato homo notabile he da bene he amator dela cassa de Savoia e a quela fidelle et che volesse Dio che al presente fosse stato cusì, che non gly sarea acaduto quelo gly hè acaduto, he ch’el rezerchava la destrutione dela persona he stato de monsignore de Savoia he che non poterea may essere favorevele a chi rezerchasse la destructione del prelibato signor”. Nella lettera del 19 gennaio Corradino Giorgi prosegue così: “Non atendendo ale parole passate, di novo lo confortay volesse essere propitio ala liberatione de domino Aloyse […] Tunc, humiliater aliquantulum, me resposte esser aparichiato semper a fare cossa fosse grata a vostra signoria he che al prescente non era possibile a questo signore fare quelo rechedea vostra signoria, però che, prima vostra signoria me mandasse da soa signoria, gly erano stati ly ambasatori del re Renato, ly qualy, he a bocha he per lettere, gly haveano rechesto la liberatione de misere Aloyse, digandoli che proditorie lo havea facto prendere e che, sce non lo liberava, che lo disfidava e molte altre menaze. Aly quali soa signoria gly havea resposto che iuste et sancte lo havea facto e, che cusì paresse fosse vero, che comettea la cognitione de questo facto al re de Franza, quale era suo cognato e al quale apertinea questo facto cusì como a luy, e perciò havea mandato domino Umberto Valueto dal predicto re de Franza e lo re Renato gly havea mandato Iohanne Cossa, lo qual dice havere dicto molte cosse he falsse et anchora che soa signoria vole iustificare la cossa aciò non para scia proceduto como signore capitoxe he voluntaroxo e che anchora non era iustificata e ch’era bisogno la cossa fosse uno pocho longa, scì per aspectare la determinatione del re di Franza, scì etiam perché gly bisogna tore informatione in quele parte, le quale sono pur uno pocho lontane […] Unde poy lo pregay me fazese spazare e cusì ha facto questo signore: me ha facto fare resposta per lo suo Consciglio, inter ly quali esso monsignore mareschalcho era lo primo et, tanquam primus de Conscilio et nomine totius Conscilii, me fece resposta e quela medesciama havea facto a my et in propriis verbis”. In sostanza Jean de Seyssel, il capoguardia filofrancese, “lo quale hè lo primo homo de questa corte he che fa de questo signore quelo gly piaze he dal qual procede et proceduto la mazore parte del caso de domino Aloyse he che ly hène più contrario”, accusa Ludovico Bolleri di volere “la destrutione dela persona he stato de monsignore de Savoia”. Poi in nome di Ludovico di Savoia lo stesso Jean de Seyssel, “tanquam primus de Conscilio et nomine totius Conscilii”, riferisce a Corradino Giorgi che all’accusa di Renato d’Angiò di avere fatto catturare Ludovico Bolleri “proditorie” il duca di Savoia “havea resposto che iuste et sancte lo havea facto” e per questo motivo aveva deciso di sottoporre la questione all’attenzione del re di Francia, in modo che non sembrasse che fosse “proceduto como signore capitoxe he voluntaroxo”. Queste ultime parole si giustificano alla luce di quanto affermato da Jean de Seyssel all’inizio di dicembre, ossia che Ludovico Bolleri “rezerchava la destrutione dela persona he stato de monsignore de Savoia”. Quest’ultimo tema si ripresenta nella lettera datata 20 febbraio in cui Corradino Giorgi riporta un dialogo con Guiotino de Nores, il quale fra le altre cose afferma di avere “intexo molto bene non eser stato per domino Aluyse Bolero che non cerchase la distrutione de questo signore […] Et io, volendo intendere più ultra, gli domandai che cosse erano queste havea cerchato domino Aluyse Bolero per la distrutione de questo signore: me resposte che, facto lo processo, me lo farebe vedere”. La notizia del processo è confermata dalla lettera del 2 marzo, nella quale si legge: “ho intexo che questi ambaxadori del re de Franza dicheno sperano havere questa resposta, videlicet che anchora non hè finito el processo, lo qual presto presto sarà finito, et poi che mandarà XXXX domino Aluyse Bolero e lo processo una cum soi ambaxadori dal predicto re de Franza, dela qual resposta dicti ambaxadori restano cumtenti, donmodo sapianolo di certo che questo debe esser”. Stupisce pertanto quanto è riferito nella lettera del 23 febbraio: “Non obstando che per altre mie habia scripto la signoria vostra como li ambaxadori del re de Franza erano qui per li facti de domino Aluyse Bolero he anchora como se dicea per la loro venuta domino Aluyse Bolero dever fir liberato (et chi dicea lo condurebeno in Franza, che dicea anchora esser conclusa la soa liberacione), novamente intendo da Guliermo Bolero, lo quale hè stato continuamente in Franza dreto a Iohane Cosa per li facti de domino Aluyse Bolero, lo quale hè qui cum questi ambaxadori, che dicti ambaxadori hano rechesto a questo signore per parte del rre che domino Aluyse Bolero he Zentalo sciano posti et remetuti in le mane del re de Franza he che la dona e li fioli sciano remisi in soa libertà h anchora non hano habuto resposta, nondimancho el mareschalcho lavora quanto il pò che cusì sci[a]”. In sostanza all’inizio di dicembre Jean de Seyssel, definito “lo primo homo de questa corte he che fa de questo signore quelo gly piaze he dal qual procede et proceduto la mazore parte del caso de domino Aloyse he che ly hène più contrario”, dice a Corradino Giorgi “ch’era vero che per lo passato dicto domino Aloyse hè stato reputato homo notabile he da bene he amator dela cassa de Savoia e a quela fidelle et che volesse Dio che al presente fosse stato cusì, che non gly sarea acaduto quelo gly hè acaduto, he ch’el rezerchava la destrutione dela persona he stato de monsignore de Savoia he che non poterea may essere favorevele a chi rezerchasse la destructione del prelibato signor”. Quindi inizia il processo a Ludovico Bolleri proprio perché ricercava la distruzione di Ludovico di Savoia, ma Jean de Seyssel non pare interessato a esso, anzi si impegna perché “Aluyse Bolero he Zentalo sciano posti et remetuti in le mane del re de Franza”, il quale secondo alcuni, come si legge in una lettera di Corradino Giorgi del 14 marzo, lo potrebbe liberare con “grandissimo disonore e dano” di Ludovico di Savoia. In sostanza Francesco Sforza, pur esortando nella minuta del 26 febbraio il duca sabaudo a liberare Ludovico Bolleri ed esprimendo il parere che “ad la maiestà del re de Franza […] per quanto possiamo comprehendere etiam per lo scrivere tuo, non è piaciuta la novitade facta contra dicto domino Aluyse (et pare assay apertamente cossì essere, se è vero che mandi ad farlo liberare et restituire ad le cose soe), et similiter presso ad lo prefato re di Sicilia”, con le lettere del sacco cerca di fornire una giustificazione al comportamento del duca di Savoia rilevando come sia in corso un processo contro Ludovico Bolleri, al quale si accenna solo nelle due lettere del sacco menzionate e non, come si è rilevato sopra, nella lettera di Corradino Giorgi del 14 marzo appartenente alla serie delle “prese”, per avere ricercato la distruzione dello stesso duca sabaudo, accusa per la quale è stato fatto catturare dal maresciallo filofrancese Jean de Seyssel e a causa della quale comprensibilmente al momento non può essere né liberato né mandato da Carlo VII. Si tratta naturalmente di una messinscena, da parte degli uni e degli altri. Ludovico Bolleri, infatti, è stato fatto catturare da Jean de Seyssel su mandato di Carlo VII, appoggiato da Renato d’Angiò, non perché “rezerchava la destrutione dela persona he stato de monsignore de Savoia”, ma perché, come riporta Francesco Sforza nel Registro delle Missive 38 in una lettera diretta al Consiglio segreto e datata 25 ottobre 1457 (ff. 182v-183r), “ala dicta maiestà è stato referito che lo illustrissimo signor delphino et altri cerchavano con el mezo d’esso domino Aluyse de habere pratiche et intelligentia cum nuy” (e a conferma di un certo clima politico in una lettera del 12 ottobre riportata ai ff. 320r-v del Registro delle Missive 34 e diretta a Franceschino del Carretto il duca scrive: “per respondere alla parte che scrivete essere vociferato che luy è stato preso perché haveva intelligentia con nuy etc., dicemo che della dicta captura sua ne recresse per luy, ma non per nuy, perché nuy non havemo con luy altra intelligentia se non como nostro adherente, recomandato et bono amico, siché tutte queste sono voxie et zanze se dicono”). L’obiettivo finale dell’operazione sarebbe dovuto consistere nell’invio di Ludovico Bolleri in Francia, per il quale non a caso alla fine si adopera Jean de Seyssel, dove non è ben chiaro quale sarebbe stata la sua sorte, benché nell’ottica della “storia alla rovescia” nella lettera del 16 dicembre 1457 Corradino Giorgi segnali che Ludovico Bolleri gli ha scritto che “non potendo libaralo aliter, che la signoria vostra recheda sia remiso al re de Franza”, in quella del 26 gennaio si legga che “A questa hora ho intexo che qui sce aspeta ambasatore de dì in dì del re de Franza, quali veneno per conduere domino Aloyse Bolero dal prenominato re, unde era suo desiderio”, in quella del 2 marzo che Ludovico Bolleri “se retrova molto cumtento de andare in le mane del re de Franza” e in quella del 14 marzo che “ha resposto che serebe più contento de essere liberato qui [a Ginevra], pur, quando non se posa fare altramente, è contento de andare in Franza”. Al proposito può essere il caso di rilevare che nella lettera del 23 febbraio Corradino Giorgi riferisce che “questo Guliermo se retrova molto male contento, pe[r]ò me dice che, s’el fide remisso al re, che li facti soi sarano sine fine”. In ogni caso alla strategia francese si oppone quella del partito contrario a Jean de Seyssel e Carlo VII, che proprio a partire dalla falsa accusa che Ludovico Bolleri ricercasse la distruzione di Ludovico di Savoia imbastisce contro di lui un finto processo che gli fornisce il pretesto per non consegnarlo agli ambasciatori francesi, che infatti, colti alla sprovvista dalla piega imprevista presa dagli eventi, nelle lettere del 26 febbraio e del 2 marzo vengono descritti come “molto turbati”. Cosa rese possibile questa reazione? Il fatto che il partito contrario a Jean de Seyssel e Carlo VII era certo non solo e non tanto del sostegno di Francesco Sforza (i giorni a cui risalgono le prime lettere del sacco sono anche quelli dei primi incontri fra Jean de Compey, Giacomo Beretta, uomo vicino a Francesco Tomatis, e Corradino Giorgi, con la scusa della “differentia” che opponeva Jean de Compey a Giacomo Beretta), ma soprattutto dell’appoggio del delfino, cui si allude con l’intestazione “Iesus” della prima missiva datata 19 gennaio delle lettere del sacco, la quale si consideri essere immediatamente preceduta dalla minuta ducale del 18 gennaio, appartenente alla serie delle “prese”, con il suo segnale della “geografia alla rovescia” relativo ai toponimi “Saselo”/Seyssel e “Buseria”/La Buissiere, che, come sappiamo, rimandano alla contrapposizione Jean de Seyssel/Pasqua e quindi a quella “subiectione”/liberazione in relazione al duca di Savoia. Poiché Cristo deve essere identificato con il delfino (si veda qui e qui), si vuole far capire al lettore che nel valutare quanto viene narrato nei documenti del sacco dovrà tenere conto della figura del delfino, al quale peraltro si accenna nella missiva del 23 gennaio, nella quale è scritto: “chi hè il maistro de casa de monsignor delphino de Franza, lo quale, secundo intendo, domanda una grande soma de dinari a questo signore per la dota de madona la dalfina” e nella quale si aggiunge pure: “Anchora gli hè venuto uno cavalero bergognono mandato per lo ducha de Bergogna, ma non intendo perché sia venuto”. Che la lettera del 19 gennaio con la sua intestazione “Iesus” sia particolarmente importante è confermato dal fatto che è l’unico documento del sacco cui ci si riferisce in modo corretto nella seria delle “prese”. In una missiva dell’ambasciatore datata 14 marzo si legge infatti: “poi [Ludovico de Savoia] subiunse disse che la serenità del re Renato non havea altra casone che per lo X facto de domino Aloysio Bolero, alo quale gli replicai quanto me ha scripto la signoria vostra, recordandoli ancora lo piacere ne farebe ala signoria vostra, como soa signoria à potuto comprendere per la lunga instantia gli ha facto per mi’ mezo. El che resposte che per la resposta me feze fare per lo suo Consciglio a Remiglire havea XX potuto intendere como XXXXXX passava pasava la cossa, del che io tunc ne fece adviso ala signoria vostra, e che al presente erano qui questi ambaxadori del re de Franza per questa casone, il perché ogni dì erano in Consciglio e disputatione, e che anchora non era concluso cossa alcuna he che, facta la conclusione, la quale sarebe uno pocho longa, me direbe de soa intentione”. Con le parole “la resposta me feze fare per lo suo Consciglio a Remiglire havea XX potuto intendere como XXXXXX passava pasava la cossa, del che io tunc ne fece adviso ala signoria vostra” ci si riferisce proprio alla lettera del 19 gennaio, la quale però, come sappiamo, non può essere accostata alla serie delle “prese” per via di quel “uno Constantio Gualtero” di cui abbiamo parlato sopra. Può essere il caso di rilevare che l’accenno alla missiva del 19 gennaio per la quale Francesco Sforza aveva potuto comprendere come “pasava la cossa” sia accostato alla presenza degli ambasciatori francesi “per questa casone” e ricordare che nella stessa lettera del 19 gennaio Corradino Giorgi scrive che Ludovico di Savoia “me ha facto fare resposta per lo suo Consciglio, inter ly quali esso monsignore mareschalcho era lo primo et, tanquam primus de Conscilio et nomine totius Conscilii, me fece resposta”. Tuttavia, l’intervento del delfino, cui si accenna con l’intestazione “Iesus” della missiva del 19 gennaio, ha avuto conseguenze politiche, perché nella citata missiva del 14 marzo riguardo alla “resposta era da fare ali dicti ambaxadori” nel Consiglio risultano esservi diverse opinioni e il maresciallo capoguardia filofrancese pare occupare una posizione meno preminente. Si consideri poi al proposito che, benché, come già sappiamo, nella lettera del 23 febbraio precedente di Corradino Giorgi il maresciallo risulti adoperarsi “quanto il pò che cusì sci[a]”, ossia che secondo le richieste degli ambasciatori di Carlo VII “domino Aluyse Bolero he Zentalo sciano posti et remetuti in le mane del re de Franza”, alla fine, come si legge nella lettera del 14 marzo, il Consiglio risponde agli ambasciatori “che vadano, che soa signoria mandarà dreto soi ambaxadori, li quali informarano il predicto re de Franza ad plenum. E de questa risposta me dice dicto Guliermo sono romasti stupefacti e malcontenti e deliberano de non partirse anchora”. Si tratta di un completo fallimento per il maresciallo Jean de Seyssel. Non giunge così del tutto inaspettato quanto Corradino Giorgi dice il 28 dello stesso mese, ossia che “la parte de questi zentilomeni che ha gubernato questo signore per fina a qui, la quale hera franzosa, non guberna più e l’altra, che in tuto gli hè contraria, hè montata in stato”. E si noti che in una missiva del 14 marzo precedente l’ambasciatore scrive chiaramente, benché in cifra: “intendo che lo duca de Burgogna he monsignor lo dalfino gli meteno mane esste pratiche se fano al presente in questa cità [Ginevra]”. Le “pratiche” cui si accenna sono spiegate poco prima nella stessa lettera, subito sopo la parte relativa a “Glaudio de Langino” riportata sopra: ”Et, aciò la signoria vostra intenda più largamente questo facto [relativo appunto a “Glaudio de Langino”], dirò quelo intendo per altre vie et anchora comprendo per le pratiche se fano. El è vero che questo signore ha lo suo stato diviso in doe parte. Una al presente regna e guberna, aderise alo re de Franza e lo mareschalcho hè capo de bandera he hano conducto questo signore a tanta subiectione che sta sotoposto al re de Franza como fa la quaglia al sparavero, unde lo dicto signore, che se vorea cavare e liberare de asta subiectione, sce intende cum l’altra parte, che non è al presente de stato, dela qual misir Iohane de Compense è lo primo, e vorea farla saltare, la qual dubita a piglare la impresa senza spade, favore e secorso, besognando de qualche altro signore, e per questo hano deliberato de volere intendere dala signoria vostra se cum sua mezanità la signoria vostra vole fare liga cum questo signore. He questo intendo cercheano de uluntà he consentimento d’essto signore”. Rispetto alle suddette parole si può fare una considerazione, ossia che il 14 marzo, quando si simula che esse siano state scritte, il partito filofrancese guidato dal maresciallo Jean de Seyssel attraversasse già una fase declinante e che quindi la sua posizione di dominio assoluto si riferisca a un periodo precedente: così fanno pensare la risposta fornita agli ambasciatori di Carlo VII dal Consiglio riportata sopra, in contrasto con la volontà del maresciallo, impegnato affinché “domino Aluyse Bolero he Zentalo sciano posti et remetuti in le mane del re de Franza”, e il fatto che solo quattordici giorni più tardi il partito filofrancese risulta sopravanzato dalla parte avversa, un tempo che pare troppo breve per un simile rivolgimento politico, le cui origini vanno quindi ricercate in un momento precedente. La liberazione del duca sabaudo avviene dunque entro la Pasqua del 2 aprile 1458 grazie all’intervento del delfino, e non senza l’appoggio di Francesco Sforza, il cui sostegno è però di sicuro importante, ma non certo sufficiente. Come si ricorderà, inoltre, la lettera di Corradino Giorgi del 19 gennaio è immediatamente successiva alla minuta ducale del 18 gennaio con il suo segnale della “geografia alla rovescia” relativo ai toponimi “Saselo”/Seyssel e “Buseria”/La Buissiere, che rimandano alla contrapposizione Jean de Seyssel/Pasqua e quindi a quella “subiectione”/liberazione in relazione al duca di Savoia. Considerato che i documenti precedenti sono la minuta ducale datata 11 gennaio, nella quale Francesco Sforza scrive: “te mandiamo lo presente nostro cavallaro cum la polvere da fare dormire […], la quale se vole operare et dare secundo el tenore dela inclusa scriptura”, e appunto l’“inclusa scriptura” intitolata “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” e datata 10 gennaio, riteniamo che con la sequenza “dormire delle guardie”/“Buseria”-Domenica delle Palme-Pasqua di Resurrezione/”Iesus”, per non parlare poi dell’importanza che nella “storia alla rovescia” riveste proprio la Pasqua del 2 aprile 1458 e del fatto che dei tre libri richiesti da Ludovico di Savoia a Francesco Sforza uno è la Bibbia, si voglia fornire una sorta di suggerimento su come interpretare correttamente le “guardie”, alludendo alle guardie del sepolcro di Gesù, che, dopo essere state pagate dai “principibus sacerdotum”, vanno in giro a raccontare il falso, ossia che “discipuli eius nocte venerunt et furati sunt eum nobis dormientibus” (si veda al proposito Mt 28, 11-15). Se dunque nel Vangelo di Matteo al falso racconto delle guardie si contrappone il vero della Resurrezione di Gesù, il vero cui si allude nel documento intitolato “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.”, nel quale, come abbiamo visto, il sonno delle guardie rimanda al falso racconto delle guardie del Vangelo di Matteo, è quello relativo alla Resurrezione del delfino, da identificarsi con Cristo, per la quale lo stesso delfino è in grado di garantire per la liberazione di Ludovico di Savoia e in seguito alla quale il titolo del documento si configura anche come una minaccia rivolta ai suoi nemici, cui si ricorda che sarà lui ad ascendere al trono come re di Francia, con tutte le conseguenze del caso. Il contrasto vero/falso cui si è accennato non deve stupire, perché esso è presente anche al livello di Ludovico di Savoia (per quanto riguarda i “livelli”, si veda qui) sin dalla lettera del Registro delle Missive 34 datata 26 ottobre 1457 (ff. 323v-324r) il cui destinatario è “Georgio de Conradinis”, cioè Corradino Giorgi ma con il nome e il cognome rovesciati, con il quale si vuole alludere al fatto che la corrispondenza di Francesco Sforza con il suo ambasciatore costituisce una “storia alla rovescia”, ossia un racconto falso, che tuttavia lascia intravedere il vero, ossia quanto realmente accaduto. Questa “storia alla rovescia” si contrappone a sua volta al racconto falso delle guardie filofrancesi che sottopongono a stretta sorveglianza l’attività politica del duca sabaudo, rendendolo prigioniero di Carlo VII, secondo le quali Ludovico Bolleri sarebbe stato catturato perché ricercava la distruzione dello stesso duca, mentre la vera ragione della cattura di Ludovico Bolleri, riportata, come si ricorderà, in una lettera del Registro delle Missive 38, è che “ala dicta maiestà è stato referito che lo illustrissimo signor delphino et altri cerchavano con el mezo d’esso domino Aluyse de habere pratiche et intelligentia cum nuy”. E così anche per questa via si sale al livello del Cristo/delfino, che, come detto, con la sua Resurrezione garantisce per la liberazione di Ludovico di Savoia, minacciando al contempo i propri nemici. Ma il contrasto vero/falso riguarda anche le lettere del sacco palesemente non autentiche, inaugurate da una missiva, quella del 19 gennaio, che nella sua intestazione reca in un modo che innegabilmente ha un che di beffardo il nome “Iesus”, che rimanda al vero e che, come abbiamo visto, ha un suo significato. Tuttavia non finisce qui, perché pure Francesco Sforza è interessato dalla cattura di Ludovico Bolleri, ma non tanto in quanto suo “adherente, recomandato et bono amico”, come si legge nella lettera a Franceschino del Carretto prima citata, bensì per via delle parole sopra riportate del Registro delle Missive 38 relative alle “pratiche et intelligentia cum nuy” “lo illustrissimo signor delphino et altri cerchavano con el mezo d’esso domino Aluyse de habere”, cui seguono queste: “del che, standovi suspecta la maiestà sua, intendiamo ha ordinato de mandare soy ambassatori ala signoria de Venetia per obviare a questa materia et tentare altre materie”. Si spiegano così gli accenni al viaggio di Alessandro Sforza contenuti nelle lettere del sacco, sempre da considerare alla luce dell’intestazione “Iesus” della prima missiva del 19 gennaio. Per iniziare, in quest’ultima è scritto: “da Michele de Pimonte ho intexo che lo ilustre signore Alesandro hè conzo cum lo re de Franza”. Poi, però, in quella del 26 gennaio si legge: “da queli erano cum lo predicto ambasatore [di Ludovico di Savoia] ho intexo el signore Alesandro esser andato in Flandria dal duca de Borgogna”. E nella lettera del 26 febbraio si aggiunge: “li portadori debeno eser merchadanti zenoesi, quali diceno venire a Milano, se non me inganano, e lo signor Alisandro eser duca de Borgogna et bem veduto et vestito ala franzosa cum tuti li soi et diceno deveva andare re d’Ingliterra et che, a suo comprendere, el mena de secrete et strete pratiche”. Il concetto è ribadito nella lettera del 2 marzo, nella quale si legge: “per li soprascripti merchadanti [come scritto all’inizio della missiva, si tratta di ‘Nicolò Spinola e Polo Iustiniano, quali veniam de Flandra a Milano’] ho intexo el signor Alisandro esser dal duca de Borgogna e bem veduto e vestito ala franzosa cum tuti li soi et dicheno ch’el deveva andare dal re d’Ingliterra e che a suo cumprendere el menava de secrete et strete pratiche, como per le portate per li dicti merchadanti n’azo advisato la signoria vostra“. Possiamo concludere questa rassegna dei riferimenti ad Alessandro Sforza contenuti nelle missive di Corradino Giorgi con le parole di due lettere estranee al sacco. Nella prima, del 23 dicembre 1457, si legge: “Al prescente hè stato qui uno Iacobo de Mansim, subdicto de questo signor ma servitore del ducha de Orliens he mandato per lo re de Franza […] retrovandome con esso, me domanda molto caldamente como sce intendea il signor Alesandro con vostra signoria he, respondendo my: ‘Molto bene’, disse luy: ‘Pote esse per la fede tua è cusì lo vero’, e replicando my pur cusì esser, tuto stupefacto e maraveglioxo sc’è partite da my” (l’ambasciatore compie un errore, che non è il caso di approfondire qui, perché, riferendosi a Jean d’Amancier, non lo chiama con il corretto nome “Iohane” ma con lo sbagliato “Iacobo”; a proposito di questo importante personaggio, in una lettera datata 14 marzo l’inviato milanese avvisa Francesco Sforza di avere saputo da “maistro Iohane Iacobo”, medico ducale, che Carlo VII, gravemente ammalato, vuole stringere un’alleanza con Venezia contro Milano, forse servendosi dei due ambasciatori da lui mandati in Savoia; la missione francese sarà tuttavia guidata da “Iohane da Mansin”, definito colui “che conduce la barcha”: prima della partenza dei connazionali per Venezia Jean d’Amancier visiterà Francesco Sforza, proseguendo poi il suo viaggio diretto a Venezia, “e tuto quelo dirà ala signoria vostra el fingerà”); nella seconda, del 28 aprile 1458, è scritto: “intendo lo sigor Alisandro esere partito dal duca de Bergogna per venire in quele parte et fa la via de Alamania”. Il viaggio di Alessandro Sforza, che si recò prima dal re di Francia e poi dal duca di Borgogna, suscitò in Italia svariate reazioni. Per riassumerle, possiamo affidarci a una minuta di Francesco Sforza datata 11 maggio 1458 e che reca come destinatario Marchese da Varese, suo ambasciatore a Venezia (per un riassunto della corrispondenza che precede e segue quest’ultimo documento rispetto alla conclusione del viaggio del fratello del duca di Milano, che fra l’altro si incrocia con la parte iniziale del viaggio di Roberto Sanseverino in Terra Santa, si veda il testo intitolato La simulazione delle aggressioni militari sabaude nell’aprile del 1458). In essa si legge: “Ma perché tu ne scrivi che Alexandro, nostro fratello, dovia giongere lì martedì proximo passato et per altra via havemo inteso che luy havia deliberato de venire fin qui da nuy, volemo che, siando luy in ferma determinatione de venire qui, tu gli dichi queste parole da nostra parte: ch’el ne piace ch’el sia retornato sano et salvo de qua et che nuy lo vederessemo volentieri, ma consyderato che questa sua andata in Franza ha dato da dire ad tucte le potentie de Italia, non senza nostro grave carico, perché ogniuno pensava ch’el gli fusse andato de nostro consentimento per fare qualche pratica, et tu say che lì in Venetia se ne fece pur caso assay, finché non s’è sentite el vero, et consyderato ancora che nuy, per chiarire ogniuno del vero, scripsimo per tucto come luy gli era andato senza nostra licentia et saputa, ch’el ne pare et cossì volemo per condicione alcuna, per tore via ogni ombreza che potesse nascere in le mente de veruno, che luy per niente non debia venire qui, ma el se ne debia andare de deritura a Pesaro, perch’el non è dubio che, se al presente luy venesse qui, siando venuta l’armata di francesi in Zenoa come gli è venuta mo novamente, ogniuno diria che l’andata sua in Franza fusse stata de nostro consentimento et deliberatione per tractare qualche intelligentia, la qual cosa quanto ad nuy daria carico lassiamo indicare ad luy medesmo, rendendone però certi che ancora ad luy non debia piacere che per sua casone venessemo ad recevere carico alcuno presso le potentie italice. Et li diray appresso che, quando el serà stato a Pesaro per parechii dì, el porà poy venire qui da nuy ad suo piacere, perché sempre in ogni tempo el vedremo volentieri”. Come si può notare, la preoccupazione del duca di Milano sembra dipendere dal fatto che il viaggio di Alessandro Sforza in Francia “ha dato da dire ad tucte le potentie de Italia […] perché ogniuno pensava ch’el gli fusse andato de nostro consentimento per fare qualche pratica”. Per questo motivo il duca, “per chiarire ogniuno del vero”, ha scritto “per tucto come luy gli era andato senza nostra licentia et saputa”. Così il duca, “per tore via ogni ombreza che potesse nascere in le mente de veruno”, non vuole che Alessandro torni a Milano, perché, se si presentasse ora che i francesi sono a Genova, “ogniuno diria che l’andata sua in Franza fusse stata de nostro consentimento et deliberatione per tractare qualche intelligentia, la qual cosa quanto ad nuy daria carico lassiamo indicare ad luy medesmo, rendendone però certi che ancora ad luy non debia piacere che per sua casone venessemo ad recevere carico alcuno presso le potentie italice”. Questa minuta presenta però un problema, ossia le parole aggiunte nel margine sinistro. Esse sono: “et ancora intendiamo che la maestà del re de Franza prese ombra et despiacere del’andata che luy poy fece dala maestà sua al duce de Borgogna”. Sono queste parole, aggiunte nel margine sinistro a volere dare loro maggiore risalto, con un segno di richiamo che nel testo si presenta dopo “et tu say che lì in Venetia se ne fece pur caso assay, finché non s’è sentite el vero”, posizione quanto mai significativa se si considera il tentativo dei mesi precedenti del re di Francia di allearsi con Venezia ai danni di Francesco Sforza, il centro della minuta diretta a Marchese da Varese, che naturalmente andava esibita.

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In realtà Francesco Sforza non ha alcuna preoccupazione che il viaggio di suo fratello in Francia possa aver fatto pensare in Italia che lui avesse “qualche pratica” con Carlo VII, magari in relazione con Genova, ma vuol far capire al lettore l’importanza del proseguimento del viaggio di Alessandro presso il duca di Borgogna, che significa contatti con il delfino, come lascia intendere un’altra minuta sempre con destinatario Marchese da Varese datata 8 febbraio 1458 nella quale si legge: “Et aciò intendi quello intendiamo nuy in li facti d’esso Alexandro, te avisamo che novamente è venuto ad nuy uno di soi, quale è stato a Burge in Barì in corte dela maiestà del re, et dice come el dicto Alexandro è stato lì, dapoi è andato a Bruge dal duca de Burgogna et dal delfino, deinde s’è levato da là per andare in Ingalterra, sich’el ne pare vada a solazo et per vedere el paysse”. Per quanto dal punto di vista della cronologia vi siano alcune incertezze riguardo alle fasi del viaggio del fratello di Francesco Sforza (per esempio, il 7 aprile 1458 Sceva Corti scrive in una lettera al duca di Milano di avere “havuto da Pigello como el signor domino Allexandro, vostro fratello, se partì a XXII dì de marzo da Bruges […] e se ne vene per la via de Alamagna. È da presumere capitarà a Venexia et da Venexia a Pexaro”), di sicuro egli si è recato dal re di Francia e poi dal duca di Borgogna e dal delfino, mentre non è chiaro se sia andato anche in Inghilterra. Benché nella minuta dell’11 maggio con destinatario Marchese da Varese Francesco Sforza spacci il viaggio di Alessandro come avvenuto “senza nostra licentia et saputa”, lui era d’accordo perché ambiguamente il fratello si recasse prima da Carlo VII e in seguito da Filippo il Buono e dal delfino Luigi e quindi si alleasse con quest’ultimo in suo nome. Si noti che il primo accenno al viaggio è contenuto in una lettera presente alla fine del verso del foglio 356 del Registro delle Missive 29, datata 12 luglio 1457. Curiosamente essa è la prima epistola del Registro 29, su tre in totale, con destinatario “Orpheo de Ricavo”, il quale nel luglio del 1458 avrebbe avuto il compito insieme a Giovanni Caimi di confermare a Ferrante d’Aragona l’appoggio del duca di Milano e per le riflessioni sul cui nome, che richiama l’omonimo personaggio della mitologia greca e per assonanza il nome Morfeo, nella mitologia greco-romana figlio del Dio che personificava il sonno e lui stesso dio dei sogni, si veda la parte conclusiva del testo intitolato Passeggiata nella corrispondenza tra Francesco Sforza e Antonio da Trezzo. La sezione della lettera in cui si parla del fratello del duca di Milano è la seguente: “Venerà qui Alexandro, nostro fratello, quale ne ha scripto volere venire da nuy per tri o quattro di et poi andare ad Sancto Antonio. Nuy li havemo resposto che siamo contenti”. Il secondo accenno lo si trova subito dopo all’inizio del recto del foglio 357 in una missiva diretta proprio ad Alessandro Sforza, datata 13 luglio 1457, nelle cui prime due righe e mezzo si legge: “Havemo inteso la rechesta quale tu ne fay del venire tuo da nuy et stare qui tri o quattro dì et poi andare ad Sancto Antonio. Te respondemo ch’el ne piace vegni ad tuo piacere”. Un’altra curiosità è che la sigla del primo cancelliere delle due lettere risulta essere “Iri”, abbreviazione per “Irius”. Benché la forma non sia errata, colpisce che nella missiva che precede quella per Orfeo da Ricavo, diretta “Ludovico de Stavolis” e datata 13 luglio 1457, si legga “Irius”. Considerato che nel Registro 29 vi sono circa 280 occorrenze di “Irius” contro solo una quarantina per “Iri”, viene da domandarsi se non ci si voglia riferire a una sorta di metafora del viaggio del fratello del duca di Milano, che si reca dal re di Francia solo come meta paravento, come se con la contrapposizione “Irius”/“Iri”, forma quest’ultima priva della sillaba finale “us”, si volesse avvertire che il viaggio di Alessandro Sforza non dovrà considerarsi concluso presso Carlo VII, ma proseguirà oltre. Inoltre, quasi a conferma di quanto scritto sopra, nelle prime sei righe della lettera per Ludovico Stavoli è scritto: “Ne piace, rispondendo ala toa, che l’ambaxatore nostro te habia facto ogni possibile favore presso la illustrissima signoria de Venesia per consecutione dela toa heredità et crediamo pur che l’intentione de la prefata signoria sia che rasone habia loco, ma molto ne recrescie che li officiali de Padua te habiano tracta como tu scrivi”. Di nuovo viene da chiedersi se non vi sia una qualche relazione fra il sostantivo “consecutione”, che termina alla seconda riga con le lettere “consec”, proseguendo all’inizio della successiva con “utione” con un a capo senza dubbio particolare (soprattutto se si considera che il primo precedente si trova tra l’ottava e la nona riga nel verso della carta 355 ed è il corretto “dispo-sitione”, mentre il primo successivo si trova tra la seconda e la terza riga nel verso della carta 360 ed è il corretto “infor-mato), e il participio passato “tracta”, caratterizzato da un troncamento che sembra configurarsi come un errore, forse perché si vuole alludere al sostantivo “trattato” con il significato di “Accordo stipulato fra due o più entità politiche, prìncipi o Stati per regolare fra essi determinati rapporti o materie, assegnare obblighi o riconoscere diritti”, come si legge alla pagina 257 del XXI volume del Grande dizionario della lingua italiana.Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è schermata-2022-02-01-a-19.10.02.png

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All’avvenuta alleanza tra il duca di Milano e il delfino Luigi si accenna poi in modo simbolico nella parte conclusiva del Registro delle Missive 34 e in quella iniziale del Registro 44 con tre lettere riguardanti più o meno direttamente Pietro da Gallarate, uomo “imparentato con Bianca Maria Visconti”. Due missive si trovano nella parte finale del Registro 34. Nella prima, diretta “Domino fratri Georgio, ex comitibus Vallispergie” e datata 1° marzo 1458 (f. 375r), si legge: “Secundo che a dì passati ve scripssemo, de novo ve confortiamo et pregamo vogliati per l’arbitrio et auctorità vostra in queste parte, per respecto del’officio ad vuy concesso dal grande magistro de Rodi, ad contemplatione nostra provedere ad Achille di Stampi della comandaria de Urba vacata a dì passati per la morte del fratello de Petro da Pusterla, postponendo ogni altro respecto, segondo che anche habiamo commesso a Petro da Gallera’, nostro cortesano, quale è venuto ad quelle parte per la facenda doveti sapere, ve debia dire per parte nostra”. Francesco Sforza scrive a Giorgio Valperga, priore di Lombardia dei gerosolimitani, membri dell’ordine religioso-militare dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme la cui costituzione formale risale all’inizio del XII secolo dopo la prima crociata e che all’inizio del Trecento si sono stabiliti a Rodi. Lo prega di conferire ad Achille Stampa la commenda di Torre d’Orba, situata nell’alessandrino, vacante per la morte di Andrea, fratello di Pietro Pusterla, secondo quanto anche sentirà da Pietro da Gallarate, “quale è venuto ad quelle parte per la facenda doveti sapere”. Come vedremo, la “facenda” cui si riferisce il duca è l’imminente matrimonio dello stesso Pietro, il quale l’8 marzo invia da Poirino (comune in provincia di Torino) una lettera a Bianca Maria Visconti nella quale fra le altre cose si legge: “aviso la signoria vostra como domenicha circha le hore XVIII gionsemo qua et fussemo ricevuti molto honorevolmente et alegramente et subito prima che disnasemo fu fatto lo iuramento o benedictione etc.”. Pietro da Gallarate è dunque giunto a Poirino domenica 5 marzo e fra il 1° marzo, data della missiva sopra riportata per Giorgio Valperga, e il 5 dello stesso mese ha eseguito la sua missione presso il priore di Lombardia. La seconda missiva del Registro 34 cui si è accennato sopra è diretta proprio a Pietro da Gallarate e come la prima è datata 1° marzo 1458 (f. 375v). Essa non aggiunge nulla di nuovo rispetto alla precedente. Vi si legge infatti: “Non obstante che per nostre lettere nuy replicamo al reverendo meser fratre Georgio de Valperga, priore del’ordine ierosolomitano de Lombardia, che ad contemplacione nostra voglia conferire la comandaria de Urba, che fo del fratello de Petro da Pusterla, ad Achille di Stampi, dela quale, como tu say, dal canto nostro gline habiamo compiasuto, volemo et caricamoti che, retrovandote cum lo prefato domino Georgio, lo conforti et preghi per parte nostra ch’el ne voglia compiacere in questo”. Quello che qui preme sottolineare delle due missive del Registro 34 non è tanto la questione contingente relativa alla commenda di Torre d’Orba, quanto il fatto che mediante il riferimento ai gerosolimitani si mettano in connessione Gerusalemme, Pietro da Gallarate e il suo matrimonio, anche se quest’ultimo non viene menzionato in modo chiaro. Si arriva così a una missiva all’inizio del Registro 44, ai ff. 1v-2r, quindi in una posizione significativa, sempre diretta a Pietro da Gallarate e datata 15 marzo 1458, nella quale Francesco Sforza scrive: “ne piace sumamente che ti ne rendi bono testimonio de quello dici hay inteso continuamente da nuy, che una singulare dolceza sia ad prendere mogliere”. Qui il riferimento al matrimonio di Pietro diventa esplicito: si tratta delle nozze con “una donna della famiglia astigiana dei Roeri o de Rottaris” il cui fratello, “Francesco Royer di Genappe”, signore di Poirino, era un membro “of the Dauphin’s household” e in seguito divenne “balì di Lione e cancelliere e ciambellano di Luigi XI”. Poi il duca aggiunge: “Qui se dice che tu sey facto uno altro homo et che sey tuto transmutato de quello eri quando te partisti de qui, che al presente ti non fay se non radere et inbillare et sey iocundo, alegro tuto quanto et, quando eri qui, stavi tuto persso et malanconico, siché ognuno aspecta de vedati così transfegurato”. Le parole “transmutato” e “transfegurato”, che in sostanza hanno identico significato, costituiscono un riferimento alla Trasfigurazione, l’episodio descritto nei vangeli sinottici secondo il quale Gesù manifestò la sua natura divina ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni (in Mc 9, 1 è scritto: “et transfiguratus est coram ipsis”, mentre in Mt 17, 2: “et transfiguratus est ante eos”) e che era ben noto in quel periodo perché con la bolla Inter divinae dispositionis del 6 agosto 1457 papa Callisto III lo aveva inserito come festa nel calendario liturgico romano, da celebrarsi proprio il 6 agosto, in segno di ringraziamento per la vittoria ottenuta a Belgrado nel luglio del 1456 dall’ungherese Giovanni Hunyadi sui  turchi di Maometto II. Leggendo la missiva, il lettore capirà perfettamente che, associando Gerusalemme, Pietro da Gallarate, uomo “imparentato con Bianca Maria Visconti”, le sue nozze con “una donna della famiglia astigiana dei Roeri o de Rottaris” il cui fratello, “Francesco Royer di Genappe”, era un membro “of the Dauphin’s household”, e gli accenni nel lessico utilizzato alla Trasfigurazione di Gesù, la cui festa liturgica era stata da poco istituita, si intende invitarlo ad andare oltre le apparenze e cogliere la natura simbolica del matrimonio di Pietro da Gallarate, con il quale si vuole alludere all’alleanza stretta fra il duca di Milano e il Cristo/delfino. Per tornare alle lettere del sacco, inaugurate dall’intestazione “Iesus” della missiva del 19 gennaio, con i loro riferimenti al viaggio di Alessandro Sforza esse costituiscono senza dubbio indizi per far comprendere al lettore che il delfino Luigi si è alleato con il duca di Milano. Per proseguire, può essere interessante fare alcune altre osservazioni in merito al Registro delle Missive 29. Innanzitutto, piuttosto curiosamente, quello che pare essere il terzo accenno ad Alessandro Sforza, anche se non al suo viaggio, è di nuovo contenuto in una lettera diretta “Orpheo de Ricavo” e datata 16 agosto che occupa quasi interamente il verso del foglio 369 (nel numero della carta 370 il “7” risulta scritto su un “8”). Successivamente la figura del fratello del duca di Milano si incrocia, per così dire, con quella di Francesco Coppini, che in una lettera del Registro 38 risulta giunto a Milano per motivi legati alla celebrazione della festa religiosa della Trasfigurazione. Innanzitutto, in una missiva datata Mediolani, VIIII septembris 1457” presente all’inizio del recto del foglio 379 e diretta “Commissario, potestati et officialibus super peste Parme”, con l’aggiunta alla fine di essa di “Die suprascripto in suprascripta simili forma scriptum fuit potestati, officialibus bulletarum et portus Placentie”, si legge quanto segue: “Alexandro, nostro fratello, de presente vene in queste parte de qua per visitarne, per la quale cosa, per observatione deli ordeni nostri facti sopra la peste, volimo et ve comettimo che, dicendo luy sopra la conscientia soa non essere stato luy né veruno delli soy in loco alcuno morboso né infettato de peste, el lassati passare liberamente con tucti li soi; dicendo luy essere stato o vero havere facto transito per loco morboso, volimo el faciate soprasedere et ne avisate per vostre lettere del tutto”. Poi all’inizio del verso del foglio 381 vi è una lettera per “Domino Francisco Capino, apostolice sedis legato commissario” datata “Mediolani M, die XIIII° septembris 1457”. nelle cui prime diciotto righe e mezzo è scritto così: “Perché ad noy è summamente necessario havere ogni cura et diligentia possibile ad conservare el paese nostro sano de la peste et contagione, et maxime questa cità, che è la principale et dove faciamo più continua cont resydentia noy et la illustre nostra consorte et nostri figloli, non possiamo fare che non avisamo la reverentia vostra di nostri ordeni sopra ciò et rendiamone certissimi che non vi serà molesto et piglarete ogni cosa ad bono b fine. Il perché, sentendo nuy che in questa vostra cavalcata da Roma in qua haveti pur tochato de le terre et luochi suspecti, confortiamo la prefata vostra reverentia che non gli sia grave ad fare quello che fano tutti li altri, fin ad Alexandro, nostro fratello, et nostri messi che mandiamo atorno, zoè non possano passare de qua da Po finché non sia passato el tempo suspetto, avisandovi ch’el dicto Alexandro ha solicitato più de dui mesi passati de venire a Milano, che non gli l’havemo voluto consentire et è necessario che pigli la volta per mare et schiffi ogni loco contagioso s’el vorrà venire et così fanno li altri nostri che mandiamo in zoso, che non passano Po finché non passi el dicto termine”. Tra la fine del verso del foglio 381 e circa la metà del foglio 382 vi è poi un’epistola con l’indicazione “Data ut supra” diretta “Comissario Parme et officiali bulletarum ibidem” (chi ha un minimo di famigliarità con i Registri delle missive non potrà non trovare inconsueta nell’indicazione del destinatario quest’ultima parola, la cui “i” iniziale non è peraltro di agevole lettura) al termine della quale è aggiunta la seguente nota redazionale: “In simili forma scriptum fuit potestati et officiali bulletarum Placentie”. In essa si parla di nuovo di Francesco Coppini e della peste. Segue quindi una lettera per il “Castellano arcis Burgi Sancti Donini” datata “Mediolani, XV septembris 1457” che pare smentire quanto appena letto. In essa infatti è scritto: “Deve arivare lì Alexandro, nostro fratello, et, gionto serà lì, volemo el lassi intrare et allogiare luy et i soy dentro in quella nostra forteza, quale honoraray et carezaray tanto quanto la persona nostra. Et questo faray senza resistencia et dubitatione alcuna”. Prima di passare al Registro 38, può essere il caso di notare che un’altra smentita la si trova all’inizio del recto del foglio 384 in una missiva diretta “Magnifico domino Alexandro Sfortie” datata “Mediolani, XXII septembris 1457”. In essa infatti si legge: “Havemo inteso che tu sey zonto al Borgo San Donino, che molto n’è piaciuto. Quantunche per ordine generale sia prohibito che neuno che venga dale parte de sotto ove è stato et è infectione o contagione de peste possa venire a questa nostra cità passati alcuni dì, nientedemeno, intesa la rechiesta toa et per compiacerte, siamo contenti che possi venire da noy con sey, octo o dece al più delli toy, cioè de quelli che sii certo non siano stati in loco infecto nì parlato con alcuni de li dicti lochi, de che molto te ne caricamo, avisandote che noy te mandiamo qui alligata la licenzia opportuna”. Dopo la data è poi aggiunta la seguente nota redazionale: “Similiter dicto magnifico Alexandro concessa fuit licentia veniendi Mediolanum cum personis decem aliquo ordine in contrarium non attento. Mediolani, ut supra”. A questo punto possiamo passare al Registro 38, dal quale, come detto, il viaggio di Francesco Coppini risulta essere in sostanza in relazione alla celebrazione della festa della Trasfigurazione. Nella seconda lettera presente nel verso del foglio 193, diretta “Dominis de Consilio Secreto” e datata 31 ottobre 1457, si legge infatti: “El venerabile domino Francesco Copino, commissario apostolico, quale a hora credemo se trova lì da voy, fo questi dì qui da nuy et ne presentò uno breve de nostro Signore insieme cum una bolla, le quale mandiamove qui alligate, et poy ne dixe a bocha per parte dela sanctità sua che volessimo fare celebrare et festare per tutto el dominio nostro el dì dela Transfiguratione de nostro Signore Yesu Christo cum quelle più iubilatione et solemnità che ne sia possibile, como in esso breve et bolle se contene, per la qual cosa, volendo nuy obedire ala prelibata sanctità como sempre havimo facto, dicimo che, da poy havereti inteso la continentia de dicti breve et bolla, debbiati essere insieme con lo reverendissimo monsignore l’arcivescovo et cum quelli del chiericato che vi parerà per discernere et intendere li modi che sopra ciò se hanno ad servare, tam in el diocesi milanese quam per lo resto del dominio nostro, per fare solemnitate quanto la sanctità de nostro Signore commanda. Et del parere vostro poy subito ne avisareti prima che se proceda ad cosa alcuna”. Considerato quanto scritto sopra, si concorderà essere piuttosto curioso che nel Registro 29 il viaggio di Alessandro Sforza, diretto apparentemente solo a Sant’Antonio di Vienne, mentre poi andrà presso Carlo VII e in Borgogna, si incroci con quello di Francesco Coppini a Milano, dove dal Registro 38 veniamo a sapere “presentò uno breve de nostro Signore insieme cum una bolla […] et poy […] dixe a bocha per parte dela sanctità sua che volessimo fare celebrare et festare per tutto el dominio nostro el dì dela Transfiguratione de nostro Signore Yesu Christo cum quelle più iubilatione et solemnità che ne sia possibile, como in esso breve et bolle se contene”. Prima di proseguire con alcune considerazioni relative al Registro 38 a partire dalla missiva riguardante Francesco Coppini, riteniamo opportuno concludere le osservazioni sul Registro 29. In primo luogo alla fine del verso del foglio 418 è riportata una lettera datata 2 dicembre 1457 diretta “Potestati Turricellarum”, con l’indicazione alla fine di essa “In simili forma potestati Burgi Sancti Donini. Datum ut supra”. In essa è scritto: “Intendemo che sono capitati lì alcuni cavalli de quelli de Alexandro, nostro fratello, quali vengono da luy. Però volimo che, subito, havuta questa, gli dighi per nostra parte che doy de loro senza demora né exceptione alchuna debiano venire qui da noy. Et, adciò te credano, gli monstraray questa nostra lettera”. È il momento in cui Alessandro Sforza, dopo essere andato a Sant’Antonio di Vienne, si è recato presso il re di Francia apparentemente all’insaputa del duca di Milano. Al proposito può essere interessante rilevare che in una lettera di Sceva Corti inviata da Milano e datata 8 novembre 1457 si legge quanto segue: “Licet io spera che forsi per altra via la vostra excellentia l’haverà sentito, que è dicto, e me l’ha dicto cum grande admiratione ser Michele da Pixaro, como el signor misserr Allexandro, vostro fratello, è andato da la maiestà del re de Franza. Se luy l’ha facto cum saputa e voluntà de la vostra excellentia, como m’è dicto da persona digna de gran fede, me ne piace, quamvis pur me para non porrà forsi essere senza adumbratione de la maiestà del re d’Aragona e forsi anche de venetiani. Si vero l’ha facto contra vostra saputa, se è andato a scavizare el collo da se stesso e pocha stima se farà de la signoria sua. E quanto per me, me pare ch’el sia stato mal consiglato”. Si noti che nel verso del foglio 418 gli accostamenti sono quanto mai curiosi. La prima missiva è diretta infatti “Marchexio de Varixio” e precede la seguente nota redazionale, che a sua volta precede la lettera in cui si parla di Alessandro Sforza: “Facte fuerunt littere credentiales in personam domini Seve de Curte et domini Petri de Becaria infrascriptis, videlicet: illustrissimo domino duci M Venetiarum, illustrissimo domino duci Mutine, illustrissimo domino marchioni Mantue. Mediolani, III dicembris 1457”.

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Per comprendere quest’ultima nota, bisogna considerare la minuta datata 1 dicembre 1457 nella quale risulta come destinatario “Marchesio de Varisio”. Nel suo secondo capoverso si legge: “Perché a Venesia venerano molti ambassatori per condolerse de la morte del .. duce et congratularse de la nova electione de questo altro, quantunche siamo certi el farai, nientedemeno te lo ricordiamo et te commettiamo et volemo che continuamente ne vogli tenere avisati de tuti quelli ambassatori che sono zonti fin a questa hora et che venerano da mo inanze”. All’inizio del terzo capoverso è poi scritto: “Nuy havemo spazati li nostri ambassatori, cioè messer Seva da Corte et messer Petro da Becharia, quali se partirano sabato proximo che vene et venerano per aqua et zonzarano là assai presto”. Si ammetterà essere curioso, come detto, che il viaggio di Alessandro Sforza, dopo essersi incrociato con quello di Francesco Coppini, si incroci anche con la missione a Venezia di Sceva Corti e Pietro Beccaria, i quali hanno evidentemente il compito di “condolerse de la morte del .. duce et congratularse de la nova electione de questo altro”, ossia Pasquale Malipiero. Prima di procedere con l’ultima considerazione in merito al Registro 29, può essere il caso di osservare che nel primo, nel secondo e nel quarto capoverso della copia di una lettera di Pietro Beccaria inviata da Pavia e datata 20 marzo 1458 a proposito dell’arcivescovo di Sant’Antonio di Vienne si legge così: “Magnifico domino Cicho mio. Per quanto scrivo al nostro illustrissimo signore intenderete la impositione me ha facto questo monsignore lo archiepiscopo de Vienna, quale è un singulare prelato et amico del nostro signore. Ma, adciò intendiate el tutto, suspico se voglia partire, perché ha da varii lochi degni et continuamente ch’el re de Franza è leproso et molto infermo et como, facendose portare da loco ad loco, per conseglio de medici, passando per turonensem civitatem, adciò non fosse veduto, fe’ dare una grida de grande pena: se serrasse nel suo passare tutte le porte et fenestre. Siché crede non debbia campare troppo tempo. Il che più crede perché dice, secundo un iudicio ha el delfino della vita de suo patre: ‘el tempo se approxima molto molto’. Siché io credo queste siano le casoni del suo partire, che più me fa credere una littera gli scrive uno suo fratello e con el delphino, che gli sole scrivere de raro et pocho, nella quale el conforta questo monsignore ad fare de bona voglia et apparechiato, che tosto harano bonissime novelle et poi poterano fare correre quilli hano facto loro troctare. Et, devendo accadere queste cose, se vorria trovare ad casa etc. Et per queste cose supradicte luy crede sia impossibile lo accordo del re al delfino. Benché zà più dì passati fosse avisato de certa forma de accordo la quale seria longa dal scrivere, luy crede ch’el delphino voglia vedere el fine del patre, non facendo dubio che ogni cosa gli succeda ad vota. […] Già più dì passati el dicto monsignore, non monstrando de farsene caso, più volte replicate me ha dicto voglia confortare el signor nostro voglia in questa adversità del suo signore farlo visitare o per littere o per altra via secreta et fargli fare offerte generali, perché sempre le haverà fixe nel animo, et, quando fosse in altro stato, se ne arecordaria et haveria queste offerte tanto care como s’el havesse recevute, perché se fa grande caso de simili offerte gli sono facte. Et seria questo uno bono principio ad fare bona et perfecta amicitia tra el signore nostro et il suo. Siché dicete al signore nostro quanto ve pare in questo”. All’inizio del quinto e ultimo capoverso si accenna persino a Ludovico Bolleri. È scritto infatti: “Se havete qualche bona nova de domino Aluisi Boler, vogliate fare aviso al dicto monsignore, perché è suo amicissimo”. L’ultima osservazione in merito al Registro 29 è la seguente. La prima epistola diretta a Orfeo da Ricavo dopo quella nel verso del foglio 346 datata 12 luglio 1457 in cui vi è il primo accenno al viaggio di Alessandro Sforza si trova nel verso del foglio 362 (quindi prima del terzo accenno al fratello del duca di Milano contenuto in una missiva come sappiamo diretta allo stesso Orfeo da Ricavo datata 16 agosto e presente nel verso del foglio 369). In quest’ultima, datata 18 luglio 1457, si legge: “Havemo recevuto le toe lettere et inteso quello ne scrivi di quanto è sequito cum quillo magnifico signore de Cexena et cum la magnifica madonna Violante. Restiamone avisati et non accade dire altro, se non che aspectiamo essere avisati da ti per altre toe lettere como la cosa sia seguita el dì de la Magdalena como. Como tu scrivi circa l’altre cose et del tuo stare lì o venire qua da noy, ne referimo ale altre nostre lettere che pochi dì sono te scripsimo”. A parte la strana ripezione di “como”, con l’espressione le “altre nostre lettere che pochi dì sono te scripsimo” ci si riferisce proprio alla missiva nel verso del foglio 346, nella quale, subito dopo avere parlato di Alessandro Sforza, è scritto: “quando cognosceray quelle cose havere preso bona forma et essere senza periculo, poteray ritornare da nuy, perché, quando sarà data questa executione ordinato, non crediamo ch’el stare tuo sia necessario et haveremo più caro sii qui, salvo se extremo bisogno li fosse et conoscessi li fosse periculo, che credemo de non, in quello caso te governi segondo te parirà il bisogno”. Le due lettere a Orfeo da Ricavo sono quindi associate e nella prima il tema che le unisce è preceduto da un accenno al viaggio di Alessandro Sforza. Anche in questo caso risulta in effetti abbastanza curioso che la seconda missiva, che è la terza nel verso su quattro, sia preceduta da una datata 28 luglio 1457 diretta “Episcopo Parme” (si tratta della settima e ultima lettera con questo destinatario nel Registro 29), ossia Delfino Della Pergola, la cui figura, come accennato nel testo intitolato Da una prova esterna a due errori di datazione serve per alludere al delfino Luigi. [continua]

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La “corrispondenza sommersa”, l’alleanza sabaudo-sforzesca e le carte da trionfi

In uno scritto precedente ho accennato alla lettera in cifra del 18 aprile di Corradino Giorgi nella cui parte finale in chiaro si accenna alla non buona situazione in cui si troverebbe Francesco Tomatis, ma, come detto, questa è la “storia alla rovescia”. Nella realtà, poiché Francesco Tomatis è sinonimo di alleanza sabaudo-sforzesca, lasciando nientemeno che in chiaro le parole che lo riguardano si vuole far capire come la lega sia ormai giunta a un ottimo punto. Si ricorderà inoltre l’accenno alla comunicazione orale contenuto in quelle parole in chiaro. Vediamo di approfondire questi argomenti. Credo che il punto di partenza migliore sia costituito dalla minuta di Francesco Sforza datata 6 aprile di cui ho già parlato. In essa a un certo punto il duca scrive: “Quanto al facto de quello te ha dicto messer Zohanne da Compenso, del fare liga et intelligentia con quello .. signore, dela qual cosa tu ancho ne scrive sperare che ne seray rechiesto”. Il problema è che una lettura puntuale consente di verificare che nelle quattro lettere di Corradino Giorgi di cui viene segnalata la ricezione nella minuta di Francesco Sforza datata 6 aprile l’ambasciatore ducale non esprime alcuna speranza rispetto all’alleanza sabaudo-sforzesca, limitandosi ad avvisare in una missiva del 14 marzo in cui l’argomento compare per la prima volta “che fra pochi dì questo signore me farà atastare sc’el XX me bastarea l’animo de pratichare liga fra la signoria vostra et soa, il perché prego la signoria vostra gli piaza farme advisato, sce fido temptato de ciò, como me debia gubernare e quelo debio respondere, avisando la signoria vostra che l’animo me basta”. Con l’anomalia manifestata dalle parole “tu ancho ne scrive sperare che ne seray rechiesto”, significativamente connessa all’importante tema della lega fra i due duchi, Francesco Sforza lascia trasparire l’esistenza di una “corrispondenza sommersa” fra lui e il suo ambasciatore, di cui non si è conservato nulla, nella quale scorrevano le immagini del reale stato delle relazioni politiche ducali, non coincidente con la “storia alla rovescia”, anche se quest’ultima lo lascia trasparire. Questa corrispondenza sotterranea ha inoltre permesso alla cancelleria milanese di ideare le minute in un secondo momento spedite a Corradino Giorgi, di cui quest’ultimo si è poi servito per redigere le lettere a lui assegnate nell’epistolario. Ma proseguiamo. Nella stessa minuta ducale del 6 aprile il duca scrive: “dicemo che in questo non volemo te scaldi più come bisogna”. Questa affermazione non stupisce, in quanto è sul piano della “storia alla rovescia”. Interessa invece quanto viene aggiunto subito dopo: “ma, se pur esso messer Zohanne o altri per parte di quelo illustre signore te ne dicesse altro, responderagli che tu ne hai avisato del tuto et che tu vorressi te desseno inscripto quello che vorriano et le particularitate dela dicta liga, aciò che meglio ne possi informare del tuto, et con questa via tenerai la cosa in pratica finché te scriveremo altro”. Questo accenno alla necessità che Jean de Compey metta per iscritto quanto concerne la proposta di alleanza fa sorridere, perché nel secondo capoverso della stessa minuta è scritto: “Piacene habii facto intendere a quello illustrissimo signore .. duca l’effecto dele nostre lettere quale te scripsimo ali dì passati et che la signoria soa habia havuto caro et accepto quanto gli hai dicto per nostra parte et deli modi per ti servati circa de ciò similmente te commendiamo, ma, perché dici che la signoria soa te ha rechesto de dargli inscripto quello gli hai exposto viva voce a nostro nome et tu gli hai resposto de volere avisarne nuy se siamo contenti che glilo daghi o non, dicemo ch’el ne saria stato molto più grato non gli havessi dicto de scriverne a nuy et bastava havere facto la scusa toa honestamente. Pur come se sia, volemo non ne faci più parolle et, se la signoria soa te ne dicesse più niente, digli pur largamente dela bona et perfecta dispositione nostra et che sempre faressemo in l’honore et beneficio del stato suo molto più che non havemo dicto et che non è costume de dare inscripto simile cose, ma che gli debe bastare havere inteso l’animo et dispositione nostra verso la signoria soa, quale non poteria essere megliore, et non debe volere el carico nì la vergogna toa, non monstrando haverne scripto alcuna cosa de questo nì de haverne havuto resposta da nuy, come saperai molto ben fare”. Riassumendo: su mandato di Francesco Sforza Corradino Giorgi ha fatto un’ambasciata al duca di Savoia, il quale ha richiesto all’inviato sforzesco di mettere per iscritto quanto era stato esposto “viva voce”. L’ambasciatore sforzesco ha quindi rivolto la richiesta al duca di Milano, che però non ha gradito affatto l’operato del suo inviato. Poiché il tema dell’ambasciata da fare a “viva voce” pare centrale, è necessario riprenderlo dall’inizio. Esso risale a una minuta del 26 febbraio. In quest’ultima si legge: “per uno araldo de quello illustrissimo signore [il duca di Savoia] ne è portata una littera dela excellentia soa de dì VII, dela quale per più toa chiareza te ne mandiamo qui inclusa copia, et, perché la natura de tale materia come tu intenderai è importantissima, habiamo deliberato ad la soa excellentia non fare altra particulare et distincta resposta per littere, ma per una breve resposta nostra ne referemo ad quello che scrivemo et commettemo ad ti che gli refferissi per nostra parte, come etiam vederai per la copia inclusa, dela quale l’originale reporta esso araldo”. La “resposta” cui accenna Francesco Sforza si trova nel Registro delle Missive 34, f. 373r, dove si legge in una lettera datata 24 febbraio: “His intellectis que per litteras excellencie vestre sub die VII presentis mensis scriptas et ab araldo hoc suo nobis redditas referentur, serenissimum silicet regem Sicilie adversus vos arma parare”. Renato d’Angiò minaccia quindi di attaccare Ludovico di Savoia. Si noti che le due lettere successive di Missive 34 riguardano la faccenda di Sezzadio e sono dirette una “Comuni et hominibus terre Sazaii”, nella quale ricorrono i termini “numerare” e “numerandoli”, e l’altra “Referendario Alexandrie”, nella quale è presente la parola “numerare”: si tratta dei consueti riferimenti velati al conteggio delle “prese” e quindi alla “storia alla rovescia”. A proposito di “storia alla rovescia” proprio la minuta del 26 febbraio di Francesco Sforza si può considerare un capolavoro. In essa, infatti, fra le altre cose si legge: “consyderando che per scrivere de soa excellentia non se specifica alcuna particulare cagione deli movimenti dela prefata serenità del re de Sicilia et examinando fra nuy sopra tale materia, ne era caduto in pensero se forse la soa serenità, como reputandosi offesa per la presa de domino Aluyso Bollero, suo feudatario, deliberasse con arme vindicare tale novitade, quale se ascrive ad iniuria, et, quando questa fosse la cagione, nuy per l’affectione et convinctione nostra fiducialmente gli saperiamo ricordare et confortare che non volesse per questa picola cosa lassare accendere uno grande fuoco, ma volesse lassare dicto domino Aluyse et alleviarsi dal carico quale gli potesse essere dato sì presso ad la maiestà del re de Franza, ala quale, per quanto possiamo comprehendere etiam per lo scrivere tuo, non è piaciuta la novitade facta contra dicto domino Aluyse (et pare assay apertamente cossì essere, se è vero che mandi ad farlo liberare et restituire ad le cose soe), et similiter presso ad lo prefato re di Sicilia et ad altri principi et signori, el che speramo seria sufficiente remedio ad avertere questo inconveniente”. Francesco Sforza simula di pensare che al re di Francia, “per quanto possiamo comprehendere etiam per lo scrivere tuo, non è piaciuta la novitade facta contra dicto domino Aluyse (et pare assay apertamente cossì essere, se è vero che mandi ad farlo liberare et restituire ad le cose soe)”, quando sa perfettamente che è proprio lui il mandante della cattura di Ludovico Bolleri, con l’appoggio di Renato d’Angiò, e che gli ambasciatori francesi giunti in Savoia non dovevano per nulla liberarlo, ma portarlo di fronte a Carlo VII, dove non era ben chiaro quale sarebbe stata la sua sorte. Si obietterà: ma quale “storia alla rovescia”! Nel documento è contenuta l’ambasciata che Corradino Giorgi deve realmente fare al duca di Savoia! Eh no, perché in un post scriptum dello stesso 26 febbraio il duca precisa: “Volemo che questa ambassata facci ad quello signore in secreto et, s’el te fosse rechiesto che tu la mettessi inscripto o vero che tu la refferissi denanzi al suo Consiglio, excusati como da ti che tu non hai commissione de fare tale relatione se non con la soa excellentia et, quando pur tu venissi a dire alcuna cosa denanzi al dicto Consiglio, guarda ad porgere le parole toe cossì limitate et con tanta discretione che non possa farsegli interpretatione che ne arecasse alcuno carico, presertim presso al serenissimo re de Sicilia quando ne havesse notitia”. Poiché il Consiglio sabaudo è diviso e in esso vi sono le “guardie”, l’ambasciata deve essere fatta in segreto al duca di Savoia e senza che sia messa per inscritto, perché i suoi reali contenuti non sono quelli di cui si parla nella minuta del 26 febbraio, ma riguardano l’alleanza fra i due duchi, oggetto degli incontri tra Corradino Giorgi, Jean de Compey e Giacomo Beretta/Francesco Tomatis sin dal gennaio precedente con la scusa di una “differentia“ fra Jean de Compey e Giacomo Beretta (senza tener conto della missiva del Registro 34 del 28 luglio 1457 a Francesco Tomatis di cui si è già parlato). E a sottolineare la differenza fra ciò che risulta messo per iscritto nella “storia alla rovescia” e quanto invece comunicato oralmente è il fatto che il tema del mettere per iscritto l’ambasciata  percorre le lettere successive, divenendo motivo di rimprovero da parte di Francesco Sforza verso il suo ambasciatore, che invece in realtà ha agito perfettamente. In una lettera del 14 marzo l’ambasciatore scrive infatti: “A dì octo del prescente ho ricevuto le littere dela signoria vostra, la cui continentia ho intexa molto bene, et in execucione de quele ha questo signore ho facto intendere lo X effecto de esse littere et usato, ale parte de substantia, le parole formale dele littere dela signoria vostra, XX il perché sc’è dimostrato molto contento he alegro, dicendo che non ha retrovato in la signoria vostra se non quelo non solum sperava ma eXXra certo, del che molto sce ne rendea obligato he ne regratiava la signoria vostra, offerendo sé semper parigiato in caduno adiuto, favore e servitio dela signoria vostra, ma, perché eran pur aalcuni de questi soi dicevano la la signoria vostra non havere dispositione e quelo amore verso soa signoria che demostrava la signoria vostra, aciò glilo potesse demostrare e farli mentire he anchora como era de costu[mo] suo, me disse gli desse in[sc]ripto quelo che oretenus gli havea explicato per parte dela signoria vostra. Io gli rispose, subridendo, ch’era certo soa signoria non me rechederea cossa me havesse rendere vergogna, però che non havea comiscione de cusì fare, il perché pregava soa signoria me perdonase he me havese per excuso, e romaste soa signoria contenta, sed tamen me prega volese scrivere la signoria vostra fosse cumtent gli desse inscripto, como ho sopradito”. A parte la beffarda precisazione di avere “usato, ale parte de substantia, le parole formale dele littere dela signoria vostra”, quando si sa perfettamente che le parole dell’inviato sono state ben diverse rispetto a quelle delle “littere dela signoria vostra”, il duca di Savoia richiede di mettere per iscritto l’ambasciata e Corradino Giorgi replica “che non havea comiscione de cusì fare”. Ludovico di Savoia accetta la risposta dell’ambasciatore, ma lo prega lo stesso di scrivere a Francesco Sforza che “fosse cumtent gli desse inscripto”. Si arriva così alla minuta di Francesco Sforza datata 6 aprile in cui al proposito si legge quanto già scritto sopra, che riporto qui per ulteriore chiarezza: “Piacene habii facto intendere a quello illustrissimo signore .. duca l’effecto dele nostre lettere quale te scripsimo ali dì passati et che la signoria soa habia havuto caro et accepto quanto gli hai dicto per nostra parte et deli modi per ti servati circa de ciò similmente te commendiamo, ma, perché dici che la signoria soa te ha rechesto de dargli inscripto quello gli hai exposto viva voce a nostro nome et tu gli hai resposto de volere avisarne nuy se siamo contenti che glilo daghi o non, dicemo ch’el ne saria stato molto più grato non gli havessi dicto de scriverne a nuy et bastava havere facto la scusa toa honestamente. Pur come se sia, volemo non ne faci più parolle et, se la signoria soa te ne dicesse più niente, digli pur largamente dela bona et perfecta dispositione nostra et che sempre faressemo in l’honore et beneficio del stato suo molto più che non havemo dicto et che non è costume de dare inscripto simile cose, ma che gli debe bastare havere inteso l’animo et dispositione nostra verso la signoria soa, quale non poteria essere megliore, et non debe volere el carico nì la vergogna toa, non monstrando haverne scripto alcuna cosa de questo nì de haverne havuto resposta da nuy, come saperai molto ben fare”. Ma nella stessa minuta, come si ricorderà, “Con l’anomalia manifestata dalle parole ‘tu ancho ne scrive sperare che ne seray rechiesto’, significativamente connessa al centrale tema della lega fra i due duchi, Francesco Sforza lascia trasparire l’esistenza di una ‘corrispondenza sommersa’ fra lui e il suo ambasciatore”. In questo modo si vuole confermare che l’ambasciata effettuata a voce l’8 marzo da Corradino Giorgi presso il duca di Savoia non è quella riportata nella minuta del 26 febbraio di Francesco Sforza: l’ambasciata realmente effettuata era spiegata dal duca al suo inviato nella “corrispondenza sommersa” che non ci è pervenuta e così si spiega “la differenza fra ciò che risulta messo per iscritto nella ‘storia alla rovescia’ e quanto invece comunicato oralmente” cui ho accennato sopra in merito all’ambasciata dell’8 marzo di Corradino Giorgi. Quanto comunicato a voce dipendeva appunto dalla “corrispondenza sommersa” fra il duca di Milano e il suo inviato e l’insistenza sul tema del mettere per iscritto l’ambasciata è un modo beffardo per far riflettere il lettore sul fatto che essa fu diversa da come viene descritta nella “storia alla rovescia”. Può essere il caso di rilevare che, se della “corrispondenza sommersa” non si è conservato nulla, un discorso analogo si può fare che per l’alleanza sabaudo-milanese. Per ora direi di potermi fermare qua, anche se, prima di concludere, vorrei rilevare un ultimo aspetto. Alla fine della minuta del 26 febbraio di Francesco Sforza di cui si è parlato sopra si legge: “Et ulterius gli [al duca di Savoia] ricordaray che in omnem eventum, quando paresse a sua signoria che nuy se interponissemo con la prefata maiestà, lo faremo non solo con littere et con messi, ma etiam con solenni ambassatori, s’el serà mestero”. L’allusione al fatto che, “quando paresse a sua signoria”, il duca di Milano sarebbe disposto a interporsi con il re di Francia per mezzo di “littere” pare piuttosto sibillina, perché sembra riferirsi a quanto Francesco Sforza sta già facendo con la “storia alla rovescia”. Al riguardo nella sua lettera del 14 marzo Corradino Giorgi non risponde. Proprio il 14 marzo l’ambasciatore scrive però una missiva a Bianca Maria Visconti: “Retrovandome con questo illustrissimo signor, me ha pregato vogla scrivere e pregare vostra signoria per parte de essa soa signoria che ve piaza mandare a madama soa fema uno paro de carte da trionfi de quelle belle sce fano in quelle parte he uno paro a madama Maria he uno altro a madama Bona, soe figlie, et maxime a madama Maria, quale hè de vostra signoria, aciò che possa essa intendere he comprendere esser figlia de vostra signoria”.

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Poiché riferito alle carte da trionfi il termine “paro” significa “mazzo”, Ludovico di Savoia risulta richiedere a Francesco Sforza tre mazzi di questo tipo di carte. Può essere il caso di precisare che uno “paro de carte da trionfi” è formato da 78 carte, suddivise in 56 carte di quattro semi (denari, coppe, bastoni, spade, ciascuno diviso in dieci carte numerali più fante, cavallo, regina e re), e 22 dette trionfi che prevalgono su tutte le carte di seme e recano i seguenti soggetti: Bagatto, Papessa, Imperatrice, Imperatore, Papa, Amanti, Carro, Giudizio, Eremita, Ruota della Fortuna, Fortezza, Appeso o Impiccato, Morte, Temperanza, Diavolo, Torre, Stella, Luna, Sole, Giustizia, Mondo e Matto. Come si legge nel saggio di Franco Pratesi intitolato Il gioco italiano dei Tarocchi e la sua storia, per giocare, “si mette in tavola una carta alla volta, con l’obbligo di rispondere al seme o di tagliare con le briscole, che in questo caso sono fisse e rappresentate dai trionfi”. Alla pagina 149 di Il mondo e l’Angelo. I Tarocchi e la loro storia Michael Dummett spiega che “Una presa contenente uno o più trionfi è vinta dal trionfo più alto, mentre una presa senza trionfi è vinta dalla carta più alta del seme della prima carta”: si tratta del classico gioco di prese, in cui i trionfi sono le carte da presa per eccellenza. Alle parole riportate sopra l’inviato sforzesco aggiunge: “E sapia vostra signoria che uso le parolle formale quale soa signoria me ha usato”. L’espressione “parolle formale” richiama la beffarda precisazione di Corradino Giorgi nella sua lettera sempre del 14 marzo in merito all’ambasciata da lui effettuata presso il duca di Savoia cui si è accennato sopra, ossia di avere “usato, ale parte de substantia, le parole formale dele littere dela signoria vostra”¸ riferendosi alla minuta ducale del 26 febbraio, e crea dunque una connessione fra i mazzi di carte da trionfi, che, come detto, sono un gioco di prese, e le missive della corrispondenza tra Francesco Sforza e il suo inviato in Savoia, permettendo di identificare i primi con le seconde, entrambi caratterizzate da prese, che nel caso delle lettere diventano ricezioni. Francesco Sforza fa dunque capire al lettore, ammesso che non l’abbia già compreso da sé, che, quando nel primo capoverso dell’enigmatico documento intitolato “Lo modo da dare la polvere da far dormire le guardie etc.” scrive che “Le prese sono X”, intende dire che le ricezioni delle missive di Corradino Giorgi da parte sua sono dieci. Poiché a gennaio il duca di Milano non può sapere che nel maggio successivo, quando termina lo scambio epistolare, le “prese” sarebbero state dieci, si è in presenza di un’implicita dichiarazione di non autenticità della corrispondenza: quei documenti che sembrano lettere non sono lettere, ma sono stati ideati presso la cancelleria ducale per essere esibiti. Benché dunque non abbiamo una risposta esplicita alla proposta sforzesca di interporsi con missive presso il re di Francia, con la richiesta dei tre mazzi di carte da trionfi si vuole far capire che Ludovico di Savoia ha risposto affermativamente e il risultato sono le lettere concatenate fra loro delle “prese” con la loro “storia alla rovescia” e i minacciosi riferimenti alla Pasqua e dunque alla simbolica Resurrezione del Cristo/delfino. I due duchi procedono dunque di comune accordo. Si potrebbe però avanzare anche un’altra ipotesi. Come si è detto, il termine “paro” riferito alle carte da trionfi significa “mazzo”, ma è anche vero che in generale può voler dire “paio” e quindi non si può escludere che si giochi su questa ambiguità. Il duca di Savoia risulterebbe pertanto richiedere sì tre mazzi, ma anche in un altro senso sei carte da trionfi, che, come detto, sono carte da presa per eccellenza, e l’espressione “parolle formale” utilizzata da Corradino Giorgi nella lettera a Bianca Maria Visconti, che richiama la precisazione dell’inviato ducale in merito all’ambasciata da lui effettuata presso il duca di Savoia di avere “usato, ale parte de substantia, le parole formale dele littere dela signoria vostra”¸ vorrebbe attirare l’attenzione sulla minuta ducale del 26 febbraio. Perché? Perché le minute di Francesco Sforza nella corrispondenza con l’inviato in Savoia sono sei e quindi si vuole suggerire al lettore di considerare le sei minute ducali come le sei carte da trionfi richieste da Ludovico di Savoia interpretando il termine “paro” come “paio”, nelle quali Francesco Sforza segnala le “prese”, ossia le ricezioni, delle lettere del suo ambasciatore. In ogni caso, che si intenda il termine “paro” come “mazzo” o come “paio”, il senso generale non cambia: il termine “prese” del documento sulla polvere va inteso come ricezioni di missive del suo inviato da parte di Francesco Sforza e pertanto, come detto, il documento è un’implicita dichiarazione di non autenticità della corrispondenza in cui è inserito. D’altra parte, come si può leggere qui, nel Registro delle Missive 34 la lettera datata 26 ottobre 1457 il cui destinatario è “Georgio de Conradinis parte Cichi etc.”, ossia Corradino Giorgi ma con il nome e il cognome riportati al contrario, che abbiamo rilevato essere un’allusione rivolta al lettore riguardo al fatto che la corrispondenza con l’ambasciatore costituisce una “storia alla rovescia”, è preceduta da una missiva diretta ad Abramo Ardizzi e datata 25 ottobre 1457, che riguarda una questione di soldi che la comunità di Sezzadio deve consegnare a Ludovico Bolleri e che si trascina da alcuni mesi, nella quale non a caso il verbo “numerare” ricorre due volte accanto a “numerato”, a sottolineare il fatto che in relazione a “Georgio de Conradinis” scritto al contrario bisognerà compiere qualche conteggio, ovviamente relativo alle “prese”. Come al solito il duca di Milano non nasconde nulla e fornisce, qualora ce ne sia bisogno nel caso il lettore non capisca da sé, tutti gli strumenti per interpretare correttamente la sua corrispondenza con Corradino Giorgi. E non manca il consueto spirito beffardo, come quando nella lettera del 14 marzo per Bianca Maria Visconti citata sopra l’inviato ducale scrive: “ve piaza mandare a madama soa fema uno paro de carte da trionfi de quelle belle sce fano in quelle parte”, riferendosi non solo e non tanto alla raffinatezza delle carte da trionfi realizzate a Milano, quanto alla grande capacità di falsificazione da parte della cancelleria milanese, o quando nella stessa missiva l’ambasciatore usa la già menzionata espressione “parolle formale”, che abbiamo visto essere in connessione con un’ambasciata al duca di Savoia nella quale Corradino Giorgi ha fatto ricorso a parole ben diverse rispetto quelle contenute nelle “littere di Francesco Sforza. In ogni caso si può escludere che la richiesta delle carte da trionfi contenuta nella missiva dell’inviato sforzesco a Bianca Maria Visconti sia casuale. Le quattro missive dirette a quest’ultima paiono infatti avere un forte valore simbolico. Il 5 aprile, data quanto mai importante nella “storia alla rovescia” (si veda qui), Corradino Giorgi scrive per esempio: “Questa matina questa illustrissima madona per domino Giotino me ha facto dire vogla scrivere e pregare vostra signoria gly piaza farli havere dely primi sparsi aparenno in queli paisse”. Gli “sparsi” dovrebbero essere gli “asparagi”. Si è cercato di capire cosa possano voler dire, ma senza arrivare ad alcun risultato. Comunque di sicuro significano qualcosa.

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